Girotondo di sguardi,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-76
14.11.2024
Mentre sullo schermo scorrono dei filmini di famiglia, un dettaglio cattura subito l’attenzione dello spettatore. La giovane madre inquadrata dalla telecamera ha una maglia con sopra un testo che recita “I’m watching you”. Poche scene più tardi, vediamo il padre della coppia aggirarsi in un supermercato. La sua maglia ha sopra uno smile con gli occhi barrati da crocette.
Bastano questi due elementi che compaiono di sfuggita nei primi minuti di Stranger Eyes per suggerire come il quarto lungometraggio del singaporiano Yeo Siew Hua, sia un’opera che cerca di declinare i propri temi, quello dello sguardo e della visione, innervando il tessuto filmico di elementi che rimandano maniacalmente ad essi.
Il voyeurismo è un concetto analizzato dal cinema sin dalle proprie origini, che ha adattato, di volta in volta, questa materia all’evolversi delle tecnologie della visione e dei vari media, incastonandolo nei generi più disparati. La svolta del digitale negli anni ’90 ha poi portato questo tema, soprattutto nel panorama asiatico, a legarsi con generi come l’horror per essere in seguito lentamente riassorbite dentro i binari più usuali del thriller.
Stranger Eyes non ha l’uniformità estetica e concettuale per essere accostato ai grandi film che si interrogano su questo argomento, eppure è in grado di offrire allo spettatore diverse suggestioni non banali, soprattutto se a recepirle è il pubblico dell’era post-covid.
In una Singapore configurata e rappresentata come una qualsiasi grande metropoli dell’estremo Oriente, viene messo in scena il triangolo fra una coppia di giovani sposi, Junyang e Peiying, alla ricerca di una figlia misteriosamente scomparsa e il solitario dipendente di un supermercato, un uomo che ha sviluppato l'angosciante abitudine di spiare Peiyng dalla finestra della propria casa e di riprendere quello che vede.
La trama di Stranger Eyes sembra indirizzare l’opera sulla linea di un thriller psicologico che gioca con le morbosità del voyeurismo. Ben presto, però, le aspettative vengono bruscamente disattese e il lungometraggio muta lentamente in un dramma familiare caratterizzato da un’atmosfera di romanticismo che sembra discendere direttamente dalle poetiche di registi come Wong Kar-wai e Tsai Ming-liang. Come nei migliori film dei due maestri, Yeo Siew Hua pare estremamente interessato a ritrarre le solitudini dei suoi personaggi, utilizzando, in questo caso specifico, dei dispositivi di ripresa video come amplificatori di esse, come fossero degli sguardi rivelatori che possono arrivare ad essere più autentici delle immagini stesse. Sguardi che - nel loro essere delle cristallizzazioni di un punto di vista di un soggetto su un oggetto - possono mettere in risalto vuoti e inquietudini.
Sguardi esterni, ma silenziosi e invisibili, sguardi mediati e operati da una giusta distanza, la stessa che ha attanagliato buona parte della popolazione mondiale (e in special modo gli abitanti delle grandi metropoli asiatiche) durante il covid, e che ha portato a mutare la nostra sensibilità e il nostro modo di concepire i rapporti interpersonali. Sguardi sì voyeuristici, ma privi di quella dimensione morbosa - che deriva direttamente dal thriller e dall'horror - che caratterizza altri film che partono da analoghi spunti.
Lo stesso casting di Lee Kang-sheng è atto ad intensificare, minuto dopo minuto, la delicatezza e la mesta umanità ritratta da Yeo Siew Hua. Il leggendario attore taiwanese, non a caso, è infatti un volto presente in quasi tutte le opere di Tsai Ming-liang e il suo personaggio, nel suo silenzio quasi assoluto, sembra fuoriuscire da film come Vive l’amour (1994), Stray Dogs (2013) o il più recente Days (2020). Tre lungometraggi che (come quasi tutta l’opera di Tsai) interrogano la solitudine e l’alienazione degli abitanti delle enormi città asiatiche.
Vi è però un’altra declinazione interessante che Stranger Eyes prova, forse sin troppo cerebralmente, a portare avanti nel corso della narrazione. Ben presto si evince che vi è una differenza sostanziale fra le immagini riprese dal voyeur interpretato da Lee Kang-sheng e quelle che vengono catturate dalle onnipresenti camere di video-sorveglianza. Le prime, sono infatti immagini che si fanno sempre carico di uno sguardo, anche se invisibile, le seconde, invece, sono quelle che Harun Farocki - artista e teorico tedesco che ha sceneggiato anche numerose pellicole di Christian Petzold - definiva immagini operative. Immagini funzionali, prodotte automaticamente da un occhio meccanico, privo di soggettività e di un valore estetico. Immagini che vengono interrogate solo quando servono a qualcosa, immagini che controllano e che - illudendo di restituire una chiarezza e un’imparzialità della visione - sono in grado di mentire più di quelle prodotte intenzionalmente da soggetti coscienti.
Le immagini di Stranger Eyes, gli occhi dello “straniero” del titolo del film, sembrano quindi essere quelle filtrate attraverso le camere di videosorveglianza che costellano le metropoli. Immagini che si prestano a essere colmate da diversi sguardi senza che essi, però, possano mai entrare veramente in sintonia con l’oggetto guardato, immagini ben più fluide e ambigue di quelle prodotte dal voyeur.
Ogni uomo, dice l’ispettore di polizia, può essere colpevole se viene scrutato da videocamere di sorveglianza. Ma, sembra suggerire il regista nel finale del lungometraggio, esiste sempre una giusta distanza da cui poter guardare ed entrare in sintonia con l’oggetto osservato...forse è proprio questa l'empatia dello sguardo del cinema.
