Dietro il palcoscenico,
recensione di Sofia Sardella
RV-56
05.04.2024
Chi conosce la filmografia di Sofia Coppola sa quanto sia importante per la regista newyorkese adattare la storia che sceglie di filmare al proprio stile. Questa caratteristica dei suoi lavori è certamente riscontrabile nel memorabile Lost in Translation (2003), ma soprattutto in sceneggiature tratte da vicende reali come Il giardino delle vergini suicide (1999) o Bling Ring (2013). Quando si tratta di avvenimenti meno noti, dare alle immagini il ritmo trasognante che caratterizza queste pellicole può apparire più semplice, ma la capacità della Coppola emerge anche nel caso in cui ad essere rielaborata sia una figura nota a tutti, come accade, ad esempio, in Marie Antoinette (2006). Dal momento che in tutti questi lungometraggi lo stile risulta preponderante, se non è la cineasta stessa a scrivere la storia, è fondamentale che gli eventi rappresentati si prestino ai toni a lei favoriti, quindi si rende necessaria una selezione, volta ad individuare narrazioni adatte alla propria griffa registica.
Frutto più recente di questa costante ricerca è Priscilla (2023), pellicola basata sulla storia della compagna, e successiva consorte, di Elvis Presley. Se quindi in Marie Antoinette la Coppola aveva scelto di rielaborare una figura storica estremamente conosciuta, qui si focalizza su uno di quei personaggi unicamente citati in rapporto a grandi icone legate alla mitologia della memoria collettiva. La difficoltà di un compito simile non sta solo nel ricostruire una vicenda della quale si sa ben poco, ma anche nel trovare un modo di rappresentare una realtà privata costituita da una fondamentale instabilità e mutevolezza.
In Priscilla il susseguirsi dei fatti è presentato in maniera estremamente lineare - a partire dalle testimonianze raccolte nel libro Elvis and Me - ma l’andamento delle immagini varia costantemente. Poiché gli avvenimenti non hanno una direzione precisa e non sono filtrati, il lungometraggio assume un ritmo irregolare; i toni della narrazione sono infatti riflesso del sentire di Priscilla, di conseguenza, se nella prima parte lo spettatore si fa coinvolgere dalle fantasie di un’adolescente che ricorda l’eroina di una storia da sogno, successivamente si trova ad empatizzare con lei nel vederla sperduta e prigioniera di una gabbia dorata. Dall’atmosfera sognante dei primi tempi, Priscilla passa ad essere asfissiata da una condizione in cui non c’è spazio per qualsiasi tipo di aspirazione personale e, quando la promessa di un futuro con l’uomo che chiunque desidererebbe si fa realtà, matura la consapevolezza di essere solo un accessorio nelle mani di un “eterno protagonista”. E così le sequenze che compongono il lungometraggio diventano sempre più taglienti e malinconiche man mano che la condizione di Priscilla diviene sempre più impossibile da ignorare, frutto della crescita di una giovane donna che, maturando sempre più e consolidandosi come individuo, finisce per dubitare di aver intrapreso la giusta strada.
È forse possibile che convivere con un uomo tanto desiderabile non la faccia sentire appagata? Priscilla cerca di convincersi del contrario, ma mantenere questa posizione diventa ancor più difficile quando una sedia le viene scagliata contro senza un apparente motivo o un gioco innocuo diventa insensatamente violento, quando i viaggi di quello che è intanto divenuto suo marito e il padre di sua figlia si fanno insostenibilmente frequenti e ignorare il gossip dei giornali smette di essere facile come un tempo. Se prima la differenza d’età era l’unico ostacolo alla realizzazione di un amore, a questo punto emergono le difficoltà di una relazione vissuta nell’ombra, fatta di rinunce e compromessi. Mentre la percezione dello spettatore muta drasticamente rispetto al sorriso che le tenere fantasie adolescenziali delle prime scene gli suscitavano, Priscilla continua a convincersi di dover persistere, e resistere, in un’universo che la sta lentamente soffocando. Ciò che sembra maggiormente interessare alla Coppola è la graduale evoluzione della sua protagonista: non a caso, come la stessa Priscilla, anche i toni estetici e narrativi del film non smettono mai di variare, restituendoci il ritratto di una donna che, privata della sua identità e relegata “dietro le quinte”, prende progressivamente consapevolezza di volersi riappropriare di un individualità perduta.
