Che lo spettacolo cominci
recensione di Pavel Belli Micati
RV-70
21.10.2024
Cosa fa ridere e cosa no? Ma soprattutto, chi è che lo stabilisce? Jason Reitman non ha bisogno di presentazioni, il suo Saturday Night (presente nei nostri cinema il 21, 22 e 23 ottobre) sì. Il regista di Juno (2007) e Young Adult (2011) riscrive gli albori del live show più famoso d’America e ci fa rivivere i novanta minuti che separano i celeberrimi “The Not Ready for Prime Time Players” dalla trasmissione della prima puntata del Saturday Night Live, la notte dell’11 ottobre di ormai cinquant’anni fa. Il pubblico italiano conosce bene la comicità di Billy Crystal e dei Blues Brothers, il duo interpretato da John Belushi e Dan Aykroyd - rivelazioni scoperte proprio da SNL -, meno il contesto storico e culturale in cui il celebre programma è stato concepito. Nel 1975 il prime time della NBC è monopolizzato dal Tonight Show di Johnny Carson, protetto dall’allora produttore esecutivo David Tebet che minaccia Michaels, l’ideatore del nuovo programma, di bloccarne la messa in onda. Un branco di famelici CEOs è riunito nella stanza accanto, in attesa del fiasco preannunciato, i reparti tecnici si fanno guerra tra loro, gli attori litigano e gli autori si drogano: tutto è un gran casino.
“Lo spettacolo deve continuare non perché è iniziato, ma perché sono le 11 e 30”: la scena iniziale ci accoglie sulla soglia degli studi della NBC, un’umida serata a Manhattan. È il 1975, sono le dieci, un valletto sul marciapiede invita la gente a uno spettacolo che promette grandi risate. Dei fogli in fiamme volano verso il basso: in alto George Carlin - comico noto per il monologo antiproibizionista “Seven dirty words” e fautore della regolamentazione sulla censura del linguaggio televisivo - in risposta alla FCC che scandaglia il copione dello show alla ricerca di oscenità da censurare, dà fuoco a una copia e la getta dalla finestra dello studio 8H. Quella sera, i tre piani del Rockfeller Center sono occupati da una nuova generazione di attori, autori e produttori, tutti animati da un grande sogno: far ridere, di brutto, l’America intera. Dick Ebersol, executive della NBC, ha chiamato un giovane imberbe, Lorne Michaels, per proporre qualcosa che occupi la fascia della seconda serata. La sfida è la trasmissione di un live show, ma il brutto della diretta è il rischio della sua cancellazione.
Cosa ci fa un lama all’ingresso? Chi è che ruba i Muppets e li impicca alle porte dei camerini? Perché Milton Berle mostra l’uccello a Chevy Chase? Dov’è John Belushi? Reitman conosce luci e ombre del Saturday Night Live, non solo perché in passato ha collaborato alla realizzazione di alcuni sketch, ma anche perché suo padre, Ivan Reitman, ha diretto gli stessi Aykroyd e Belushi nei rispettivi film cult Ghostbusters (1984) e Animal House (1978). È di famiglia, insomma. Il regista canadese raccoglie gli aneddoti dei presenti a quella fatidica sera dell’ottobre 1975, e riformulandoli in un panopticon di adrenalina ed eccitazione racconta, in meno di due ore, il mito dietro la creazione dello show del sabato sera. Il risultato non è leggendario, ma solo perché il film non è un’ode al creazionismo: come succede nella diretta, alcuni pezzi funzionano più di altri. La chicca è l’unione di un passato storico e un presente ricettivo su un copione comune che accontenta sia i vecchi aficionados che i nuovi fans.
“Hai mai nostalgia di un momento, ancora mentre lo vivi?” chiede Jane Curtin - volto storico di SNL e ribattezzata “Queen of Deadpan” - a Michaels, qui interpretato da un ipnotico Gabriel LaBelle (The Fabelmans, 2022), in una scena climatica del film: mancano pochi minuti alla trasmissione, i due guardano John Belushi che allo show ha preferito pattinare sul ghiaccio. I riflettori del late night show puntano al nonsense della battuta, alla sua rottura nel momento, ma è il cast eccezionale che riproduce l’effetto nostalgico nel pubblico: i caratteristi di Reitman sono bravissimi; eppure, nell’insieme le facce sono tante, l’equipe variegata e i tributi così numerosi da non lasciare spazio a sofismi fondazionalisti o approfondimenti sui personaggi. È ciò che il pubblico e la critica statunitensi hanno apprezzato di meno in Saturday Night, ma attenzione: anche se un’analisi delle celebri figure di SNL è opportuna, il focus della storia è sulla comicità, non sui volti che l’hanno plasmata.
