Le picaresche avventure di Lilian,
recensione di Mattia Cirilli
RV-82
11.12.2024
The Sweet East è un film presentato nella sezione Quinzaine des Cinéastes al Festival di Cannes 2023 scritto da Nick Pinkerton e diretto da Sean Price Williams (noto direttore della fotografia per autori come Abel Ferrara e i fratelli Safdie), qui al suo esordio dietro la macchina da presa. Il lungometraggio è stato prodotto da Alex Ross Perry, uno dei nomi principali del movimento Mumblecore, per cui lo stesso Williams ha fatto da DOP in alcuni lavori. Distribuito solo ora in Italia grazie ad I Wonder Pictures, il lungometraggio sarà da domani, 12 dicembre, fruibile in sala, e nel cast figurano sia attori più navigati, come Jacob Elordi (Saltburn, 2023), Ayo Edebiri (The Bear, 2022) e Simon Rex -rilanciato da Red Rocket (2021) di Sean Baker -, che nuove promesse di Hollywood, come Earl Cave (The Kelly Gang, 2019) e Talia Ryder, qui nei panni della protagonista.
Il film narra la storia di Lillian, una studentessa delle superiori, che si separa dai suoi compagni di classe durante una gita scolastica per imbarcarsi in un delirante viaggio lungo l'East Coast degli Stati Uniti, attraverso il quale incontrerà una serie di strani personaggi molto diversi tra loro. Dai complottisti ai fondamentalisti islamici, la giovane Lillian dovrà diventare improvvisamente adulta, sfruttando sia la sua bellezza che la sua astuzia per farsi strada in un mondo principalmente al maschile e sempre sull’orlo di un’irreparabile detonazione.
Fin dal titolo è chiaro il territorio d’indagine dell'opera: la costa orientale degli States, la cui sola dolcezza è incarnata dal personaggio interpretato da Talia Ryder, che non sa bene dove andare a sbattere la testa, provando solo una forte apatia. L'America descritta da Williams è un paese dei balocchi sotto ogni aspetto, anche in quello della violenza più sfrontata, un paese che finisce per divertire ma senza incidere più di tanto sulla coscienza della protagonista, nonché sulla nostra. È poi indicata fin dal titolo anche l’estensione narrativa della storia, che insegue coraggiosamente la volontà di essere il riflesso di un disegno più grande del suo autore, di essere il racconto di un viaggio che però non dimostra di aver movimentato per davvero chi lo ha vissuto. Così, partendo dall’irruzione criminale di un complottista, e attraversando la soglia simbolica di uno specchio, Lillian viene trascinata in un vortice fatto di veri e propri (non) freaks, tra anarchici “artivisti”, un professore di estrema destra, pretenziosi filmmakers afroamericani e fondamentalisti islamici che amano ascoltare la musica del loro nemico ideologico.
Pinkerton, da favolista, ricalca le orme dei romanzi picareschi, fatti di personaggi orfani che, per forza di cose, sono costretti ad andare incontro a eventi e situazioni in cui mai avrebbero pensato di trovarsi, anche se Lillian dichiara tutta la sua felicità per il fatto di non trovarsi più a casa. La dose realisticamente fantastica alla Alice nel paese delle meraviglie ci trascina in un ipnotico universo parallelo, emergendo da contesti e dialoghi estremamente ripiegati su se stessi e forse, alle volte, difficilmente comprensibili da chi non conosce a fondo il contesto indagato. Per chi invece è più navigato nel mondo del cinema potrebbe tornare alla mente un dittico del regista Brian De Palma, realizzato tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni ’70, composto da Greetings (Ciao America, 1968) e Hi, mom! (1970), due ritratti puntuali e caustici degli USA del tempo. Anche qui c’era il medesimo intento commedico e satirico dell’indagine sociologica (con un giovane Robert De Niro che, soprattutto nel secondo titolo citato, risultava davvero camaleontico), capace di trasformare la sua volontà di potenza in base alle occasioni che, man mano, gli si presentavano.