Quello che forse delude chi è più abituato allo stile di altre pellicole della regista è il fatto che, dopo i primi momenti, i tratti caratterizzanti del cinema della Coppola si facciano meno evidenti, più sfumati e impercettibili, una scelta data forse dalla necessità di rappresentare l’ingrigimento della vicenda stessa, ma che porta inevitabilmente ad una neutralizzazione di elementi capaci di fornire spessore al film. Sembra quasi che questa volta la cineasta non sia riuscita ad imporre la propria audacia all’opera, decidendo di sacrificare lo stile per dare maggior spazio alla storia. Ovviamente tale osservazione non cancella gli aspetti più notevoli del lungometraggio; tante immagini fondamentali emergono in maniera precisa ed evidente: l’ampliamento delle distanze tra i due personaggi, la costituzione di un ideale frustrantemente irraggiungibile, la sensazione di ingabbiamento che tenta goffamente di essere ignorata, ma anche i vari paradossi di una relazione che, con tutte le sue contraddizioni, conserva lati positivi. Priscilla, infatti, regala alcuni quadri precisi, forse più memorabili della pellicola nella sua interezza. Se a Lost in Translation o Il giardino delle vergini suicide corrispondono sensazioni che aleggiano nell’immaginario dello spettatore per riemergere nel momento in cui tali film vengono rievocati, a restare impresse, dopo aver visionato Priscilla, sono singole scene estremamente esemplificative della tortuosità di un rapporto disfunzionalmente umano.
Il rischio in cui il film incorre è quello di perdersi nella sua eccessiva volontà di riportare il più linearmente possibile i fatti narrati, smarrendo sulla propria strada tutte quelle atmosfere così deliziosamente tipiche del cinema di Coppola; del resto un’immagine notevole può suscitare un certo effetto sul momento, ma solo una decisa impronta stilistica le conferisce durevolezza, distinguendola dalle più evanescenti. Priscilla non è quindi un film malriuscito, ma non si può neanche affermare che sia particolarmente memorabile; è questo il rischio di cimentarsi in narrazioni biografiche, spesso interessanti, perché mostrano aspetti meno noti di vite rinomate o si fanno portatrici di storie sconosciute che vale la pena raccontare, ma che rischiano anche di sfociare nel didascalismo eccessivo e risultare insipide. La Coppola ha certamente individuato una storia inedita e adeguata al proprio stile, della quale ha portato in evidenza aspetti rilevanti, ma non è riuscita a raggiungere una sorta di fondale rimasto inesplorato, per cui il ricordo lasciato dal film stenta a restare vivo a lungo termine.
Dietro il palcoscenico,
recensione di Sofia Sardella
RV-56
05.04.2024
Chi conosce la filmografia di Sofia Coppola sa quanto sia importante per la regista newyorkese adattare la storia che sceglie di filmare al proprio stile. Questa caratteristica dei suoi lavori è certamente riscontrabile nel memorabile Lost in Translation (2003), ma soprattutto in sceneggiature tratte da vicende reali come Il giardino delle vergini suicide (1999) o Bling Ring (2013). Quando si tratta di avvenimenti meno noti, dare alle immagini il ritmo trasognante che caratterizza queste pellicole può apparire più semplice, ma la capacità della Coppola emerge anche nel caso in cui ad essere rielaborata sia una figura nota a tutti, come accade, ad esempio, in Marie Antoinette (2006). Dal momento che in tutti questi lungometraggi lo stile risulta preponderante, se non è la cineasta stessa a scrivere la storia, è fondamentale che gli eventi rappresentati si prestino ai toni a lei favoriti, quindi si rende necessaria una selezione, volta ad individuare narrazioni adatte alla propria griffa registica.
Frutto più recente di questa costante ricerca è Priscilla (2023), pellicola basata sulla storia della compagna, e successiva consorte, di Elvis Presley. Se quindi in Marie Antoinette la Coppola aveva scelto di rielaborare una figura storica estremamente conosciuta, qui si focalizza su uno di quei personaggi unicamente citati in rapporto a grandi icone legate alla mitologia della memoria collettiva. La difficoltà di un compito simile non sta solo nel ricostruire una vicenda della quale si sa ben poco, ma anche nel trovare un modo di rappresentare una realtà privata costituita da una fondamentale instabilità e mutevolezza.
