Vivere qui e ora,
recensione di Antonio Orrico
RV-48
10.01.2024
Nel corso del tempo Wim Wenders si è progressivamente dedicato a una forma di narrazione cinematografica che si discosta dalla scrittura per concentrarsi totalmente sul visivo. Lo spiega lui stesso nella prefazione al suo saggio Once: Pictures And Stories (1993), in cui il discorso sull’immagine assume connotati di superiorità nei confronti dell’uomo, le cui capacità di raggiungere la verità sono reputate inferiori a quelle delle fotografie. In Perfect Days (2023) questo assunto si rovescia radicalmente; avviene, nel film, una riappropriazione del proprio passato, un legame che lo splendido Kōji Yakusho/Hirayama ricostruisce man mano nell’esposizione della sua vita.
L’uomo e la bellezza della propria routine ridiventano il centro dell’universo di Wenders, che sceglie un luogo d’eccezione per pacificare il suo cinema con la vita. Tokyo era luogo di perdizione in Until The End Of The World (1991), capolavoro in cui l’uomo smarriva sé stesso sotto i colpi del digitale e si donava alla dipendenza dalle immagini. La stessa Tokyo, ora, dopo una prima fase di confusione (dettata da dissolvenze incrociate di strade e da sequenze con camera a mano), diventa luogo di ritrovo con sé stessi, di ri-accoglienza, di una nuova quiete all’interno della vita e del quotidiano. Per questo, Perfect Days è un film ciclico, concentrato totalmente sui gesti del suo protagonista, immortalato a ricordare e rivivere il passato per riconoscersi e amarsi.
Wenders si riappropria di un gusto che ricorda Ozu, con una delicatezza che mancava da un po’ di tempo nella sua carriera registica. Una sensibilità fatta da carrelli quasi impercettibili, leggerissimi, con i quali sceglie di far risplendere il suo protagonista, le gioie più semplici e meno complesse e gli ostacoli che la vita gli dona ogni giorno, senza per questo togliergli il sorriso. Hirayama coglie l’attimo, perché “un’altra volta è un’altra volta, mentre adesso è adesso”. E attraverso di lui Wenders ritorna all’analogico. Dopo un periodo passato a scandagliare il digitale e le sue manie contemporanee, ha necessità di riscoprire l’importanza del passato, della Storia. Di riassaporare la bellezza della scrittura di William Faulkner e delle musicassette che il suo protagonista inserisce all’interno del suo stereo ogni mattina, in auto, come cartina al tornasole per rivivere la ricchezza delle cose e della vita in sé.
Si potrebbe definire Perfect Days come un film senile, dall’ossequiosità e dal rispetto nei confronti del mondo a tratti stordente, un segnale di ripartenza dopo un periodo di confusione e una ripresa della coscienza del mondo che cresce e va avanti, di giorno in giorno. Le peripezie che Hirayama affronta lo portano su un cammino che lo rende protagonista di null’altro, se non della sua stessa vita, del suo qui e ora, recuperando l’importanza del presente grazie all’essenza della parola, mai come in questo caso rarefatta ma tremendamente importante nella sua accezione linguistica.
Un film grazie al quale Wenders si ricongiunge al suo passato, a quel Tokyo-Ga (1985) che già all’epoca si poneva come una riflessione sul tempo che passa, sulla presa di coscienza della modernità e dell’imbastardimento del Giappone con le logiche americane, viste e raccontate dal punto di vista di due uomini anti-moderni quali erano Yuharu Atsuta, direttore della fotografia di alcuni dei più grandi capolavori giapponesi di sempre come Tokyo Monogatari (1953) e Banshun (1949), e Chishu Ryu, attore-feticcio di Yasujirō Ozu e protagonista di alcuni dei suoi più grandi film. Se Wenders, all’epoca, poneva già in essere la sua amara riflessione sulla dipendenza dalle immagini e sulla deriva della società, qui sfrutta la stessa tipologia di racconto, ovvero quello orale, per eludere quella gabbia di stimoli e ritornare “all’ovile”.
Lo strumento usato per riaccordarsi con la natura umana è il suono. Non c’è più il visivo come retta principale, ma è piuttosto il sonoro (come nei piani sequenza in cui Yakusho attraversa in macchina la città) a narrare la storia misteriosa di Hirayama, e noi spettatori carpiamo indizi sulla sua vita mediante la musica e l’udito. L’immagine, attraverso le sue dissolvenze incrociate, ci porta invece al punto di partenza, ha il compito di farci smarrire, come in un rompicapo. Le tracce della colonna sonora di Perfect Days (da Lou Reed ai The Animals), invece, ci permettono di portare avanti la narrazione.
Se l’immagine, nel passato, faceva smarrire i suoi personaggi in un universo dotato solo di significanti, nel nuovo capitolo della filmografia “wendersiana” il suono ci permette di aggiungere la componente del significato al racconto, dotandolo finalmente di senso. E proprio questo permette allo spettatore anche di superare il concetto di tempo, bloccante negli altri film di Wenders e qui finalmente limite oltrepassato e non più cristallizzato.