Uno spazio maggiore è riservato a Michaels e sua moglie Rosie Shuster (interpretata da una fantastica Rachel Sennott) - gli storici genitori di SNL -, ma l’arco narrativo di Saturday Night è il countdown concitato verso un evento epocale: l’invenzione di una comicità che rompe definitivamente con la commedia, un modo nuovo di esorcizzare il senso comune. Freud agli inizi del secolo scorso, rileggeva Aristotele e risistemava il concetto di umorismo; designando il “motto di spirito” come deviazione dalla norma che non accompagna per forza una sua articolazione, il critico Bachtin riprendeva lo psicologo austriaco e nella sua idea di carnascialesco restituiva dignità all’uso dell’irragionevole nella sua ricognizione storica sul canone comico. Attenti ricettori di queste riletture, gli statunitensi rimangono i più virtuosi e prolifici nel restituire quell’effetto di comicità mischiando temi sconci a toni probi: questo non vuol dire, però, che per i neofiti del Saturday Night Live sia stato facile conquistarsi quello spazio, ed è proprio l’effetto di comicità che Reitman porta in analisi.
Molti riferimenti allo show - dal famoso sketch di apertura “Wolverines” con Chase e Belushi che ripropongono una versione del Pigmalione aggiornata, l’iconica bacheca di sughero con i post-it sulla programmazione di gigs e ospiti, la celebre sezione del “Weekend Update”, il contrasto tra humor jew e gentile, l’inimitabile palco in stile art nouveau con i red bricks tipicamente newyorkesi - sono solo alcune delle citazioni del film, e interne alla storia di SNL, che un pubblico europeo può non cogliere facilmente; eppure la scrittura di Reitman, in collaborazione con Gil Kenan, è dotata di una ontologia propria che permette una doppia lettura: i camei dei volti più noti e i gli espliciti tributi agli elementi del Saturday Night nella sua leggendarietà soddisfano i seguaci che conoscono lo spazio e il tempo descritti; i conflitti interni allo show e gli ostacoli che il suo ideatore deve superare intrattengono anche i principianti alla ricerca di qualche risata in leggerezza.
Reitman corrobora lo schermo degli anni Settanta, mostrando una società in pieno mutamento: ci sono i canali televisivi che si privatizzano, la censura neo-puritana che dipinge l’iconoclastia come simbolo del demonio, scaramanzie new-age che bruciano salvia e capelloni di Woodstock che distribuiscono droghe a volontà, il desiderio di novità è soffocato dalla presunzione di una classe dirigente egoriferita. Il conflitto, in Saturday Night, diventa così quello tra un vecchio modello di intrattenimento televisivo - di cui l’ancien régime degli anni Sessanta è l’avido e decadente custode - e un nuovo ordine di creativi eccentrici che, cresciuti a pane e varietà, vuole riformularne i termini contrattuali e viverne l’esperienza diretta. Qualche tinta woke attualizza l’epoca ai giorni nostri, come gli accenni a questioni razziali e sessuali, le suddivisioni gerarchiche, il sospetto con cui l’antico guarda il nuovo, e il rischio che la rottura corra verso un disastro ancor prima di compiersi.
Michaels così affronta da solo l’ansia da palcoscenico e l’imprevedibilità della diretta. Bisogna riscrivere degli sketch ma mancano gli autori, così pure i tecnici del suono; lo spettacolo di tre ore va ridotto a un’ora e mezza; bisogna far firmare il contratto a Belushi; la scaletta deve essere scremata e i cambi di costumi rivisti. Contrattempi che gli piovono addosso, in una carnevalesca discesa verso gli inferi della produzione televisiva, e che lo tentano di mandare tutto al diavolo; per resistergli, deve far forza sulla propria visione. Quando non su di lui, il conflitto esplode in una litania di battute, stroncature, botte e risposte all’ultimo sangue: alcune riuscite, altre meno. Rompere con la tradizione, in fondo, è come tuffarsi nel buio: più si avvicina il momento, più fa paura. Ma la comicità non si spiega, sembra concludere Saturday Night: non ci sono manuali o mostri sacri, basta la fiducia in sé. L’opera meno comica del regista, Reitman finisce il suo sabato sera con un elogio al senso comune: perché il resto non conta, l’importante è che faccia ridere.
