Un testamento filmico
recensione di Paolo Rissicini
RV-71
28.10.2024
A tredici anni di distanza da Twixt (2011), con Megalopolis Francis Ford Coppola studia, teorizza, finanzia e mette in scena non l’acme, ma la summa, la trattazione sistematica della seconda parte della sua carriera. Una seconda parte economicamente disgraziata, artisticamente sconsiderata e ostinatamente auto-segregata, ma concettualmente metamorfica, sempre pronta a vestirsi a nuovo per analizzare criticamente il (proprio) cinema come arte del passato, del presente e del futuro. Come in Twixt, ma in maniera sfacciatamente più esplicita, il problema del cinema di Coppola - arrivato alla soglia degli ottantacinque anni e dopo aver venduto l’azienda vinicola per finanziare questo progetto quarantennale - è il tempo.
Twixt si apriva con il «C’era una volta» di un narratore onnisciente, un incipit accompagnato da una carrellata che avvolgeva le strade di Swann Valley, cittadina fantasma della California più interna, dove la torre dell’orologio aveva sette quadranti e segnava sempre un’ora diversa. Megalopolis è, letteralmente, una favola. Lo comunica ancora il narratore all’inizio del film, ma questa volta la fonte della visione, il punto macchina, non è mobile ma fermo. In questa contre-plongée, la mdp è posta al di sotto degli edifici di New Rome, centro di un’America e di un mondo condannato ad un retro-futurismo allucinatorio.
È un’inquadratura che a tutti gli effetti ricalca quella inaugurale di un grande classico di Coppola, che del tempo fa il suo motore narrativo e che grazie ad esso compie un'indagine metacinematografica: Bram Stoker's Dracula (Dracula di Bram Stoker’s, 1992). Non a caso, nel lungometraggio del 1992, il principe dei vampiri viaggiava nello spazio geografico, verso il futuro della civiltà (la scienza e il progresso rappresentate simbolicamente dal cinematografo della Londra di fine Ottocento) per riscrivere il passato e riabbracciare l’amore di una vita. Coppola, con i piedi saldi dentro la condizione post-modernista codificata un decennio prima, tornava quindi al pre-cinema e ed evocava stili esasperatamente eterogenei in un pastiche orientato a sconvolgere le aspettative di un pubblico amante dei codici dell’horror.
Ora, che siamo negli anni Duemila, la battaglia continua, e con la condizione postmoderna (nell’anno in cui è morto Fredric Jameson…) Coppola non ha smesso di averci a che fare...ne ha smesso di sfidarla. La New Rome di Megalopolis, abbiamo detto, è retrofuturista. L’architettura integra una versione alternativa del Colosseo con i grattacieli di New York, le industrie riconvertite di Atlanta con una classicità fuori tempo massimo: l’America in una sola metropoli, autoproclamatasi, nella realtà storica, politicamente e simbolicamente discendente “morale” di Roma. Ma è un’America, nella pellicola di Coppola, che ha perso la moralità o forse si è scoperta adesso, in quell’oggi lontano, più che mai ferina e animalesca (siamo pur sempre dentro una favola).
Dall’alto dei palazzi di New Rome, uomini vestiti come moderni patrizi romani e donne agghindate come vestali all’ultima moda, espressione delle poche famiglie al potere, tramano vendette, sperperano eredità e rovesciano la politica nello spettacolo, confondendo la vita privata con l’ostentazione pubblica dei propri (osceni) fatti. E qui sta il nodo moralistico, che si addice alla cornice favolistica, del moralista Coppola, il quale piega una condizione postmodernista, il «presente perpetuo», per ammonire sul suo presente di cittadino americano.
Nel «presente perpetuo» della logica culturale postmodernista, e della New Rome, sono uniformate infatti tutte le dimensioni temporali (passato-presente-futuro), in un unico orizzonte di segni inter-testuali: la città come palcoscenico sia retrò che futuribile - una melassa coniugabile dunque solo al presente - e lo stesso film-testo, che nelle dimensioni extra-testuali e testuali accosta molto cinema dello stesso Coppola, dalle somiglianze produttive e di esiti commerciali, con One from the Heart (Un sogno lungo un giorno, 1982), opera che rappresenta pienamente la messa in crisi di una carriera e il suo spartiacque decisivo. Non ultimo, un indizio che viene dal passato, e che sembra una coincidenza hitchcockiana, è rappresentato dal Chrysler Building, palazzo che si staglia sopra gli occhi dello spettatore nella primissima inquadratura di Megalopolis già presente, sotto forma di modellino, proprio in One from the Heart, sul tavolo della sala di Hank e Frannie.