Girotondo di sguardi,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-76
14.11.2024
Mentre sullo schermo scorrono dei filmini di famiglia, un dettaglio cattura subito l’attenzione dello spettatore. La giovane madre inquadrata dalla telecamera ha una maglia con sopra un testo che recita “I’m watching you”. Poche scene più tardi, vediamo il padre della coppia aggirarsi in un supermercato. La sua maglia ha sopra uno smile con gli occhi barrati da crocette.
Bastano questi due elementi che compaiono di sfuggita nei primi minuti di Stranger Eyes per suggerire come il quarto lungometraggio del singaporiano Yeo Siew Hua, sia un’opera che cerca di declinare i propri temi, quello dello sguardo e della visione, innervando il tessuto filmico di elementi che rimandano maniacalmente ad essi.
Il voyeurismo è un concetto analizzato dal cinema sin dalle proprie origini, che ha adattato, di volta in volta, questa materia all’evolversi delle tecnologie della visione e dei vari media, incastonandolo nei generi più disparati. La svolta del digitale negli anni ’90 ha poi portato questo tema, soprattutto nel panorama asiatico, a legarsi con generi come l’horror per essere in seguito lentamente riassorbite dentro i binari più usuali del thriller.
Stranger Eyes non ha l’uniformità estetica e concettuale per essere accostato ai grandi film che si interrogano su questo argomento, eppure è in grado di offrire allo spettatore diverse suggestioni non banali, soprattutto se a recepirle è il pubblico dell’era post-covid.
In una Singapore configurata e rappresentata come una qualsiasi grande metropoli dell’estremo Oriente, viene messo in scena il triangolo fra una coppia di giovani sposi, Junyang e Peiying, alla ricerca di una figlia misteriosamente scomparsa e il solitario dipendente di un supermercato, un uomo che ha sviluppato l'angosciante abitudine di spiare Peiyng dalla finestra della propria casa e di riprendere quello che vede.
La trama di Stranger Eyes sembra indirizzare l’opera sulla linea di un thriller psicologico che gioca con le morbosità del voyeurismo. Ben presto, però, le aspettative vengono bruscamente disattese e il lungometraggio muta lentamente in un dramma familiare caratterizzato da un’atmosfera di romanticismo che sembra discendere direttamente dalle poetiche di registi come Wong Kar-wai e Tsai Ming-liang. Come nei migliori film dei due maestri, Yeo Siew Hua pare estremamente interessato a ritrarre le solitudini dei suoi personaggi, utilizzando, in questo caso specifico, dei dispositivi di ripresa video come amplificatori di esse, come fossero degli sguardi rivelatori che possono arrivare ad essere più autentici delle immagini stesse. Sguardi che - nel loro essere delle cristallizzazioni di un punto di vista di un soggetto su un oggetto - possono mettere in risalto vuoti e inquietudini.
Sguardi esterni, ma silenziosi e invisibili, sguardi mediati e operati da una giusta distanza, la stessa che ha attanagliato buona parte della popolazione mondiale (e in special modo gli abitanti delle grandi metropoli asiatiche) durante il covid, e che ha portato a mutare la nostra sensibilità e il nostro modo di concepire i rapporti interpersonali. Sguardi sì voyeuristici, ma privi di quella dimensione morbosa - che deriva direttamente dal thriller e dall'horror - che caratterizza altri film che partono da analoghi spunti.
Lo stesso casting di Lee Kang-sheng è atto ad intensificare, minuto dopo minuto, la delicatezza e la mesta umanità ritratta da Yeo Siew Hua. Il leggendario attore taiwanese, non a caso, è infatti un volto presente in quasi tutte le opere di Tsai Ming-liang e il suo personaggio, nel suo silenzio quasi assoluto, sembra fuoriuscire da film come Vive l’amour (1994), Stray Dogs (2013) o il più recente Days (2020). Tre lungometraggi che (come quasi tutta l’opera di Tsai) interrogano la solitudine e l’alienazione degli abitanti delle enormi città asiatiche.
Vi è però un’altra declinazione interessante che Stranger Eyes prova, forse sin troppo cerebralmente, a portare avanti nel corso della narrazione. Ben presto si evince che vi è una differenza sostanziale fra le immagini riprese dal voyeur interpretato da Lee Kang-sheng e quelle che vengono catturate dalle onnipresenti camere di video-sorveglianza. Le prime, sono infatti immagini che si fanno sempre carico di uno sguardo, anche se invisibile, le seconde, invece, sono quelle che Harun Farocki - artista e teorico tedesco che ha sceneggiato anche numerose pellicole di Christian Petzold - definiva immagini operative. Immagini funzionali, prodotte automaticamente da un occhio meccanico, privo di soggettività e di un valore estetico. Immagini che vengono interrogate solo quando servono a qualcosa, immagini che controllano e che - illudendo di restituire una chiarezza e un’imparzialità della visione - sono in grado di mentire più di quelle prodotte intenzionalmente da soggetti coscienti.
Le immagini di Stranger Eyes, gli occhi dello “straniero” del titolo del film, sembrano quindi essere quelle filtrate attraverso le camere di videosorveglianza che costellano le metropoli. Immagini che si prestano a essere colmate da diversi sguardi senza che essi, però, possano mai entrare veramente in sintonia con l’oggetto guardato, immagini ben più fluide e ambigue di quelle prodotte dal voyeur.
Ogni uomo, dice l’ispettore di polizia, può essere colpevole se viene scrutato da videocamere di sorveglianza. Ma, sembra suggerire il regista nel finale del lungometraggio, esiste sempre una giusta distanza da cui poter guardare ed entrare in sintonia con l’oggetto osservato...forse è proprio questa l'empatia dello sguardo del cinema.