Che lo spettacolo cominci
recensione di Pavel Belli Micati
RV-70
21.10.2024
Cosa fa ridere e cosa no? Ma soprattutto, chi è che lo stabilisce? Jason Reitman non ha bisogno di presentazioni, il suo Saturday Night (presente nei nostri cinema il 21, 22 e 23 ottobre) sì. Il regista di Juno (2007) e Young Adult (2011) riscrive gli albori del live show più famoso d’America e ci fa rivivere i novanta minuti che separano i celeberrimi “The Not Ready for Prime Time Players” dalla trasmissione della prima puntata del Saturday Night Live, la notte dell’11 ottobre di ormai cinquant’anni fa. Il pubblico italiano conosce bene la comicità di Billy Crystal e dei Blues Brothers, il duo interpretato da John Belushi e Dan Aykroyd - rivelazioni scoperte proprio da SNL -, meno il contesto storico e culturale in cui il celebre programma è stato concepito. Nel 1975 il prime time della NBC è monopolizzato dal Tonight Show di Johnny Carson, protetto dall’allora produttore esecutivo David Tebet che minaccia Michaels, l’ideatore del nuovo programma, di bloccarne la messa in onda. Un branco di famelici CEOs è riunito nella stanza accanto, in attesa del fiasco preannunciato, i reparti tecnici si fanno guerra tra loro, gli attori litigano e gli autori si drogano: tutto è un gran casino.
“Lo spettacolo deve continuare non perché è iniziato, ma perché sono le 11 e 30”: la scena iniziale ci accoglie sulla soglia degli studi della NBC, un’umida serata a Manhattan. È il 1975, sono le dieci, un valletto sul marciapiede invita la gente a uno spettacolo che promette grandi risate. Dei fogli in fiamme volano verso il basso: in alto George Carlin - comico noto per il monologo antiproibizionista “Seven dirty words” e fautore della regolamentazione sulla censura del linguaggio televisivo - in risposta alla FCC che scandaglia il copione dello show alla ricerca di oscenità da censurare, dà fuoco a una copia e la getta dalla finestra dello studio 8H. Quella sera, i tre piani del Rockfeller Center sono occupati da una nuova generazione di attori, autori e produttori, tutti animati da un grande sogno: far ridere, di brutto, l’America intera. Dick Ebersol, executive della NBC, ha chiamato un giovane imberbe, Lorne Michaels, per proporre qualcosa che occupi la fascia della seconda serata. La sfida è la trasmissione di un live show, ma il brutto della diretta è il rischio della sua cancellazione.
Cosa ci fa un lama all’ingresso? Chi è che ruba i Muppets e li impicca alle porte dei camerini? Perché Milton Berle mostra l’uccello a Chevy Chase? Dov’è John Belushi? Reitman conosce luci e ombre del Saturday Night Live, non solo perché in passato ha collaborato alla realizzazione di alcuni sketch, ma anche perché suo padre, Ivan Reitman, ha diretto gli stessi Aykroyd e Belushi nei rispettivi film cult Ghostbusters (1984) e Animal House (1978). È di famiglia, insomma. Il regista canadese raccoglie gli aneddoti dei presenti a quella fatidica sera dell’ottobre 1975, e riformulandoli in un panopticon di adrenalina ed eccitazione racconta, in meno di due ore, il mito dietro la creazione dello show del sabato sera. Il risultato non è leggendario, ma solo perché il film non è un’ode al creazionismo: come succede nella diretta, alcuni pezzi funzionano più di altri. La chicca è l’unione di un passato storico e un presente ricettivo su un copione comune che accontenta sia i vecchi aficionados che i nuovi fans.
“Hai mai nostalgia di un momento, ancora mentre lo vivi?” chiede Jane Curtin - volto storico di SNL e ribattezzata “Queen of Deadpan” - a Michaels, qui interpretato da un ipnotico Gabriel LaBelle (The Fabelmans, 2022), in una scena climatica del film: mancano pochi minuti alla trasmissione, i due guardano John Belushi che allo show ha preferito pattinare sul ghiaccio. I riflettori del late night show puntano al nonsense della battuta, alla sua rottura nel momento, ma è il cast eccezionale che riproduce l’effetto nostalgico nel pubblico: i caratteristi di Reitman sono bravissimi; eppure, nell’insieme le facce sono tante, l’equipe variegata e i tributi così numerosi da non lasciare spazio a sofismi fondazionalisti o approfondimenti sui personaggi. È ciò che il pubblico e la critica statunitensi hanno apprezzato di meno in Saturday Night, ma attenzione: anche se un’analisi delle celebri figure di SNL è opportuna, il focus della storia è sulla comicità, non sui volti che l’hanno plasmata.