Il punto, detto tutto questo, è che il «presente perpetuo» di New Rome non è altro che una deformazione (neppure troppo lontana dal reale) dell’America attuale, dove il sangue sgorga dalla e sulla politica ma lo show, imperterrito, non può che continuare. E questa, a conti fatti, è la condizione di partenza di Megalopolis, la presa di posizione sul proprio tempo di un veterano del cinema che, postosi autonomamente fuori dall’industria e dallo showbiz, osserva e giudica.
Ma questo è solo il punto di avvio. Perché poi c’è l’architetto, il fisico, l’ingegnere, l’artista: che come lo scrittore fallito di Val Kilmer in Twixt esemplifica la necessità fisica di creazione del regista Coppola. Questa figura, nel caso di Megalopolis, è incarnata dal Cesar Catilina di Adam Driver, sognatore con il dono di fermare e far ripartire il tempo. Il suo progetto, titanico, è l’“edificazione” di una nuova città, Megalopolis, da “costruire” interamente attraverso il Megalon, materiale immateriale che egli stesso sta perfezionando. Il piano del sindaco (Giancarlo Esposito) per questo nuovo agglomerato urbano sarebbe invece, e lo vediamo da un modellino-simulacro, un enorme quartiere dalle fattezze di una Las Vegas per come la conosciamo noi oggi, o forse per come la conoscono i protagonisti (ancora loro) di One from the Heart - verrebbe da chiedersi se i personaggi dei due lungometraggi si osservino reciprocamente dai loro “mondi” attraverso il modellino dell’altrui universo filmico.
Come era per la città-set della pellicola del 1981, la Megalopolis emanata dal pensiero di Catilina preconizza invece un set organico, spazio di possibilità infinite per il suo creatore: mondo a sé stante, che si apre costantemente a nuovi mondi. La città-set di One from the Heart, come ha dimostrato Alberto Libera, era effettivamente già oltre il postmodernismo, visto che la sua scenografia diveniva «punto d’approdo di tutti gli orizzonti immaginari», configurandosi ampiamente in anticipo come prodotto digitale: perché «l’immagine digitale non s’adegua più al mondo ma produce continuamente nuovi mondi». Quasi come il Megalon, dunque, con le sue proprietà di produzione illimitata.
E c’è, infine, la storia d’amore. Da One from the Heart in poi, Coppola si è abbandonato al melodramma, da quarant’anni a questa parte vero genere tra i generi della sua filmografia. È così un melodramma familiare, Megalopolis, in cui la definizione canonica di «amore ostacolato» apre la figura di Catilina, e il suo potere di fermare il tempo, all’incontro con Julia Cicero (Nathalie Emmanuel), figlia dell’inamovibile sindaco. E tra le possibilità che l’amore dona - è questa la vera sfida che Coppola lancia al postmodernismo - c’è anche quella di governarlo compiutamente, questo tempo.
Oltre il kitsch, voluto o meno, della riuscita estetica finale; oltre la dispersione narrativa; oltre la costruzione artificiale di un esotismo nostalgico, archivio da cui selezionare grossolanamente fonti combinate; oltre i confini del gusto critico-spettatoriale; oltre a tutto questo… rimane l’ultimissima inquadratura. Nella quale Coppola fa sì che l’essere umano, unico rimedio al «presente perpetuo» in cui la civiltà occidentale, nei suoi stanchi e limoacciosi riti politici, mediatici e tecnologici sembra essere bloccata, possa finalmente dividere e distinguere le dimensioni temporali: dentro lo spazio del quadro. Nell’ennesimo cortocircuito formale di un film che include il macro e micro, che è conservatore e progressista, moralista e libertario, un mascherino da cinema delle attrazioni che separa i due tempi, il passato - l’immagine finalmente ferma, cristallizzata, a suo modo morta - dal futuro - l’immagine che scopre, agli albori della sua nascita, il movimento.
Al di là di ogni giudizio possibile, Megalopolis è il più grande regalo che un regista possa fare al cinema come forma (ancora) attiva di pensiero.