Qui però l’afflato critico che animava gli autori di quel periodo è stato, per forza di cose, soppresso da una temporalità in cui domina necessariamente un bisogno di auto-conservazione, che il personaggio di Lillian esprime alla perfezione armandosi di seduzione e astuzia. Alla fine della storia il cambiamento è solo apparente, grottesco, così evidente da far notare la clausura monadica dei vari personaggi incontrati lungo il percorso, ognuno ben serrato nella propria piccola community. E ad accentuare questa sensazione ci pensa anche la scelta, da parte del regista, di mostrare esclusivamente attraverso la diretta televisiva un evento catastrofico, fruito comodamente dalle poltrone di casa, che, contrariamente al terremoto di Short Cuts (America oggi, 1993) di Robert Altman o alla pioggia di rane in Magnolia (1999) di Paul Thomas Anderson, non ha la potenza simbolica e cataclismatica necessarie a provocare un’urgenza. E alla fine, con un dolce sguardo, Lillian si limita a sorriderci, rimanendo sulla superficie delle cose, inespressa come il carattere di chi ha tentato invano di scuoterla.
Williams esordisce con un’opera molto (a volte troppo) raffinata, orchestrata secondo canoni vicini all’ormai sondatissima estetica indie. I vari interpreti sono il segreto dei loro personaggi, la cui tridimensionalità parrebbe mancare a un primo impatto nella sceneggiatura, che dedica genericamente poco spazio a ciascuno. Rimane tuttavia il grande piacere di averli incontrati, nonché la voglia di poterci scambiare ancora una chiacchiera. In generale, tutto è potenzialmente accattivante, anche se a volte questa pretesa di attrazione quasi magnetica dello spettatore è fuorviante ai fini della satira malinconica che guida il sottotesto del film. Un viaggio che invita più alla sosta che alla prosecuzione, un racconto che ha ben chiaro il percorso ma un po’ meno le tappe.
Le picaresche avventure di Lilian,
recensione di Mattia Cirilli
RV-82
11.12.2024
The Sweet East è un film presentato nella sezione Quinzaine des Cinéastes al Festival di Cannes 2023 scritto da Nick Pinkerton e diretto da Sean Price Williams (noto direttore della fotografia per autori come Abel Ferrara e i fratelli Safdie), qui al suo esordio dietro la macchina da presa. Il lungometraggio è stato prodotto da Alex Ross Perry, uno dei nomi principali del movimento Mumblecore, per cui lo stesso Williams ha fatto da DOP in alcuni lavori. Distribuito solo ora in Italia grazie ad I Wonder Pictures, il lungometraggio sarà da domani, 12 dicembre, fruibile in sala, e nel cast figurano sia attori più navigati, come Jacob Elordi (Saltburn, 2023), Ayo Edebiri (The Bear, 2022) e Simon Rex -rilanciato da Red Rocket (2021) di Sean Baker -, che nuove promesse di Hollywood, come Earl Cave (The Kelly Gang, 2019) e Talia Ryder, qui nei panni della protagonista.
Il film narra la storia di Lillian, una studentessa delle superiori, che si separa dai suoi compagni di classe durante una gita scolastica per imbarcarsi in un delirante viaggio lungo l'East Coast degli Stati Uniti, attraverso il quale incontrerà una serie di strani personaggi molto diversi tra loro. Dai complottisti ai fondamentalisti islamici, la giovane Lillian dovrà diventare improvvisamente adulta, sfruttando sia la sua bellezza che la sua astuzia per farsi strada in un mondo principalmente al maschile e sempre sull’orlo di un’irreparabile detonazione.
