La città dei segreti,
recensione di Antonio Orrico
RV-74
05.11.2024
Nel suo È stata la mano di Dio (2021), Sorrentino si poneva al centro del racconto in un film semi-biografico che gli permetteva, attraverso un’attitudine molto intima, di placare momentaneamente quell’esigenza di grottesco e, al contempo, di auto-analizzarsi, di mettere a nudo la sua coscienza e la sua storia personale. Il film del 2021 è un viaggio esistenziale che ha permesso al regista napoletano di sviluppare una nuova fase della sua poetica, di parlare di una maturazione e di fare il punto, in maniera nostalgica, sulla propria identità e sulle varie tappe che la sua intera opera ha attraversato per arrivare al contemporaneo. Un percorso che fondeva vita ed estetica, un mettersi a nudo - per citare uno dei protagonisti principali di Parthenope (2024), ovvero il mitico John Cheever interpretato da un Gary Oldman volontariamente bolso e sfatto, ai limiti del tragicomico - che era anche, e soprattutto, l’opportunità per venire a conoscenza del Paolo Sorrentino uomo e di come quest’ultimo ha formato il suo pensiero e il suo vissuto.
Questa prospettiva riprende ad esistere all’interno di Parthenope, che però ne rovescia il contenuto. Se in È stata la mano di Dio il regista filtrava il racconto in prima persona, qui il suo sguardo si mette a disposizione di ciò che è raccontato e si muove in funzione della sua stessa evoluzione. Parthenope è un film che pone al suo epicentro la città di Napoli attraverso la sua attrice principale, Celeste Dalla Porta, che ne incarna l’essenza e, soprattutto, narra lo sviluppo e il rapporto che la stessa Napoli ha con i suoi folkloristici tratti, con le sue smanie di protagonismo e con le sue ossessioni. Celeste Dalla Porta diventa la chiave per ribaltare radicalmente i concetti su cui si reggeva il precedente film, per renderlo in qualche modo speculare: non c’è più Sorrentino che scandaglia Napoli e la descrive, ma c’è, piuttosto, la volontà di portare Napoli alla scoperta di sé stessa, dei suoi amori e delle sue paure, delle sue gioie (come nella sequenza dello scudetto, suggello di un’avventura che chiude un cerchio partito dal 2021) e dei suoi dolori. Una Napoli senza filtri, che però si presenta agli occhi di chi guarda misteriosa, un oggetto del desiderio continuo che lo spettatore non può far altro che sfiorare e accarezzare con la vista e con il pensiero, senza mai raggiungerlo.
Forse è questo lo scarto più grande che esiste tra il primo Sorrentino e il “nuovo”, quello che, a partire da La Grande Bellezza (2013) - con cui Parthenope condivide più di un aspetto - ha abituato tutti a dei toni maggiormente favolistici, trasognati e onirici, dimostrando di raggiungere picchi di astrazione molto alti. Proprio di questo Parthenope si forgia, in quanto opera senza compromessi, che rientra in un discorso molto più ampio e strettamente legato all’attualità cinematografica che stiamo vivendo. Il nuovo film di Sorrentino rientra in quel pamphlet di opere che, in qualche modo, fuggono completamente da un'immediata fruibilità e che, piuttosto che essere accomodanti con lo spettatore, lo sfidano, lo costringono a porsi una serie di domande e lo mettono in una posizione potenzialmente scomoda, oltre a risultare controverse e spingersi al di là di semplici giudizi dualistici quali bello/brutto, riuscito/non riuscito.
Parthenope porta lo spettatore non ad identificarsi con un semplice personaggio, ma ad immedesimarsi con l’ambiente che descrive attraverso la sua protagonista, portando la relazione tra il film e chi lo guarda ad un livello non immediatamente percepibile, ma accessibile proprio attraverso la compenetrazione con Celeste Dalla Porta, e, di conseguenza, con Napoli stessa. Per questo motivo, tutti i personaggi che popolano il mondo narrativo creato da Sorrentino sono ectoplasmi, recitano un copione fisso che porta lo stesso regista a mostrare le contraddizioni del luogo, tutte le forme contrastive che risaltano pensando all’ambiente napoletano.