Un testamento filmico
recensione di Paolo Rissicini
RV-71
28.10.2024
A tredici anni di distanza da Twixt (2011), con Megalopolis Francis Ford Coppola studia, teorizza, finanzia e mette in scena non l’acme, ma la summa, la trattazione sistematica della seconda parte della sua carriera. Una seconda parte economicamente disgraziata, artisticamente sconsiderata e ostinatamente auto-segregata, ma concettualmente metamorfica, sempre pronta a vestirsi a nuovo per analizzare criticamente il (proprio) cinema come arte del passato, del presente e del futuro. Come in Twixt, ma in maniera sfacciatamente più esplicita, il problema del cinema di Coppola - arrivato alla soglia degli ottantacinque anni e dopo aver venduto l’azienda vinicola per finanziare questo progetto quarantennale - è il tempo.
Twixt si apriva con il «C’era una volta» di un narratore onnisciente, un incipit accompagnato da una carrellata che avvolgeva le strade di Swann Valley, cittadina fantasma della California più interna, dove la torre dell’orologio aveva sette quadranti e segnava sempre un’ora diversa. Megalopolis è, letteralmente, una favola. Lo comunica ancora il narratore all’inizio del film, ma questa volta la fonte della visione, il punto macchina, non è mobile ma fermo. In questa contre-plongée, la mdp è posta al di sotto degli edifici di New Rome, centro di un’America e di un mondo condannato ad un retro-futurismo allucinatorio.
È un’inquadratura che a tutti gli effetti ricalca quella inaugurale di un grande classico di Coppola, che del tempo fa il suo motore narrativo e che grazie ad esso compie un'indagine metacinematografica: Bram Stoker's Dracula (Dracula di Bram Stoker’s, 1992). Non a caso, nel lungometraggio del 1992, il principe dei vampiri viaggiava nello spazio geografico, verso il futuro della civiltà (la scienza e il progresso rappresentate simbolicamente dal cinematografo della Londra di fine Ottocento) per riscrivere il passato e riabbracciare l’amore di una vita. Coppola, con i piedi saldi dentro la condizione post-modernista codificata un decennio prima, tornava quindi al pre-cinema e ed evocava stili esasperatamente eterogenei in un pastiche orientato a sconvolgere le aspettative di un pubblico amante dei codici dell’horror.
Ora, che siamo negli anni Duemila, la battaglia continua, e con la condizione postmoderna (nell’anno in cui è morto Fredric Jameson…) Coppola non ha smesso di averci a che fare...ne ha smesso di sfidarla. La New Rome di Megalopolis, abbiamo detto, è retrofuturista. L’architettura integra una versione alternativa del Colosseo con i grattacieli di New York, le industrie riconvertite di Atlanta con una classicità fuori tempo massimo: l’America in una sola metropoli, autoproclamatasi, nella realtà storica, politicamente e simbolicamente discendente “morale” di Roma. Ma è un’America, nella pellicola di Coppola, che ha perso la moralità o forse si è scoperta adesso, in quell’oggi lontano, più che mai ferina e animalesca (siamo pur sempre dentro una favola).
Dall’alto dei palazzi di New Rome, uomini vestiti come moderni patrizi romani e donne agghindate come vestali all’ultima moda, espressione delle poche famiglie al potere, tramano vendette, sperperano eredità e rovesciano la politica nello spettacolo, confondendo la vita privata con l’ostentazione pubblica dei propri (osceni) fatti. E qui sta il nodo moralistico, che si addice alla cornice favolistica, del moralista Coppola, il quale piega una condizione postmodernista, il «presente perpetuo», per ammonire sul suo presente di cittadino americano.
Nel «presente perpetuo» della logica culturale postmodernista, e della New Rome, sono uniformate infatti tutte le dimensioni temporali (passato-presente-futuro), in un unico orizzonte di segni inter-testuali: la città come palcoscenico sia retrò che futuribile - una melassa coniugabile dunque solo al presente - e lo stesso film-testo, che nelle dimensioni extra-testuali e testuali accosta molto cinema dello stesso Coppola, dalle somiglianze produttive e di esiti commerciali, con One from the Heart (Un sogno lungo un giorno, 1982), opera che rappresenta pienamente la messa in crisi di una carriera e il suo spartiacque decisivo. Non ultimo, un indizio che viene dal passato, e che sembra una coincidenza hitchcockiana, è rappresentato dal Chrysler Building, palazzo che si staglia sopra gli occhi dello spettatore nella primissima inquadratura di Megalopolis già presente, sotto forma di modellino, proprio in One from the Heart, sul tavolo della sala di Hank e Frannie.
