Donne madri chimere,
recensione di Andrea Tiradritti
RV-02
12.12.2022
Nel suo libro L’Avversario (Adelphi, 2013) Emmanuel Carrère racconta la tragica storia di Jean-Claude Romand, uomo che per decenni costruì una vita di inganni fingendosi medico fino ad arrivare a uccidere, una notte di gennaio del 1993, moglie, figli e genitori per poi tentare invano di suicidarsi. Carrère ripercorre l’esistenza di Romand e il processo a suo carico cercando di spiegarsi e spiegare al lettore il senso di un’azione tanto malvagia compiuta da un uomo in apparenza così rispettabile. Il risultato è un’opera ambigua e disturbante nella quale l’autore, disinteressato a condannare il soggetto con cui entra in relazione, si specchia pericolosamente nel suo abisso alla ricerca di una possibile grazia oltre il male commesso. In Saint Omer di Alice Diop un proposito simile sembra attrarre la giovane scrittrice e insegnante Rama (Kayije Kagame) a Laurence (Guslagie Malanda), donna senegalese incriminata per aver ucciso in circostanze misteriose la figlia di appena quindici mesi. Come Carrère, il personaggio di Rama lavora per trasporre il fatto di cronaca in un romanzo (una rivisitazione della tragedia di Medea), seguendo il processo di Laurence nella cittadina che nomina il film con inquietudine e crescente sconcerto.
È una stanza di specchi oscuri il primo lungometraggio di finzione della documentarista Diop, un dramma giudiziario privo di sentenza, un film dal cuore impalpabile e dalla struttura rigidissima, un’indagine senza soluzione, un legame ancestrale e perverso. Se sono le parole difensive di Laurence a sommergere il film, sono gli sguardi che a lei rivolge Rama dagli spalti del tribunale a significarlo. Sguardi di una donna nera a un’altra donna nera in una camera piena di bianchi, sguardi di una donna gravida al quarto mese a una donna infanticida, sguardi di un’innocente a una colpevole che riflettono la rassicurante consapevolezza di essere diversa, nonché il terrore dopotutto di potersi scoprire simile. In che modo Carrère avrà guardato Romand, fino a dove sarà stato costretto ad avvicinarsi per scrivere il libro? Saint Omer parla di madri sfrante e figlie spezzate rimanendo sulla soglia di quel segreto che è la maternità, dimensione magica e oscena, ferita del ventre e dell’anima che tutto sconvolge e nulla lascia intatto. In un’epoca in cui il concetto stesso di femminilità è in continuo stravolgimento, tra chi cerca di liberarlo da logiche patriarcali e chi ancora ne sfrutta il capitale economico veicolando modelli ingannevoli di bellezza ed empowerment, questo film ha il potere di disorientare perché declina la “differenza femminile” in modo nient’affatto rassicurante per il buon senso comune. Così il destino del diventare madri e il suo ripudio, il corpo sdoppiato, il mistero del sesso e della morte vengono in Saint Omer inscritti negli occhi di Rama e nella voce di Laurence, nella loro maternità snaturata e nel loro simile naufragare in tempeste ingovernabili.
Non a caso l’interesse di Diop si concentra su corpi di donna sofferenti o irregimentati da un potere ottuso – quello giudiziario francese, quello militare dei nazisti nella poesia di Marguerite Duras che Rama legge ai suoi studenti e in cui una donna viene rasata dagli invasori come segno di conquista – corpi in tumulto, piangenti, urlanti e la cui rabbia, seppur ingabbiata, persegue a fremere da generazioni in profondità incandescenti. Di pari passo lo stile di Diop è freddo e misurato, rinchiuso in mura invalicabili ma assediato a ogni lato da fantasmi (l’infanzia di Rama e il rapporto con sua madre, il delitto e il passato in Africa di Laurence, la Medea di Pasolini che affiora nel buio). I numerosi mezzi primi piani che incatenano Rama e Laurence in lontananze vicine e insormontabili – libera la prima, reclusa la seconda – concorrono a delimitare spazi oppressivi, regole e culture a cui sottomettersi e che solo un sorriso nel pianto, l’unico tra le due donne, riuscirà in qualche modo a scalfire. Saint Omer al contempo prosciuga e folgora poiché alla domanda della legge – perché uccidere? – non solo ammette la sua impotenza ma sceglie di non curarsi della risposta, svuotando l’aula e la città dei loro avversari, mostri terribilmente umani, chimere dal muso di leone, corpo di capra e coda di drago.
Sono stanca, ripete a Rama sua madre mentre le tiene la mano in una delle ultime scene del film. Stanca di cosa? Dell’essere madre o del non esserne stata in grado? Dello strazio della sua vita di donna migrante, dei lavori massacranti, della solitudine? I livelli del discorso si intersecano – non è dopotutto prerogativa del femminismo contemporaneo quella di unire istanze sociali ed esistenziali? – i volti delle figlie trasfigurano in quelli delle madri e le paure di tutte chiedono salvezza mentre perpetuano la vita. «Ho pensato che scrivere questa storia non poteva essere altro che un crimine o una preghiera», scrive Carrère in conclusione del suo libro. Per Saint Omer può valere lo stesso discorso. Il film di Alice Diop è un crimine perché ascolta le ragioni del più abietto degli esseri umani, ma anche una preghiera perché tenta di trasformare il dolore in canto lirico, affidando l’assurdo del reale alla menzogna dell’arte così da riscattare entrambi.