Vivere qui e ora,
recensione di Antonio Orrico
RV-48
10.01.2024
Nel corso del tempo Wim Wenders si è progressivamente dedicato a una forma di narrazione cinematografica che si discosta dalla scrittura per concentrarsi totalmente sul visivo. Lo spiega lui stesso nella prefazione al suo saggio Once: Pictures And Stories (1993), in cui il discorso sull’immagine assume connotati di superiorità nei confronti dell’uomo, le cui capacità di raggiungere la verità sono reputate inferiori a quelle delle fotografie. In Perfect Days (2023) questo assunto si rovescia radicalmente; avviene, nel film, una riappropriazione del proprio passato, un legame che lo splendido Kōji Yakusho/Hirayama ricostruisce man mano nell’esposizione della sua vita.
L’uomo e la bellezza della propria routine ridiventano il centro dell’universo di Wenders, che sceglie un luogo d’eccezione per pacificare il suo cinema con la vita. Tokyo era luogo di perdizione in Until The End Of The World (1991), capolavoro in cui l’uomo smarriva sé stesso sotto i colpi del digitale e si donava alla dipendenza dalle immagini. La stessa Tokyo, ora, dopo una prima fase di confusione (dettata da dissolvenze incrociate di strade e da sequenze con camera a mano), diventa luogo di ritrovo con sé stessi, di ri-accoglienza, di una nuova quiete all’interno della vita e del quotidiano. Per questo, Perfect Days è un film ciclico, concentrato totalmente sui gesti del suo protagonista, immortalato a ricordare e rivivere il passato per riconoscersi e amarsi.
Wenders si riappropria di un gusto che ricorda Ozu, con una delicatezza che mancava da un po’ di tempo nella sua carriera registica. Una sensibilità fatta da carrelli quasi impercettibili, leggerissimi, con i quali sceglie di far risplendere il suo protagonista, le gioie più semplici e meno complesse e gli ostacoli che la vita gli dona ogni giorno, senza per questo togliergli il sorriso. Hirayama coglie l’attimo, perché “un’altra volta è un’altra volta, mentre adesso è adesso”. E attraverso di lui Wenders ritorna all’analogico. Dopo un periodo passato a scandagliare il digitale e le sue manie contemporanee, ha necessità di riscoprire l’importanza del passato, della Storia. Di riassaporare la bellezza della scrittura di William Faulkner e delle musicassette che il suo protagonista inserisce all’interno del suo stereo ogni mattina, in auto, come cartina al tornasole per rivivere la ricchezza delle cose e della vita in sé.
Si potrebbe definire Perfect Days come un film senile, dall’ossequiosità e dal rispetto nei confronti del mondo a tratti stordente, un segnale di ripartenza dopo un periodo di confusione e una ripresa della coscienza del mondo che cresce e va avanti, di giorno in giorno. Le peripezie che Hirayama affronta lo portano su un cammino che lo rende protagonista di null’altro, se non della sua stessa vita, del suo qui e ora, recuperando l’importanza del presente grazie all’essenza della parola, mai come in questo caso rarefatta ma tremendamente importante nella sua accezione linguistica.
Un film grazie al quale Wenders si ricongiunge al suo passato, a quel Tokyo-Ga (1985) che già all’epoca si poneva come una riflessione sul tempo che passa, sulla presa di coscienza della modernità e dell’imbastardimento del Giappone con le logiche americane, viste e raccontate dal punto di vista di due uomini anti-moderni quali erano Yuharu Atsuta, direttore della fotografia di alcuni dei più grandi capolavori giapponesi di sempre come Tokyo Monogatari (1953) e Banshun (1949), e Chishu Ryu, attore-feticcio di Yasujirō Ozu e protagonista di alcuni dei suoi più grandi film. Se Wenders, all’epoca, poneva già in essere la sua amara riflessione sulla dipendenza dalle immagini e sulla deriva della società, qui sfrutta la stessa tipologia di racconto, ovvero quello orale, per eludere quella gabbia di stimoli e ritornare “all’ovile”.
Lo strumento usato per riaccordarsi con la natura umana è il suono. Non c’è più il visivo come retta principale, ma è piuttosto il sonoro (come nei piani sequenza in cui Yakusho attraversa in macchina la città) a narrare la storia misteriosa di Hirayama, e noi spettatori carpiamo indizi sulla sua vita mediante la musica e l’udito. L’immagine, attraverso le sue dissolvenze incrociate, ci porta invece al punto di partenza, ha il compito di farci smarrire, come in un rompicapo. Le tracce della colonna sonora di Perfect Days (da Lou Reed ai The Animals), invece, ci permettono di portare avanti la narrazione.
Se l’immagine, nel passato, faceva smarrire i suoi personaggi in un universo dotato solo di significanti, nel nuovo capitolo della filmografia “wendersiana” il suono ci permette di aggiungere la componente del significato al racconto, dotandolo finalmente di senso. E proprio questo permette allo spettatore anche di superare il concetto di tempo, bloccante negli altri film di Wenders e qui finalmente limite oltrepassato e non più cristallizzato.