Il punto, detto tutto questo, è che il «presente perpetuo» di New Rome non è altro che una deformazione (neppure troppo lontana dal reale) dell’America attuale, dove il sangue sgorga dalla e sulla politica ma lo show, imperterrito, non può che continuare. E questa, a conti fatti, è la condizione di partenza di Megalopolis, la presa di posizione sul proprio tempo di un veterano del cinema che, postosi autonomamente fuori dall’industria e dallo showbiz, osserva e giudica.
Ma questo è solo il punto di avvio. Perché poi c’è l’architetto, il fisico, l’ingegnere, l’artista: che come lo scrittore fallito di Val Kilmer in Twixt esemplifica la necessità fisica di creazione del regista Coppola. Questa figura, nel caso di Megalopolis, è incarnata dal Cesar Catilina di Adam Driver, sognatore con il dono di fermare e far ripartire il tempo. Il suo progetto, titanico, è l’“edificazione” di una nuova città, Megalopolis, da “costruire” interamente attraverso il Megalon, materiale immateriale che egli stesso sta perfezionando. Il piano del sindaco (Giancarlo Esposito) per questo nuovo agglomerato urbano sarebbe invece, e lo vediamo da un modellino-simulacro, un enorme quartiere dalle fattezze di una Las Vegas per come la conosciamo noi oggi, o forse per come la conoscono i protagonisti (ancora loro) di One from the Heart - verrebbe da chiedersi se i personaggi dei due lungometraggi si osservino reciprocamente dai loro “mondi” attraverso il modellino dell’altrui universo filmico.
Come era per la città-set della pellicola del 1981, la Megalopolis emanata dal pensiero di Catilina preconizza invece un set organico, spazio di possibilità infinite per il suo creatore: mondo a sé stante, che si apre costantemente a nuovi mondi. La città-set di One from the Heart, come ha dimostrato Alberto Libera, era effettivamente già oltre il postmodernismo, visto che la sua scenografia diveniva «punto d’approdo di tutti gli orizzonti immaginari», configurandosi ampiamente in anticipo come prodotto digitale: perché «l’immagine digitale non s’adegua più al mondo ma produce continuamente nuovi mondi». Quasi come il Megalon, dunque, con le sue proprietà di produzione illimitata.
E c’è, infine, la storia d’amore. Da One from the Heart in poi, Coppola si è abbandonato al melodramma, da quarant’anni a questa parte vero genere tra i generi della sua filmografia. È così un melodramma familiare, Megalopolis, in cui la definizione canonica di «amore ostacolato» apre la figura di Catilina, e il suo potere di fermare il tempo, all’incontro con Julia Cicero (Nathalie Emmanuel), figlia dell’inamovibile sindaco. E tra le possibilità che l’amore dona - è questa la vera sfida che Coppola lancia al postmodernismo - c’è anche quella di governarlo compiutamente, questo tempo.
Oltre il kitsch, voluto o meno, della riuscita estetica finale; oltre la dispersione narrativa; oltre la costruzione artificiale di un esotismo nostalgico, archivio da cui selezionare grossolanamente fonti combinate; oltre i confini del gusto critico-spettatoriale; oltre a tutto questo… rimane l’ultimissima inquadratura. Nella quale Coppola fa sì che l’essere umano, unico rimedio al «presente perpetuo» in cui la civiltà occidentale, nei suoi stanchi e limoacciosi riti politici, mediatici e tecnologici sembra essere bloccata, possa finalmente dividere e distinguere le dimensioni temporali: dentro lo spazio del quadro. Nell’ennesimo cortocircuito formale di un film che include il macro e micro, che è conservatore e progressista, moralista e libertario, un mascherino da cinema delle attrazioni che separa i due tempi, il passato - l’immagine finalmente ferma, cristallizzata, a suo modo morta - dal futuro - l’immagine che scopre, agli albori della sua nascita, il movimento.
Al di là di ogni giudizio possibile, Megalopolis è il più grande regalo che un regista possa fare al cinema come forma (ancora) attiva di pensiero.