La pletora di “maschere” presentate in Parthenope è superficiale come lo è, per buona parte, il film stesso (e il brano Era Già Tutto Previsto di Riccardo Cocciante, scelto per la colonna sonora, ne è un indizio palese). Si tratta di personaggi che parlano per frasi fatte (eccezion fatta per Sandrino, figura incarnata da Dario Aita, che sarà il solo, almeno in un primo momento, a distaccarsi da Napoli e a non farvi più ritorno, e per il professor Marotta di Silvio Orlando, unico personaggio “vero” in un mondo di finzione) e che incarnano degli stereotipi che procedono per epiteti e frasi ad effetto, non posticce, ma sintomatiche di un ambiente in cui a regnare è la rassegnazione e la malinconia. Questa caratterizzazione diventa così l’epicentro di una realtà intera che capovolge i netti stereotipi da città “felice” e gioiosa e mette in scena tutte le ombre nascoste al di sotto della superficie.
Negli incontri che Parthenope compie nel corso del suo “viaggio” alla scoperta del sé, c’è spazio per il confronto con modelli ormai acquisiti e insiti nella società partenopea, come l’immancabile legame “di sangue” ecclesiastico espletato nella scena amorosa, anche blasfema, tra Celeste Dalla Porta e Peppe Lanzetta, o anche come il rapporto tra giovani e criminalità organizzata. Tramite essi, Sorrentino dà nuovamente corpo al corto circuito - già indagato nei precedenti Il Divo (2008) e Loro (2018) - che lega indissolubilmente istituzioni e gestualità, un rapporto ipocrita che però lo stesso regista mostra senza moralismi di fondo e che costituisce, semplicemente, una nuova rappresentazione del folklore in cui tutto è sbattuto in superficie.
Per cui, Parthenope è senza dubbio un film che non ha la pretesa di indagare a fondo le contraddizioni del proprio luogo protagonista, quanto piuttosto si limita a mostrare quanto questa superficialità rappresenti, piuttosto, qualcosa di inevitabile, di insito all’interno della propria natura. Se È stata la mano di Dio era soprattutto una pellicola sulla visione contraddittoria che Sorrentino nutre nei confronti della sua città d’appartenenza, in Parthenope è quella stessa città a chiudere il cerchio e a cercare lo spettatore nel tentativo di scardinare quella “superficie delle cose” che ne determina il carattere.
La città dei segreti,
recensione di Antonio Orrico
RV-74
05.11.2024
Nel suo È stata la mano di Dio (2021), Sorrentino si poneva al centro del racconto in un film semi-biografico che gli permetteva, attraverso un’attitudine molto intima, di placare momentaneamente quell’esigenza di grottesco e, al contempo, di auto-analizzarsi, di mettere a nudo la sua coscienza e la sua storia personale. Il film del 2021 è un viaggio esistenziale che ha permesso al regista napoletano di sviluppare una nuova fase della sua poetica, di parlare di una maturazione e di fare il punto, in maniera nostalgica, sulla propria identità e sulle varie tappe che la sua intera opera ha attraversato per arrivare al contemporaneo. Un percorso che fondeva vita ed estetica, un mettersi a nudo - per citare uno dei protagonisti principali di Parthenope (2024), ovvero il mitico John Cheever interpretato da un Gary Oldman volontariamente bolso e sfatto, ai limiti del tragicomico - che era anche, e soprattutto, l’opportunità per venire a conoscenza del Paolo Sorrentino uomo e di come quest’ultimo ha formato il suo pensiero e il suo vissuto.
Questa prospettiva riprende ad esistere all’interno di Parthenope, che però ne rovescia il contenuto. Se in È stata la mano di Dio il regista filtrava il racconto in prima persona, qui il suo sguardo si mette a disposizione di ciò che è raccontato e si muove in funzione della sua stessa evoluzione. Parthenope è un film che pone al suo epicentro la città di Napoli attraverso la sua attrice principale, Celeste Dalla Porta, che ne incarna l’essenza e, soprattutto, narra lo sviluppo e il rapporto che la stessa Napoli ha con i suoi folkloristici tratti, con le sue smanie di protagonismo e con le sue ossessioni. Celeste Dalla Porta diventa la chiave per ribaltare radicalmente i concetti su cui si reggeva il precedente film, per renderlo in qualche modo speculare: non c’è più Sorrentino che scandaglia Napoli e la descrive, ma c’è, piuttosto, la volontà di portare Napoli alla scoperta di sé stessa, dei suoi amori e delle sue paure, delle sue gioie (come nella sequenza dello scudetto, suggello di un’avventura che chiude un cerchio partito dal 2021) e dei suoi dolori. Una Napoli senza filtri, che però si presenta agli occhi di chi guarda misteriosa, un oggetto del desiderio continuo che lo spettatore non può far altro che sfiorare e accarezzare con la vista e con il pensiero, senza mai raggiungerlo.
