Spiriti disincarnati
recensione di Beatrice Gangi
RV-101
15.04.2025
“Nessuno è mai veramente solo. Tu sei parte di tutto ciò che vive. Il difficile è convincere gli altri che sono davvero parte di te”. Nella poetica di Luca Guadagnino, amare significa riconoscere sé stesso nell’altro. L’ossessione che ne deriva, significa odiarne l’insondabile alterità. Concerne il trovarsi di fronte a una parte del sé non pienamente comprensibile, non necessariamente appagante, né liberamente accessibile. In alcuni casi, una parte del sé che, attivamente, non si desidera conoscere e a cui si preferirebbe non avere accesso.
Per William S. Burroughs, sul cui romanzo semi-autobiografico si adatta l’omonimo Queer, amare implica, in maniera non dissimile, un’introspezione coatta. Ambientato a Città del Messico, negli anni ‘50, è teatro dell’umiliante corteggiamento da parte di William Lee (interpretato da Daniel Craig, in una delle sue performance più intense ad oggi) verso il giovane e stoico Eugene Allerton (Drew Starkey). In apparenza, si tratta di una relazione a senso unico, basata, da un lato, sull’assuefazione all’idea di amare ed essere amati indietro, nella forma di possesso, dall’altro, sulla noia e su un vago desiderio di sperimentazione sessuale. Eppure, e nonostante Allerton qualifichi l’attaccamento altrui, in particolare di Lee, come molesto, limitante, e impositivo, vi si allontana solo a brevi intervalli. Come confermato da Guadagnino, la parabola di Queer non è, infatti, quella di un amore non ricambiato, ma di un amore fuori sincrono. O meglio, di due opposte posizioni rispetto al postulato di Burroughs, salvifico e odioso, dell’oggetto amato come cruda rifrazione dell’io individuale.
Seppur, anche nella contemporaneità, l’idea di conoscersi intimamente possa essere angosciante, nell’America bigotta del 1950, ancor più per un omosessuale, era probabilmente respingente. Lo stesso Lee, che si etichetta esplicitamente come edonista, definisce la scoperta della propria sessualità come la presa di consapevolezza sull’essere, al pari dei suoi "simili", una creatura perversa e subumana. Considera come avrebbe dovuto suicidarsi, mettere fine a un’esistenza fatta di un’infelicità grottesca e umiliante. Per lui, amare apertamente, ottenere la devozione dell’altro, sottintende un riappropriarsi di una parte di sé ritenuta deplorevole ed esserne vicendevolmente accettato. In un nonsenso cinicamente verosimile, la sua indole auto-distruttiva, lo porta ad innamorarsi di una persona la quale, egli stesso ne è certo, non appagherà mai il suo bisogno e non accetterà mai il suo amore. Allerton, in maniera antitetica, è, probabilmente suo malgrado, affascinato dall’ostinazione di Lee nel rivendicare un’intimità e una complementarità che lui teme e rigetta.
In una chiara divisione in due atti (più epilogo), Guadagnino sfrutta il primo di essi per vagliare, con empatica ironia, l’impossibilità di un amore sano tra i suoi soggetti, un amore che, per durare, prevederebbe la ciclica prevaricazione di una parte sull’altra. Avvalendosi di un modello espositivo prevalentemente implicito, quanto della sottigliezza delle performance attoriali, il regista eccelle nel trasporre questa profonda complessità tematica mai apertamente comunicata, ma che permea tanto l’opera quanto il soggetto alla sua base. Allo sfociare del secondo atto, la pregressa tendenza dell’autore nel veicolare inconscio ed emozioni umane primordiali tramite il surrealismo - basti citare i precedenti Suspiria (2018) e Bones and All (2022) - denota il repentino cambio di tono (e genere) della narrazione, per cui l’implicito diventa materico tramite gli espedienti del grottesco, dell’allucinatorio, e del metaforico.
“Accedere” all’altra persona si concretizza nella ricerca da parte di Lee di una droga, lo yage, che gli permetterebbe, telepaticamente, di condividerne la mente e la carne. In questo secondo atto e ancor più bruscamente nelle sequenze conclusive, Guadagnino abbandona ogni pretesa di realismo, dipingendo un finale dall’influenza Lynchiana che, pur nella sua ermeticità, mette in scena alcune delle immagini più delicate ed evocative della pellicola. Da sottolineare, sono inoltre la sensibilità dell’autore nel ritrarre il corpo in movimento, nonché la rinnovata collaborazione (lato sonoro) con Trent Reznor e Atticus Ross.
A concludere, Queer non si pone come un’opera immediata, né di facile lettura. La consapevolezza di Guadagnino risiede di fatto nella scelta di evocare, più che nel tentare di spiegare, un’idea di amore troppo intima e astratta per poter essere pienamente razionalizzata. Probabilmente una delle opere più stratificate dell’autore ad oggi, il suo Queer non rappresenta solo l’ottimo adattamento di un testo dalla difficile trasposizione come quello di Burroughs, ma anche una bellissima riflessione sull’impossibilità di sentirsi realmente una cosa sola, sull’incolmabile desiderio di renderlo possibilità, e sulla profonda commozione nello sperimentarlo.
