L'ultima notte dell'umanità,
recensione di Antonio Orrico
RV-31
06.10.2023
Anno Domini 1999. Tutto è pronto per la classica notte di Capodanno, ma questa volta lo scoccare della mezzanotte assume una prospettiva inedita. Un nuovo millennio sta per arrivare, e con esso la paura del cosiddetto Millennium Bug. Un gruppo di personaggi dell’alta società borghese decide di riunirsi e festeggiare quest’evento unico al Palace Hotel di Gstaad, in Svizzera. La storica notte tra il 31 Dicembre 1999 e il 1° Gennaio 2000 si rivelerà imprevedibile sotto tutti i punti di vista.
A un primo sguardo, The Palace sembrerebbe solo rivisitare il modello della commedia “vanziniana” e del cine-panettone, oltre che del più recente Triangle Of Sadness di Ruben Östlund, vincitore della Palma d’Oro di Cannes nel 2022. Eppure, l’occhio di Polanski è teso da tutt’altra parte, scendendo in tutt’altre profondità. Ciò che viene messo in scena è un completo nonsense, la fine di tutto ciò che lo “Stato Unito d’Europa” aveva creato e in cui aveva creduto fino ad allora.
Ed è così che The Palace parla delle cause dell’immobilismo della società occidentale, completamente ferma allo scorso millennio (i personaggi stessi, ripresi da Polanski nelle loro amene funzioni, diranno a più riprese che “il tempo si è cristallizzato”), ferma a una concezione arcaica in cui alla fine sono sempre gli stessi attori a essere i partecipanti attivi della vita, mondana o quotidiana che sia. Attori che si riscoprono mummie talmente incapaci di leggere l’attualità da arrivare a deriderla, nonostante le costanti minacce che riserva. Ne consegue una “babelizzazione” dell’Europa che il regista polacco sceglie di disfare sotto i colpi di questa serie di freaks, figure mostruose, rappresentanti la borghesia e lo star system di oggi e di sempre, pronti ad approfittare anche della più macabra svolta per conservare il loro status.
Il pessimismo è palpabile. Quello di The Palace è un mondo mortifero, in cui non c’è spazio per la risata perché c’è possibilità, ormai, soltanto di provare pietà per l’umanità intera. Il Palace Hotel diventa luogo per scoprire il nonsense dell’umanità stessa. Umanità in cui tutti, dalla più giovane al più vecchio, sono ridotti a pure macchiette, inutili e inutilizzabili, senza uno scopo se non quello di rendere conto di una specie sempre meno interessante, sempre più diretta verso il baratro e dannosa per qualsiasi altra forma di vita.
In tutto questo, Polanski è pronto a sbeffeggiare tutti, a documentare il marasma in modo divertito e a rivendicare il suo biasimo anche nei confronti della nuova generazione cinematografica. L’hotel del suo film, ricreato in digitale in modo del tutto beffardo, assume delle fattezze di “andersoniana” memoria, così come molti totali simmetrici puntano il dito nei confronti del cinema indipendente odierno, alfiere del pubblico “perbenista”, ridotto sempre più alla copia carbone del conformismo, incapace di avere una visione che sia davvero originale.
Impossibile non pensare che, oltre a un richiamo autoreferenziale nei confronti di cult demenziali come What? (1972) e Cul-de-sac (1966), questo The Palace sia anche una diretta e naturale conseguenza dell’ultimo J’Accuse (2019), con cui Polanski paragonava la sua figura e le sue controversie private a quella e a quelle di Alfred Dreyfus. Dopo aver accusato l’opinione pubblica di avergli sostanzialmente rovinato la carriera, ecco che con The Palace la sua deriva nichilista e la sua sfiducia nei confronti del genere umano acquisiscono tratti ancora più netti. Ed è molto interessante capire come, dal punto di vista della forma, ciò avvenga in modo radicalmente opposto al film precedente.
Quest’ultimo si era contraddistinto per una regia ferma, radicale e intelligente nell’opprimere lo spazio scenico affinché restituisse allo spettatore il senso di crescente claustrofobia provato dai suoi protagonisti. In The Palace assistiamo invece a inquadrature apparentemente precise e simmetriche, ma in realtà geometricamente sfalsate, imperfette. In esse la macchina da presa lascia sistematicamente uno “scarto laterale” rispetto alla centralità tipica dei punti macchina di uno Wes Anderson. Una strategia molto fine, utilizzata da Polanski per omologarsi fintamente proprio a quegli stilemi, finendo invece poi per scostarsene così da riaffermare la propria autorialità anche dal punto di vista registico.
The Palace ci presenta dunque un’umanità sempre più artificiale, così come artificiali sono d’altronde anche i visi di Fanny Ardant, Sydne Rome e Mickey Rourke, completamente modificati dalla chirurgia. A conferma di ciò, anche il pinguino dell’atto finale, completamente ricreato in un digitale scadente e posticcio, mira a produrre un distaccamento nei confronti del cinema odierno. Proprio l’uso grottesco e grossolano della CGI restituisce il senso plastificato e omologante dei tempi che corrono.
Un Polanski che, dietro la commedia popolare e seguendo il modello di Buñuel, nasconde perciò un animo nerissimo, tremendamente pessimista e quasi apocalittico. The Palace è un film che ripudia e condanna tutto ciò che il mondo stesso (e con lui anche il cinema) rischia di diventare o è già diventato: un cimitero di morti che camminano.