Donne madri chimere,
recensione di Andrea Tiradritti
RV-02
12.12.2022
Nel suo libro L’Avversario (Adelphi, 2013) Emmanuel Carrère racconta la tragica storia di Jean-Claude Romand, uomo che per decenni costruì una vita di inganni fingendosi medico fino ad arrivare a uccidere, una notte di gennaio del 1993, moglie, figli e genitori per poi tentare invano di suicidarsi. Carrère ripercorre l’esistenza di Romand e il processo a suo carico cercando di spiegarsi e spiegare al lettore il senso di un’azione tanto malvagia compiuta da un uomo in apparenza così rispettabile. Il risultato è un’opera ambigua e disturbante nella quale l’autore, disinteressato a condannare il soggetto con cui entra in relazione, si specchia pericolosamente nel suo abisso alla ricerca di una possibile grazia oltre il male commesso. In Saint Omer di Alice Diop un proposito simile sembra attrarre la giovane scrittrice e insegnante Rama (Kayije Kagame) a Laurence (Guslagie Malanda), donna senegalese incriminata per aver ucciso in circostanze misteriose la figlia di appena quindici mesi. Come Carrère, il personaggio di Rama lavora per trasporre il fatto di cronaca in un romanzo (una rivisitazione della tragedia di Medea), seguendo il processo di Laurence nella cittadina che nomina il film con inquietudine e crescente sconcerto.
È una stanza di specchi oscuri il primo lungometraggio di finzione della documentarista Diop, un dramma giudiziario privo di sentenza, un film dal cuore impalpabile e dalla struttura rigidissima, un’indagine senza soluzione, un legame ancestrale e perverso. Se sono le parole difensive di Laurence a sommergere il film, sono gli sguardi che a lei rivolge Rama dagli spalti del tribunale a significarlo. Sguardi di una donna nera a un’altra donna nera in una camera piena di bianchi, sguardi di una donna gravida al quarto mese a una donna infanticida, sguardi di un’innocente a una colpevole che riflettono la rassicurante consapevolezza di essere diversa, nonché il terrore dopotutto di potersi scoprire simile. In che modo Carrère avrà guardato Romand, fino a dove sarà stato costretto ad avvicinarsi per scrivere il libro? Saint Omer parla di madri sfrante e figlie spezzate rimanendo sulla soglia di quel segreto che è la maternità, dimensione magica e oscena, ferita del ventre e dell’anima che tutto sconvolge e nulla lascia intatto. In un’epoca in cui il concetto stesso di femminilità è in continuo stravolgimento, tra chi cerca di liberarlo da logiche patriarcali e chi ancora ne sfrutta il capitale economico veicolando modelli ingannevoli di bellezza ed empowerment, questo film ha il potere di disorientare perché declina la “differenza femminile” in modo nient’affatto rassicurante per il buon senso comune. Così il destino del diventare madri e il suo ripudio, il corpo sdoppiato, il mistero del sesso e della morte vengono in Saint Omer inscritti negli occhi di Rama e nella voce di Laurence, nella loro maternità snaturata e nel loro simile naufragare in tempeste ingovernabili.
Non a caso l’interesse di Diop si concentra su corpi di donna sofferenti o irregimentati da un potere ottuso – quello giudiziario francese, quello militare dei nazisti nella poesia di Marguerite Duras che Rama legge ai suoi studenti e in cui una donna viene rasata dagli invasori come segno di conquista – corpi in tumulto, piangenti, urlanti e la cui rabbia, seppur ingabbiata, persegue a fremere da generazioni in profondità incandescenti. Di pari passo lo stile di Diop è freddo e misurato, rinchiuso in mura invalicabili ma assediato a ogni lato da fantasmi (l’infanzia di Rama e il rapporto con sua madre, il delitto e il passato in Africa di Laurence, la Medea di Pasolini che affiora nel buio). I numerosi mezzi primi piani che incatenano Rama e Laurence in lontananze vicine e insormontabili – libera la prima, reclusa la seconda – concorrono a delimitare spazi oppressivi, regole e culture a cui sottomettersi e che solo un sorriso nel pianto, l’unico tra le due donne, riuscirà in qualche modo a scalfire. Saint Omer al contempo prosciuga e folgora poiché alla domanda della legge – perché uccidere? – non solo ammette la sua impotenza ma sceglie di non curarsi della risposta, svuotando l’aula e la città dei loro avversari, mostri terribilmente umani, chimere dal muso di leone, corpo di capra e coda di drago.
Sono stanca, ripete a Rama sua madre mentre le tiene la mano in una delle ultime scene del film. Stanca di cosa? Dell’essere madre o del non esserne stata in grado? Dello strazio della sua vita di donna migrante, dei lavori massacranti, della solitudine? I livelli del discorso si intersecano – non è dopotutto prerogativa del femminismo contemporaneo quella di unire istanze sociali ed esistenziali? – i volti delle figlie trasfigurano in quelli delle madri e le paure di tutte chiedono salvezza mentre perpetuano la vita. «Ho pensato che scrivere questa storia non poteva essere altro che un crimine o una preghiera», scrive Carrère in conclusione del suo libro. Per Saint Omer può valere lo stesso discorso. Il film di Alice Diop è un crimine perché ascolta le ragioni del più abietto degli esseri umani, ma anche una preghiera perché tenta di trasformare il dolore in canto lirico, affidando l’assurdo del reale alla menzogna dell’arte così da riscattare entrambi.