Spriti disincarnati
recensione di Beatrice Gangi
RV-101
15.04.2025
“Nessuno è mai veramente solo. Tu sei parte di tutto ciò che vive. Il difficile è convincere gli altri che sono davvero parte di te”. Nella poetica di Luca Guadagnino, amare significa riconoscere sé stesso nell’altro. L’ossessione che ne deriva, significa odiarne l’insondabile alterità. Concerne il trovarsi di fronte a una parte del sé non pienamente comprensibile, non necessariamente appagante, né liberamente accessibile. In alcuni casi, una parte del sé che, attivamente, non si desidera conoscere e a cui si preferirebbe non avere accesso.
Per William S. Burroughs, sul cui romanzo semi-autobiografico si adatta l’omonimo Queer, amare implica, in maniera non dissimile, un’introspezione coatta. Ambientato a Città del Messico, negli anni ‘50, è teatro dell’umiliante corteggiamento da parte di William Lee (interpretato da Daniel Craig, in una delle sue performance più intense ad oggi) verso il giovane e stoico Eugene Allerton (Drew Starkey). In apparenza, si tratta di una relazione a senso unico, basata, da un lato, sull’assuefazione all’idea di amare ed essere amati indietro, nella forma di possesso, dall’altro, sulla noia e su un vago desiderio di sperimentazione sessuale. Eppure, e nonostante Allerton qualifichi l’attaccamento altrui, in particolare di Lee, come molesto, limitante, e impositivo, vi si allontana solo a brevi intervalli. Come confermato da Guadagnino, la parabola di Queer non è, infatti, quella di un amore non ricambiato, ma di un amore fuori sincrono. O meglio, di due opposte posizioni rispetto al postulato di Burroughs, salvifico e odioso, dell’oggetto amato come cruda rifrazione dell’io individuale.
Seppur, anche nella contemporaneità, l’idea di conoscersi intimamente possa essere angosciante, nell’America bigotta del 1950, ancor più per un omosessuale, era probabilmente respingente. Lo stesso Lee, che si etichetta esplicitamente come edonista, definisce la scoperta della propria sessualità come la presa di consapevolezza sull’essere, al pari dei suoi "simili", una creatura perversa e subumana. Considera come avrebbe dovuto suicidarsi, mettere fine a un’esistenza fatta di un’infelicità grottesca e umiliante. Per lui, amare apertamente, ottenere la devozione dell’altro, sottintende un riappropriarsi di una parte di sé ritenuta deplorevole ed esserne vicendevolmente accettato. In un nonsenso cinicamente verosimile, la sua indole auto-distruttiva, lo porta ad innamorarsi di una persona la quale, egli stesso ne è certo, non appagherà mai il suo bisogno e non accetterà mai il suo amore. Allerton, in maniera antitetica, è, probabilmente suo malgrado, affascinato dall’ostinazione di Lee nel rivendicare un’intimità e una complementarità che lui teme e rigetta.
In una chiara divisione in due atti (più epilogo), Guadagnino sfrutta il primo di essi per vagliare, con empatica ironia, l’impossibilità di un amore sano tra i suoi soggetti, un amore che, per durare, prevederebbe la ciclica prevaricazione di una parte sull’altra. Avvalendosi di un modello espositivo prevalentemente implicito, quanto della sottigliezza delle performance attoriali, il regista eccelle nel trasporre questa profonda complessità tematica mai apertamente comunicata, ma che permea tanto l’opera quanto il soggetto alla sua base. Allo sfociare del secondo atto, la pregressa tendenza dell’autore nel veicolare inconscio ed emozioni umane primordiali tramite il surrealismo - basti citare i precedenti Suspiria (2018) e Bones and All (2022) - denota il repentino cambio di tono (e genere) della narrazione, per cui l’implicito diventa materico tramite gli espedienti del grottesco, dell’allucinatorio, e del metaforico.
“Accedere” all’altra persona si concretizza nella ricerca da parte di Lee di una droga, lo yage, che gli permetterebbe, telepaticamente, di condividerne la mente e la carne. In questo secondo atto e ancor più bruscamente nelle sequenze conclusive, Guadagnino abbandona ogni pretesa di realismo, dipingendo un finale dall’influenza Lynchiana che, pur nella sua ermeticità, mette in scena alcune delle immagini più delicate ed evocative della pellicola. Da sottolineare, sono inoltre la sensibilità dell’autore nel ritrarre il corpo in movimento, nonché la rinnovata collaborazione (lato sonoro) con Trent Reznor e Atticus Ross.
A concludere, Queer non si pone come un’opera immediata, né di facile lettura. La consapevolezza di Guadagnino risiede di fatto nella scelta di evocare, più che nel tentare di spiegare, un’idea di amore troppo intima e astratta per poter essere pienamente razionalizzata. Probabilmente una delle opere più stratificate dell’autore ad oggi, il suo Queer non rappresenta solo l’ottimo adattamento di un testo dalla difficile trasposizione come quello di Burroughs, ma anche una bellissima riflessione sull’impossibilità di sentirsi realmente una cosa sola, sull’incolmabile desiderio di renderlo possibilità, e sulla profonda commozione nello sperimentarlo.