Un'ultima volta ancora
recensione di Davide Spinelli
RV-99
04.04.2025
Con The last showgirl, la Pamela Anderson del celebre Baywatch (1989) diventa solo un ricordo. L’attrice statunitense, infatti, grazie al film di Gia Coppola presentato a Telluride Film Festival e ora nelle sale italiane, è finalmente riuscita in quella contro-narrazione del sè che insegue più o meno dall’uscita della serie Pam & Tommy (2022) prima, e del documentario Pamela, A love Story (2023) poi. Tant’è che la Shelly protagonista del film della regista nipote di Francis Ford Coppola sembra per certi versi raccontare proprio il percorso di Anderson, cioè del coming-back come dicono gli americani.
Ma se il riscatto rappresenta l’innesco narrativo su cui poggia The last showgirl, ben presto Coppola innesta altri gradi di complessità nella sua pellicola, dal discorso generazionale a quello esistenzialista. Il paragone con The Substance (2024) - come quasi tutta la critica ha fatto notare - é presto fatto: conosciamo il personaggio di Anderson nelle stessa situazione in cui si trova quello di Demi Moore nel film di Fargeat, ossia poco prima di essere fatta fuori da un show televisivo (Le Razzle Dazzle) perché troppo anziana.
Ma a questo punto, se The Substance imposta una narrazione in cui il corpo è una somateca, ossia un luogo politico per citare Preciado, in The last showgirl Coppola trova una dimensione più spirituale, per certi versi impalbabile, ma che racchiude un’efficacia sorprendente, a partire dalla perfomance di Pamela Anderson.
The last showgirl, quindi, è a tutti gli effetti un ottimo esercizio di character development, in cui l’alternanza tra digesi statica e dinamica conferisce alla pellicola una ritmo piacevole, calcolato, che si perde solo dove Coppola abbandona la prospettiva di Shelly. È come se la finta soggettiva “caratteriale” con cui la regista plasma lo sguardo del film, perdesse di consistenza proprio laddove gli occhi con cui guardiamo la storia non sono più quelli della protagonista.
Allo stesso modo, il tema che lega The last showgirl per esempio al lavoro precedente di Coppola, ossia Mainstream (2021) – il rapporto tra l’artista e il successo commerciale o popolare – trova forse una riposta meno incisiva, che non pareggia lo spessore e la complessità di un quesito del genere, a tutti gli effetti “nicciano” direbbe Eco.
Al contrario, sempre poggiandosi sull’interpretazione di Anderson, The last showgirl amplifica e ribadisce l’idea di The Substance: perché una donna di cinquant’anni non serve più a nulla nella nostra società? Ecco, forse, oltre alla sua protagonista, l’altro punto di forza del film sta proprio nella capacità di Coppola di riprodurre un’angoscia tanto visuale quanto esistenziale. Pensiamo, allora, alla lunghe sequenze in cui Shelly vaga per Las Vegas e ai suoi monologhi, come fosse in preda a una nausea esistenziale.
Ma non solo, nel film, ritroviamo forse anche quel senso di ridicolo, di impotenza - che ben trasmette Moore in The Substance – riassunto nella scena forse più riuscita, ossia quella in cui Annette, amica di Shelly interpretata da Jamie Curtis, balla sopra il tavolo di un casino accompagnata dalle note struggenti di Total Eclipse of The Heart, il celebre pezzo di Bonnie Tyler.
Isomma, The last showgirl, tra paranoia e disincantato, torna sulla nemesi del sogno americano, possibile, voluto, intentato. Il risultato è una pellicola incisiva, che a volte perde la bussola sociologica, ma che alla fine si aggrappa alla sua protagonista e all’infferabilita del non-luogo per eccellenza, ossia Las vegas.
Un'ultima volta ancora
recensione di Davide Spinelli
RV-99
04.04.2025
Con The last showgirl, la Pamela Anderson del celebre Baywatch (1989) diventa solo un ricordo. L’attrice statunitense, infatti, grazie al film di Gia Coppola presentato a Telluride Film Festival e ora nelle sale italiane, è finalmente riuscita in quella contro-narrazione del sè che insegue più o meno dall’uscita della serie Pam & Tommy (2022) prima, e del documentario Pamela, A love Story (2023) poi. Tant’è che la Shelly protagonista del film della regista nipote di Francis Ford Coppola sembra per certi versi raccontare proprio il percorso di Anderson, cioè del coming-back come dicono gli americani.
Ma se il riscatto rappresenta l’innesco narrativo su cui poggia The last showgirl, ben presto Coppola innesta altri gradi di complessità nella sua pellicola, dal discorso generazionale a quello esistenzialista. Il paragone con The Substance (2024) - come quasi tutta la critica ha fatto notare - é presto fatto: conosciamo il personaggio di Anderson nelle stessa situazione in cui si trova quello di Demi Moore nel film di Fargeat, ossia poco prima di essere fatta fuori da un show televisivo (Le Razzle Dazzle) perché troppo anziana.
Ma a questo punto, se The Substance imposta una narrazione in cui il corpo è una somateca, ossia un luogo politico per citare Preciado, in The last showgirl Coppola trova una dimensione più spirituale, per certi versi impalbabile, ma che racchiude un’efficacia sorprendente, a partire dalla perfomance di Pamela Anderson.
The last showgirl, quindi, è a tutti gli effetti un ottimo esercizio di character development, in cui l’alternanza tra digesi statica e dinamica conferisce alla pellicola una ritmo piacevole, calcolato, che si perde solo dove Coppola abbandona la prospettiva di Shelly. È come se la finta soggettiva “caratteriale” con cui la regista plasma lo sguardo del film, perdesse di consistenza proprio laddove gli occhi con cui guardiamo la storia non sono più quelli della protagonista.
Allo stesso modo, il tema che lega The last showgirl per esempio al lavoro precedente di Coppola, ossia Mainstream (2021) – il rapporto tra l’artista e il successo commerciale o popolare – trova forse una riposta meno incisiva, che non pareggia lo spessore e la complessità di un quesito del genere, a tutti gli effetti “nicciano” direbbe Eco.
Al contrario, sempre poggiandosi sull’interpretazione di Anderson, The last showgirl amplifica e ribadisce l’idea di The Substance: perché una donna di cinquant’anni non serve più a nulla nella nostra società? Ecco, forse, oltre alla sua protagonista, l’altro punto di forza del film sta proprio nella capacità di Coppola di riprodurre un’angoscia tanto visuale quanto esistenziale. Pensiamo, allora, alla lunghe sequenze in cui Shelly vaga per Las Vegas e ai suoi monologhi, come fosse in preda a una nausea esistenziale.
Ma non solo, nel film, ritroviamo forse anche quel senso di ridicolo, di impotenza - che ben trasmette Moore in The Substance – riassunto nella scena forse più riuscita, ossia quella in cui Annette, amica di Shelly interpretata da Jamie Curtis, balla sopra il tavolo di un casino accompagnata dalle note struggenti di Total Eclipse of The Heart, il celebre pezzo di Bonnie Tyler.
Isomma, The last showgirl, tra paranoia e disincantato, torna sulla nemesi del sogno americano, possibile, voluto, intentato. Il risultato è una pellicola incisiva, che a volte perde la bussola sociologica, ma che alla fine si aggrappa alla sua protagonista e all’infferabilita del non-luogo per eccellenza, ossia Las vegas.