Forse è questo lo scarto più grande che esiste tra il primo Sorrentino e il “nuovo”, quello che, a partire da La Grande Bellezza (2013) - con cui Parthenope condivide più di un aspetto - ha abituato tutti a dei toni maggiormente favolistici, trasognati e onirici, dimostrando di raggiungere picchi di astrazione molto alti. Proprio di questo Parthenope si forgia, in quanto opera senza compromessi, che rientra in un discorso molto più ampio e strettamente legato all’attualità cinematografica che stiamo vivendo. Il nuovo film di Sorrentino rientra in quel pamphlet di opere che, in qualche modo, fuggono completamente da un'immediata fruibilità e che, piuttosto che essere accomodanti con lo spettatore, lo sfidano, lo costringono a porsi una serie di domande e lo mettono in una posizione potenzialmente scomoda, oltre a risultare controverse e spingersi al di là di semplici giudizi dualistici quali bello/brutto, riuscito/non riuscito.
Parthenope porta lo spettatore non ad identificarsi con un semplice personaggio, ma ad immedesimarsi con l’ambiente che descrive attraverso la sua protagonista, portando la relazione tra il film e chi lo guarda ad un livello non immediatamente percepibile, ma accessibile proprio attraverso la compenetrazione con Celeste Dalla Porta, e, di conseguenza, con Napoli stessa. Per questo motivo, tutti i personaggi che popolano il mondo narrativo creato da Sorrentino sono ectoplasmi, recitano un copione fisso che porta lo stesso regista a mostrare le contraddizioni del luogo, tutte le forme contrastive che risaltano pensando all’ambiente napoletano.
La pletora di “maschere” presentate in Parthenope è superficiale come lo è, per buona parte, il film stesso (e il brano Era Già Tutto Previsto di Riccardo Cocciante, scelto per la colonna sonora, ne è un indizio palese). Si tratta di personaggi che parlano per frasi fatte (eccezion fatta per Sandrino, figura incarnata da Dario Aita, che sarà il solo, almeno in un primo momento, a distaccarsi da Napoli e a non farvi più ritorno, e per il professor Marotta di Silvio Orlando, unico personaggio “vero” in un mondo di finzione) e che incarnano degli stereotipi che procedono per epiteti e frasi ad effetto, non posticce, ma sintomatiche di un ambiente in cui a regnare è la rassegnazione e la malinconia. Questa caratterizzazione diventa così l’epicentro di una realtà intera che capovolge i netti stereotipi da città “felice” e gioiosa e mette in scena tutte le ombre nascoste al di sotto della superficie.
Negli incontri che Parthenope compie nel corso del suo “viaggio” alla scoperta del sé, c’è spazio per il confronto con modelli ormai acquisiti e insiti nella società partenopea, come l’immancabile legame “di sangue” ecclesiastico espletato nella scena amorosa, anche blasfema, tra Celeste Dalla Porta e Peppe Lanzetta, o anche come il rapporto tra giovani e criminalità organizzata. Tramite essi, Sorrentino dà nuovamente corpo al corto circuito - già indagato nei precedenti Il Divo (2008) e Loro (2018) - che lega indissolubilmente istituzioni e gestualità, un rapporto ipocrita che però lo stesso regista mostra senza moralismi di fondo e che costituisce, semplicemente, una nuova rappresentazione del folklore in cui tutto è sbattuto in superficie.
Per cui, Parthenope è senza dubbio un film che non ha la pretesa di indagare a fondo le contraddizioni del proprio luogo protagonista, quanto piuttosto si limita a mostrare quanto questa superficialità rappresenti, piuttosto, qualcosa di inevitabile, di insito all’interno della propria natura. Se È stata la mano di Dio era soprattutto una pellicola sulla visione contraddittoria che Sorrentino nutre nei confronti della sua città d’appartenenza, in Parthenope è quella stessa città a chiudere il cerchio e a cercare lo spettatore nel tentativo di scardinare quella “superficie delle cose” che ne determina il carattere.