Fin dal titolo è chiaro il territorio d’indagine dell'opera: la costa orientale degli States, la cui sola dolcezza è incarnata dal personaggio interpretato da Talia Ryder, che non sa bene dove andare a sbattere la testa, provando solo una forte apatia. L'America descritta da Williams è un paese dei balocchi sotto ogni aspetto, anche in quello della violenza più sfrontata, un paese che finisce per divertire ma senza incidere più di tanto sulla coscienza della protagonista, nonché sulla nostra. È poi indicata fin dal titolo anche l’estensione narrativa della storia, che insegue coraggiosamente la volontà di essere il riflesso di un disegno più grande del suo autore, di essere il racconto di un viaggio che però non dimostra di aver movimentato per davvero chi lo ha vissuto. Così, partendo dall’irruzione criminale di un complottista, e attraversando la soglia simbolica di uno specchio, Lillian viene trascinata in un vortice fatto di veri e propri (non) freaks, tra anarchici “artivisti”, un professore di estrema destra, pretenziosi filmmakers afroamericani e fondamentalisti islamici che amano ascoltare la musica del loro nemico ideologico.
Pinkerton, da favolista, ricalca le orme dei romanzi picareschi, fatti di personaggi orfani che, per forza di cose, sono costretti ad andare incontro a eventi e situazioni in cui mai avrebbero pensato di trovarsi, anche se Lillian dichiara tutta la sua felicità per il fatto di non trovarsi più a casa. La dose realisticamente fantastica alla Alice nel paese delle meraviglie ci trascina in un ipnotico universo parallelo, emergendo da contesti e dialoghi estremamente ripiegati su se stessi e forse, alle volte, difficilmente comprensibili da chi non conosce a fondo il contesto indagato. Per chi invece è più navigato nel mondo del cinema potrebbe tornare alla mente un dittico del regista Brian De Palma, realizzato tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni ’70, composto da Greetings (Ciao America, 1968) e Hi, mom! (1970), due ritratti puntuali e caustici degli USA del tempo. Anche qui c’era il medesimo intento commedico e satirico dell’indagine sociologica (con un giovane Robert De Niro che, soprattutto nel secondo titolo citato, risultava davvero camaleontico), capace di trasformare la sua volontà di potenza in base alle occasioni che, man mano, gli si presentavano.
Qui però l’afflato critico che animava gli autori di quel periodo è stato, per forza di cose, soppresso da una temporalità in cui domina necessariamente un bisogno di auto-conservazione, che il personaggio di Lillian esprime alla perfezione armandosi di seduzione e astuzia. Alla fine della storia il cambiamento è solo apparente, grottesco, così evidente da far notare la clausura monadica dei vari personaggi incontrati lungo il percorso, ognuno ben serrato nella propria piccola community. E ad accentuare questa sensazione ci pensa anche la scelta, da parte del regista, di mostrare esclusivamente attraverso la diretta televisiva un evento catastrofico, fruito comodamente dalle poltrone di casa, che, contrariamente al terremoto di Short Cuts (America oggi, 1993) di Robert Altman o alla pioggia di rane in Magnolia (1999) di Paul Thomas Anderson, non ha la potenza simbolica e cataclismatica necessarie a provocare un’urgenza. E alla fine, con un dolce sguardo, Lillian si limita a sorriderci, rimanendo sulla superficie delle cose, inespressa come il carattere di chi ha tentato invano di scuoterla.
Williams esordisce con un’opera molto (a volte troppo) raffinata, orchestrata secondo canoni vicini all’ormai sondatissima estetica indie. I vari interpreti sono il segreto dei loro personaggi, la cui tridimensionalità parrebbe mancare a un primo impatto nella sceneggiatura, che dedica genericamente poco spazio a ciascuno. Rimane tuttavia il grande piacere di averli incontrati, nonché la voglia di poterci scambiare ancora una chiacchiera. In generale, tutto è potenzialmente accattivante, anche se a volte questa pretesa di attrazione quasi magnetica dello spettatore è fuorviante ai fini della satira malinconica che guida il sottotesto del film. Un viaggio che invita più alla sosta che alla prosecuzione, un racconto che ha ben chiaro il percorso ma un po’ meno le tappe.