Il ritratto oscuro,
recensione di Francesco Sellitti
RV-72
30.10.2024
“Quando la giovinezza se ne sarà andata, la sua bellezza la seguirà e improvvisamente si renderà conto che non ci saranno più trionfi per lei, oppure dovrà accontentarsi di quei mediocri trionfi che il ricordo del passato renderà più amari di sconfitte”.
Così si rivolgeva Lord Henry al giovane e bello Dorian Gray, rivolto a un futuro sì prossimo, ma ancora lontano. Queste parole risuonano però nel pieno presente per Elisabeth Sparkle come una maledizione dalla quale è impossibile scappare e che travolge tutto all’improvviso. Elisabeth è Aurora che si punge con l’arcolaio e si addormenta… una settimana sì e una no.
Non è un caso che The Substance di Coralie Fargeat abbia trionfato al Festival di Cannes 2024 per la migliore sceneggiatura: il film riesce a rendere plasticamente la definizione di opera come vero e proprio testo, dialogando al contempo con narrazioni filmiche e letterarie.
La tragedia si colloca nel mondo dello spettacolo televisivo e cinematografico, nel momento in cui, nonostante la sua stella sulla Walk of Fame, Elisabeth Sparkle (Demi Moore) non viene più ritenuta abbastanza attraente, a causa della sua età, per il pubblico del suo programma TV di aerobica. I vertici del network decidono quindi di condannarla alla sostituzione. L'attrice entra in crisi, ma vede una soluzione in “The Substance”, un prodotto che permette di ottenere, a settimane alterne, una versione più giovane e bella di sé. Dopo l’assunzione del siero, Elisabeth rinasce da sé stessa come Sue (Margaret Qualley), ma con il passare del tempo diventerà sempre più difficile riuscire a mantenere l’equilibrio settimanale fra le due vite e i due corpi.
Il rapporto con la duplicità è proprio al centro di The Substance: nonostante venga spesso ricordato alla protagonista “Tu sei una”, le due versioni di Elisabeth rispecchiano non solo due stili di vita ma due mentalità completamente diverse, come se la pellicola rappresentasse una moderna variazione di Dottor Jekyll e Mr. Hyde (1886). Difatti è molto curioso notare come la descrizione che Robert Louis Stevenson fa della trasformazione del suo protagonista sia molto simile alla resa visiva presentataci dalla Fargeat: “mandai giù la pozione. Subito dopo provai dolori laceranti: uno scricchiolio nelle ossa, una nausea mortale, e un orrore dello spirito che non può essere superato nell'attimo della nascita o della morte. Poi questa agonia cominciò a placarsi, e tornai in me come da una grave malattia. [...] Mi sentii più giovane, più leggero, più felice fisicamente; dentro di me avvertivo uno sconvolgimento cerebrale, una corrente di disordinate immagini sensuali che mi tumultuava nella fantasia e una sensazione sconosciuta ma non innocente di libertà m'invadeva l'anima”.
La regista e sceneggiatrice francese però ha l’acume di combinare assieme a Stevenson anche un altro caposaldo della letteratura ottocentesca, ossia il già citato Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. Come se il personaggio di Elisabeth incarnasse il celeberrimo quadro maledetto, e all’esagerazione della vita edonistica di Sue corrispondesse una progressiva deformazione fisica della controparte, nella cui restituzione plastica risuonano echi di cronenberghiana memoria. Così, sensualità e deformazione fisica si alternano e si fondono richiamando fortemente The Fly (La mosca, 1986), messe in risalto però dalla regia quasi microscopico-laboratoriale di Fargeat, che riprende ed evolve il proprio sguardo spesso rivolto a dettagli anatomici, già presente nel precedente Revenge (2017), per mostrare il corpo semplicemente per ciò che è: carne.
E ovviamente, data la sua natura biologica, la carne è destinata alla mutazione e al deterioramento, e la regista lo mostra in tutto il suo orrore fisico andando a ripescare da un immaginario horror grottesco di film come The Toxic Avenger (Il vendicatore tossico, 1984) o Basket Case (1982), riportando in auge persino gli eccessi stilistici (come l'uso della violenza e dello splatter) del genere.
Come oramai intuibile tra aerobica in TV e ispirazioni filmiche, la ripresa di un immaginario anni Ottanta è lampante, probabilmente frutto della formazione della Fargeat, cresciuta in quegli anni, e al contemporaneo sviluppo di un nuovo ego-edonismo, che pochi anni dopo porterà al celebre romanzo di Bret Easton Ellis American Psycho (1991).
La storia però risulta quantomai attuale: la vita condotta da Elisabeth nascosta in casa e quella di Sue in televisione possono facilmente portare alla mente la duplice esistenza, davanti e dietro lo schermo, che tutti oggigiorno viviamo. Un'esistenza perfetta e attraente agli occhi della società e una scomoda e repellente da tenere nascosta, un mondo in cui l’apparenza è dominante e dove è vietato mostrarsi infelici. La nuova realtà è quindi l’eternità immutabile delle immagini a schermo, un assetto che non ha pietà per la naturale caducità della vita.
The Substance è un’opera dalla grande capacità sintetica e rielaborativa, in grado di far dialogare perfettamente passato e presente seguendo l’evoluzione delle forme dell’intrattenimento di massa, la letteratura e il cinema. Una storia che interroga il pubblico sulla propria etica e funge da monito contro l’idolatria delle immagini: sarà ora finalmente possibile liberarsi dalle massime alla Lord Henry come “lei ha la più meravigliosa giovinezza e la giovinezza è l’unica cosa degna di possedersi” o sarà anche questo un tentativo vano?