Uno spazio maggiore è riservato a Michaels e sua moglie Rosie Shuster (interpretata da una fantastica Rachel Sennott) - gli storici genitori di SNL -, ma l’arco narrativo di Saturday Night è il countdown concitato verso un evento epocale: l’invenzione di una comicità che rompe definitivamente con la commedia, un modo nuovo di esorcizzare il senso comune. Freud agli inizi del secolo scorso, rileggeva Aristotele e risistemava il concetto di umorismo; designando il “motto di spirito” come deviazione dalla norma che non accompagna per forza una sua articolazione, il critico Bachtin riprendeva lo psicologo austriaco e nella sua idea di carnascialesco restituiva dignità all’uso dell’irragionevole nella sua ricognizione storica sul canone comico. Attenti ricettori di queste riletture, gli statunitensi rimangono i più virtuosi e prolifici nel restituire quell’effetto di comicità mischiando temi sconci a toni probi: questo non vuol dire, però, che per i neofiti del Saturday Night Live sia stato facile conquistarsi quello spazio, ed è proprio l’effetto di comicità che Reitman porta in analisi.
Molti riferimenti allo show - dal famoso sketch di apertura “Wolverines” con Chase e Belushi che ripropongono una versione del Pigmalione aggiornata, l’iconica bacheca di sughero con i post-it sulla programmazione di gigs e ospiti, la celebre sezione del “Weekend Update”, il contrasto tra humor jew e gentile, l’inimitabile palco in stile art nouveau con i red bricks tipicamente newyorkesi - sono solo alcune delle citazioni del film, e interne alla storia di SNL, che un pubblico europeo può non cogliere facilmente; eppure la scrittura di Reitman, in collaborazione con Gil Kenan, è dotata di una ontologia propria che permette una doppia lettura: i camei dei volti più noti e i gli espliciti tributi agli elementi del Saturday Night nella sua leggendarietà soddisfano i seguaci che conoscono lo spazio e il tempo descritti; i conflitti interni allo show e gli ostacoli che il suo ideatore deve superare intrattengono anche i principianti alla ricerca di qualche risata in leggerezza.
Reitman corrobora lo schermo degli anni Settanta, mostrando una società in pieno mutamento: ci sono i canali televisivi che si privatizzano, la censura neo-puritana che dipinge l’iconoclastia come simbolo del demonio, scaramanzie new-age che bruciano salvia e capelloni di Woodstock che distribuiscono droghe a volontà, il desiderio di novità è soffocato dalla presunzione di una classe dirigente egoriferita. Il conflitto, in Saturday Night, diventa così quello tra un vecchio modello di intrattenimento televisivo - di cui l’ancien régime degli anni Sessanta è l’avido e decadente custode - e un nuovo ordine di creativi eccentrici che, cresciuti a pane e varietà, vuole riformularne i termini contrattuali e viverne l’esperienza diretta. Qualche tinta woke attualizza l’epoca ai giorni nostri, come gli accenni a questioni razziali e sessuali, le suddivisioni gerarchiche, il sospetto con cui l’antico guarda il nuovo, e il rischio che la rottura corra verso un disastro ancor prima di compiersi.
Michaels così affronta da solo l’ansia da palcoscenico e l’imprevedibilità della diretta. Bisogna riscrivere degli sketch ma mancano gli autori, così pure i tecnici del suono; lo spettacolo di tre ore va ridotto a un’ora e mezza; bisogna far firmare il contratto a Belushi; la scaletta deve essere scremata e i cambi di costumi rivisti. Contrattempi che gli piovono addosso, in una carnevalesca discesa verso gli inferi della produzione televisiva, e che lo tentano di mandare tutto al diavolo; per resistergli, deve far forza sulla propria visione. Quando non su di lui, il conflitto esplode in una litania di battute, stroncature, botte e risposte all’ultimo sangue: alcune riuscite, altre meno. Rompere con la tradizione, in fondo, è come tuffarsi nel buio: più si avvicina il momento, più fa paura. Ma la comicità non si spiega, sembra concludere Saturday Night: non ci sono manuali o mostri sacri, basta la fiducia in sé. L’opera meno comica del regista, Reitman finisce il suo sabato sera con un elogio al senso comune: perché il resto non conta, l’importante è che faccia ridere.