L'ultima notte dell'umanità,
recensione di Antonio Orrico
RV-31
06.10.2023
Anno Domini 1999. Tutto è pronto per la classica notte di Capodanno, ma questa volta lo scoccare della mezzanotte assume una prospettiva inedita. Un nuovo millennio sta per arrivare, e con esso la paura del cosiddetto Millennium Bug. Un gruppo di personaggi dell’alta società borghese decide di riunirsi e festeggiare quest’evento unico al Palace Hotel di Gstaad, in Svizzera. La storica notte tra il 31 Dicembre 1999 e il 1° Gennaio 2000 si rivelerà imprevedibile sotto tutti i punti di vista.
A un primo sguardo, The Palace sembrerebbe solo rivisitare il modello della commedia “vanziniana” e del cine-panettone, oltre che del più recente Triangle Of Sadness di Ruben Östlund, vincitore della Palma d’Oro di Cannes nel 2022. Eppure, l’occhio di Polanski è teso da tutt’altra parte, scendendo in tutt’altre profondità. Ciò che viene messo in scena è un completo nonsense, la fine di tutto ciò che lo “Stato Unito d’Europa” aveva creato e in cui aveva creduto fino ad allora.
Ed è così che The Palace parla delle cause dell’immobilismo della società occidentale, completamente ferma allo scorso millennio (i personaggi stessi, ripresi da Polanski nelle loro amene funzioni, diranno a più riprese che “il tempo si è cristallizzato”), ferma a una concezione arcaica in cui alla fine sono sempre gli stessi attori a essere i partecipanti attivi della vita, mondana o quotidiana che sia. Attori che si riscoprono mummie talmente incapaci di leggere l’attualità da arrivare a deriderla, nonostante le costanti minacce che riserva. Ne consegue una “babelizzazione” dell’Europa che il regista polacco sceglie di disfare sotto i colpi di questa serie di freaks, figure mostruose, rappresentanti la borghesia e lo star system di oggi e di sempre, pronti ad approfittare anche della più macabra svolta per conservare il loro status.
Il pessimismo è palpabile. Quello di The Palace è un mondo mortifero, in cui non c’è spazio per la risata perché c’è possibilità, ormai, soltanto di provare pietà per l’umanità intera. Il Palace Hotel diventa luogo per scoprire il nonsense dell’umanità stessa. Umanità in cui tutti, dalla più giovane al più vecchio, sono ridotti a pure macchiette, inutili e inutilizzabili, senza uno scopo se non quello di rendere conto di una specie sempre meno interessante, sempre più diretta verso il baratro e dannosa per qualsiasi altra forma di vita.
In tutto questo, Polanski è pronto a sbeffeggiare tutti, a documentare il marasma in modo divertito e a rivendicare il suo biasimo anche nei confronti della nuova generazione cinematografica. L’hotel del suo film, ricreato in digitale in modo del tutto beffardo, assume delle fattezze di “andersoniana” memoria, così come molti totali simmetrici puntano il dito nei confronti del cinema indipendente odierno, alfiere del pubblico “perbenista”, ridotto sempre più alla copia carbone del conformismo, incapace di avere una visione che sia davvero originale.
Impossibile non pensare che, oltre a un richiamo autoreferenziale nei confronti di cult demenziali come What? (1972) e Cul-de-sac (1966), questo The Palace sia anche una diretta e naturale conseguenza dell’ultimo J’Accuse (2019), con cui Polanski paragonava la sua figura e le sue controversie private a quella e a quelle di Alfred Dreyfus. Dopo aver accusato l’opinione pubblica di avergli sostanzialmente rovinato la carriera, ecco che con The Palace la sua deriva nichilista e la sua sfiducia nei confronti del genere umano acquisiscono tratti ancora più netti. Ed è molto interessante capire come, dal punto di vista della forma, ciò avvenga in modo radicalmente opposto al film precedente.
Quest’ultimo si era contraddistinto per una regia ferma, radicale e intelligente nell’opprimere lo spazio scenico affinché restituisse allo spettatore il senso di crescente claustrofobia provato dai suoi protagonisti. In The Palace assistiamo invece a inquadrature apparentemente precise e simmetriche, ma in realtà geometricamente sfalsate, imperfette. In esse la macchina da presa lascia sistematicamente uno “scarto laterale” rispetto alla centralità tipica dei punti macchina di uno Wes Anderson. Una strategia molto fine, utilizzata da Polanski per omologarsi fintamente proprio a quegli stilemi, finendo invece poi per scostarsene così da riaffermare la propria autorialità anche dal punto di vista registico.
The Palace ci presenta dunque un’umanità sempre più artificiale, così come artificiali sono d’altronde anche i visi di Fanny Ardant, Sydne Rome e Mickey Rourke, completamente modificati dalla chirurgia. A conferma di ciò, anche il pinguino dell’atto finale, completamente ricreato in un digitale scadente e posticcio, mira a produrre un distaccamento nei confronti del cinema odierno. Proprio l’uso grottesco e grossolano della CGI restituisce il senso plastificato e omologante dei tempi che corrono.
Un Polanski che, dietro la commedia popolare e seguendo il modello di Buñuel, nasconde perciò un animo nerissimo, tremendamente pessimista e quasi apocalittico. The Palace è un film che ripudia e condanna tutto ciò che il mondo stesso (e con lui anche il cinema) rischia di diventare o è già diventato: un cimitero di morti che camminano.