Il ritratto oscuro,
recensione di Francesco Sellitti
RV-72
30.10.2024
“Quando la giovinezza se ne sarà andata, la sua bellezza la seguirà e improvvisamente si renderà conto che non ci saranno più trionfi per lei, oppure dovrà accontentarsi di quei mediocri trionfi che il ricordo del passato renderà più amari di sconfitte”.
Così si rivolgeva Lord Henry al giovane e bello Dorian Gray, rivolto a un futuro sì prossimo, ma ancora lontano. Queste parole risuonano però nel pieno presente per Elisabeth Sparkle come una maledizione dalla quale è impossibile scappare e che travolge tutto all’improvviso. Elisabeth è Aurora che si punge con l’arcolaio e si addormenta… una settimana sì e una no.
Non è un caso che The Substance di Coralie Fargeat abbia trionfato al Festival di Cannes 2024 per la migliore sceneggiatura: il film riesce a rendere plasticamente la definizione di opera come vero e proprio testo, dialogando al contempo con narrazioni filmiche e letterarie.
La tragedia si colloca nel mondo dello spettacolo televisivo e cinematografico, nel momento in cui, nonostante la sua stella sulla Walk of Fame, Elisabeth Sparkle (Demi Moore) non viene più ritenuta abbastanza attraente, a causa della sua età, per il pubblico del suo programma TV di aerobica. I vertici del network decidono quindi di condannarla alla sostituzione. L'attrice entra in crisi, ma vede una soluzione in “The Substance”, un prodotto che permette di ottenere, a settimane alterne, una versione più giovane e bella di sé. Dopo l’assunzione del siero, Elisabeth rinasce da sé stessa come Sue (Margaret Qualley), ma con il passare del tempo diventerà sempre più difficile riuscire a mantenere l’equilibrio settimanale fra le due vite e i due corpi.
Il rapporto con la duplicità è proprio al centro di The Substance: nonostante venga spesso ricordato alla protagonista “Tu sei una”, le due versioni di Elisabeth rispecchiano non solo due stili di vita ma due mentalità completamente diverse, come se la pellicola rappresentasse una moderna variazione di Dottor Jekyll e Mr. Hyde (1886). Difatti è molto curioso notare come la descrizione che Robert Louis Stevenson fa della trasformazione del suo protagonista sia molto simile alla resa visiva presentataci dalla Fargeat: “mandai giù la pozione. Subito dopo provai dolori laceranti: uno scricchiolio nelle ossa, una nausea mortale, e un orrore dello spirito che non può essere superato nell'attimo della nascita o della morte. Poi questa agonia cominciò a placarsi, e tornai in me come da una grave malattia. [...] Mi sentii più giovane, più leggero, più felice fisicamente; dentro di me avvertivo uno sconvolgimento cerebrale, una corrente di disordinate immagini sensuali che mi tumultuava nella fantasia e una sensazione sconosciuta ma non innocente di libertà m'invadeva l'anima”.
La regista e sceneggiatrice francese però ha l’acume di combinare assieme a Stevenson anche un altro caposaldo della letteratura ottocentesca, ossia il già citato Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. Come se il personaggio di Elisabeth incarnasse il celeberrimo quadro maledetto, e all’esagerazione della vita edonistica di Sue corrispondesse una progressiva deformazione fisica della controparte, nella cui restituzione plastica risuonano echi di cronenberghiana memoria. Così, sensualità e deformazione fisica si alternano e si fondono richiamando fortemente The Fly (La mosca, 1986), messe in risalto però dalla regia quasi microscopico-laboratoriale di Fargeat, che riprende ed evolve il proprio sguardo spesso rivolto a dettagli anatomici, già presente nel precedente Revenge (2017), per mostrare il corpo semplicemente per ciò che è: carne.
E ovviamente, data la sua natura biologica, la carne è destinata alla mutazione e al deterioramento, e la regista lo mostra in tutto il suo orrore fisico andando a ripescare da un immaginario horror grottesco di film come The Toxic Avenger (Il vendicatore tossico, 1984) o Basket Case (1982), riportando in auge persino gli eccessi stilistici (come l'uso della violenza e dello splatter) del genere.
Come oramai intuibile tra aerobica in TV e ispirazioni filmiche, la ripresa di un immaginario anni Ottanta è lampante, probabilmente frutto della formazione della Fargeat, cresciuta in quegli anni, e al contemporaneo sviluppo di un nuovo ego-edonismo, che pochi anni dopo porterà al celebre romanzo di Bret Easton Ellis American Psycho (1991).
La storia però risulta quantomai attuale: la vita condotta da Elisabeth nascosta in casa e quella di Sue in televisione possono facilmente portare alla mente la duplice esistenza, davanti e dietro lo schermo, che tutti oggigiorno viviamo. Un'esistenza perfetta e attraente agli occhi della società e una scomoda e repellente da tenere nascosta, un mondo in cui l’apparenza è dominante e dove è vietato mostrarsi infelici. La nuova realtà è quindi l’eternità immutabile delle immagini a schermo, un assetto che non ha pietà per la naturale caducità della vita.
The Substance è un’opera dalla grande capacità sintetica e rielaborativa, in grado di far dialogare perfettamente passato e presente seguendo l’evoluzione delle forme dell’intrattenimento di massa, la letteratura e il cinema. Una storia che interroga il pubblico sulla propria etica e funge da monito contro l’idolatria delle immagini: sarà ora finalmente possibile liberarsi dalle massime alla Lord Henry come “lei ha la più meravigliosa giovinezza e la giovinezza è l’unica cosa degna di possedersi” o sarà anche questo un tentativo vano?