In Priscilla il susseguirsi dei fatti è presentato in maniera estremamente lineare - a partire dalle testimonianze raccolte nel libro Elvis and Me - ma l’andamento delle immagini varia costantemente. Poiché gli avvenimenti non hanno una direzione precisa e non sono filtrati, il lungometraggio assume un ritmo irregolare; i toni della narrazione sono infatti riflesso del sentire di Priscilla, di conseguenza, se nella prima parte lo spettatore si fa coinvolgere dalle fantasie di un’adolescente che ricorda l’eroina di una storia da sogno, successivamente si trova ad empatizzare con lei nel vederla sperduta e prigioniera di una gabbia dorata. Dall’atmosfera sognante dei primi tempi, Priscilla passa ad essere asfissiata da una condizione in cui non c’è spazio per qualsiasi tipo di aspirazione personale e, quando la promessa di un futuro con l’uomo che chiunque desidererebbe si fa realtà, matura la consapevolezza di essere solo un accessorio nelle mani di un “eterno protagonista”. E così le sequenze che compongono il lungometraggio diventano sempre più taglienti e malinconiche man mano che la condizione di Priscilla diviene sempre più impossibile da ignorare, frutto della crescita di una giovane donna che, maturando sempre più e consolidandosi come individuo, finisce per dubitare di aver intrapreso la giusta strada.
È forse possibile che convivere con un uomo tanto desiderabile non la faccia sentire appagata? Priscilla cerca di convincersi del contrario, ma mantenere questa posizione diventa ancor più difficile quando una sedia le viene scagliata contro senza un apparente motivo o un gioco innocuo diventa insensatamente violento, quando i viaggi di quello che è intanto divenuto suo marito e il padre di sua figlia si fanno insostenibilmente frequenti e ignorare il gossip dei giornali smette di essere facile come un tempo. Se prima la differenza d’età era l’unico ostacolo alla realizzazione di un amore, a questo punto emergono le difficoltà di una relazione vissuta nell’ombra, fatta di rinunce e compromessi. Mentre la percezione dello spettatore muta drasticamente rispetto al sorriso che le tenere fantasie adolescenziali delle prime scene gli suscitavano, Priscilla continua a convincersi di dover persistere, e resistere, in un’universo che la sta lentamente soffocando. Ciò che sembra maggiormente interessare alla Coppola è la graduale evoluzione della sua protagonista: non a caso, come la stessa Priscilla, anche i toni estetici e narrativi del film non smettono mai di variare, restituendoci il ritratto di una donna che, privata della sua identità e relegata “dietro le quinte”, prende progressivamente consapevolezza di volersi riappropriare di un individualità perduta.
Quello che forse delude chi è più abituato allo stile di altre pellicole della regista è il fatto che, dopo i primi momenti, i tratti caratterizzanti del cinema della Coppola si facciano meno evidenti, più sfumati e impercettibili, una scelta data forse dalla necessità di rappresentare l’ingrigimento della vicenda stessa, ma che porta inevitabilmente ad una neutralizzazione di elementi capaci di fornire spessore al film. Sembra quasi che questa volta la cineasta non sia riuscita ad imporre la propria audacia all’opera, decidendo di sacrificare lo stile per dare maggior spazio alla storia. Ovviamente tale osservazione non cancella gli aspetti più notevoli del lungometraggio; tante immagini fondamentali emergono in maniera precisa ed evidente: l’ampliamento delle distanze tra i due personaggi, la costituzione di un ideale frustrantemente irraggiungibile, la sensazione di ingabbiamento che tenta goffamente di essere ignorata, ma anche i vari paradossi di una relazione che, con tutte le sue contraddizioni, conserva lati positivi. Priscilla, infatti, regala alcuni quadri precisi, forse più memorabili della pellicola nella sua interezza. Se a Lost in Translation o Il giardino delle vergini suicide corrispondono sensazioni che aleggiano nell’immaginario dello spettatore per riemergere nel momento in cui tali film vengono rievocati, a restare impresse, dopo aver visionato Priscilla, sono singole scene estremamente esemplificative della tortuosità di un rapporto disfunzionalmente umano.
Il rischio in cui il film incorre è quello di perdersi nella sua eccessiva volontà di riportare il più linearmente possibile i fatti narrati, smarrendo sulla propria strada tutte quelle atmosfere così deliziosamente tipiche del cinema di Coppola; del resto un’immagine notevole può suscitare un certo effetto sul momento, ma solo una decisa impronta stilistica le conferisce durevolezza, distinguendola dalle più evanescenti. Priscilla non è quindi un film malriuscito, ma non si può neanche affermare che sia particolarmente memorabile; è questo il rischio di cimentarsi in narrazioni biografiche, spesso interessanti, perché mostrano aspetti meno noti di vite rinomate o si fanno portatrici di storie sconosciute che vale la pena raccontare, ma che rischiano anche di sfociare nel didascalismo eccessivo e risultare insipide. La Coppola ha certamente individuato una storia inedita e adeguata al proprio stile, della quale ha portato in evidenza aspetti rilevanti, ma non è riuscita a raggiungere una sorta di fondale rimasto inesplorato, per cui il ricordo lasciato dal film stenta a restare vivo a lungo termine.