Amori spietati e frontiere psichedeliche
recensione di Pavel Belli Micati
RV-66
12.09.2024
Oggi esce nelle sale italiane la seconda opera di Rose Glass, Love Lies Bleeding. La regista britannica, classe 1990, riappare sulla scena cinematografica dopo il debutto con l’acclamato Saint Maud, lungometraggio presentato al TIFF nel 2019 e insignito di numerose candidature - e diversi premi - ai BAFTA e ai BIF l’anno successivo. Questo incensato horror psicologico, che rivisitava Carrie (1977) nei temi e Suspiria (2018) di Guadagnino nei toni, come molte altre pellicole della stagione pre-pandemia ha subìto la maledizione della chiusura dei cinema: se nel Regno Unito StudioCanal è riuscito a distribuirlo ad emergenza conclusa, la sua uscita negli Stati Uniti è stata invece posticipata indefessamente finché A24, a gennaio 2021, gli ha riservato una distribuzione stringatissima poco prima del passaggio in on-demand.
La sfortuna ha di certo frenato la ricezione di un esordio d’eccezione, ma la casa newyorkese non si è data per vinta e, al secondo round, ha finanziato la produzione di Love Lies Bleeding, le cui riprese sono avvenute tra giugno e agosto del 2022. Il film è stato presentato ufficialmente al Sundance 2024 e in anteprima alla Berlinale. Mentre il suo debutto era ambientato in un austero maniero dello Yorkshire, il nuovo thriller di Glass - uscito nelle sale statunitensi a marzo scorso - ci porta invece in una cittadina del New Mexico durante anni Ottanta, un luogo senza poesia dove giunge Jackie (Katie O’Brian), una body-builder in preparazione per le gare nazionali di Las Vegas. Di passaggio nello stato più a sud delle Rocky Mountains, incontra e s’innamora di Lou (Kristen Stewart), ragazza che gestisce una palestra.
Il passato della giovane atleta dà ragione del suo nomadismo: adottata a tredici anni e bullizzata dai coetanei perché sovrappeso, Jackie è una renegade che ha imparato a rispondere alla violenza con la violenza, trasformando il proprio corpo in un’arma di difesa. Il suo unico strumento di emancipazione la porta lontano dal natio Oklahoma e verso il sogno di Sin City. È così che questa singolare apostata, che vive alla giornata, trova lavoro presso Mr. Langston (Ed Harris), vecchio ceffo dall’aria losca, proprietario di un poligono di tiro che coltiva una passione sinistra per le cimici. Dal canto suo, anche il presente di Lou non è propriamente idilliaco: allontanatasi dal padre, isolata dalla comunità perché lesbica, sua madre è sparita nel nulla dodici anni prima e sua sorella Beth (Jena Malone) è una vittima silenziosa del violento marito JJ (Dave Franco).
Jackie confida a Lou il desiderio di vincere il campionato, e questa, che vende steroidi sottobanco, le regala una dose. Tra le due scoppia una passione travolgente. Jackie apprende da subito che Mr. Langston è il padre di Lou, che controlla gli affari illeciti sul territorio e che la sua attività di contrabbando è legata alla misteriosa scomparsa della madre. “Vieni con me a Vegas?”, Jackie domanda a Lou, “E dopo, continuiamo a guidare”. “Dove?”, le chiede Lou, che non è mai uscita dai confini di questa landa malfamata. Nel frattempo, il loro amore va rafforzandosi al ritmo dei muscoli di Jackie, in una serie sensuale di iniezioni, tuorli d’uovo e bilancieri. Il loro progetto di fuga viene messo in crisi quando JJ picchia per l’ennesima volta Beth, che finisce in ospedale: Jackie, mossa dalla rabbia di Lou, vendica la donna in un impeto di violenza.
Da questo mix letale di passione, rabbia e dipendenza, ecco il tributo della regista inglese ai copioni dei blockbuster anni Ottanta, un variegato di spettacoli di violenza dove il protagonista è il forzuto consacrato da Arnold Schwarzenegger in Stay Hungry (Il gigante della strada,1976) o il buono inconsapevole invischiato nei malaffari di To Live and Die in L.A. (Vivere e morire a Los Angeles, 1985) interpretato da William Petersen. È un’estetica surmoderna che descrive i neo Far-West di confine dove la vendetta personale trionfa sempre e la violenza del più forte esplode in sinestesie audiovisive in cui la carne si torce, le ossa si rompono e i denti saltano, sfociando in fiumi colmi di sangue. Solo la violenza detta la legge nel paradigma di Glass: o ne partecipi, o ne sei vittima. La storia tra Lou e Jackie è quella di un amore nervoso, nevralgico, nerboruto: non è un’intesa intellettuale ma il frutto della violenza infinita a cui, per via diretta o meno, le due sono esposte da sempre.
Il cinema che Rose Glass omaggia non è d’autore: i temi sono mutuati dall’universo dei b-movies di Sylvester Stallone, e narrazioni più metafisiche sulla violenza sono state recentemente proposte da film come The Fighter (2010) e Million Dollary Baby (2004). Che il propulsore sia qui una donna non giustifica l’uso, a tratti anche rivoltante, della brutalità; per i seguaci della filosofia della cura - e gli amanti del cinema d’introspezione - questo amore impulsivo, prepotente e furioso, metafora di un’energia irrefrenabile, sineddoche di una rabbia ancestrale, sembrerà anti-intellettuale e il moralismo au courant vi leggerà una sconfitta delle istanze che l’estetica del femminile porterebbe con sé. Per una descrizione del cinema queer, non c’è da aspettarsi il finale stucchevole dei nuovi drammi d’epoca: qui non c’è nessun virtuosismo degno di Rachel Weisz, tutti hanno le mani sporche di sangue.
L’attesa è senz’altro accompagnata dall’aspettativa di vedere finalmente un queer romance degno erede del cinema americano, con protagonista una Kristen Stewart diventata ormai conclamato marchio di garanzia per l’industria dell’Indie. Il film è intriso di iconografia queer, come quando vediamo Lou leggere Macho Sluts di Pat Califia, classico della letteratura erotica queer anni Ottanta, o quando nella sua camera scorgiamo il poster di Female Trouble di John Waters. Glass, non a caso, ha più volte menzionato la sua ammirazione per il maestro americano del cinema della trasgressione, e ha elencato tra le sue letture il Diario di un ladro di Jean Genet, l’unico scrittore ad aver unito crimine e omosessualità in storie d’amore e violenza.
E se da una parte c’è chi ha visto nell’opera una versione lesbica di Thelma & Louise (1991), dall’altra è comunque presente in essa un sapore europeo attraverso la rappresentazione del simbolico femminile, tropo di violenza e repulsione che strizza l’occhio all’ultima Doucourneau di Titane (2021) e fa l’inchino alla Lynne Ramsay di You Were Never Really Here (2017). Nonostante ciò, l’azione del film risponde anche e, soprattutto, a una visione meno impegnata, e la sua fruizione consacra in fin dei conti una storia tutta americana che tributa il “New Far West” di Clint Eastwood.
Ma se la carne all’apparenza trita - anzi, battuta - non sferza colpi troppo lontani dal tecnicismo espressivo della violenza glorificata dal cinema statunitense più pop, sono le dimensioni che il finale raggiunge a sedurre il pubblico: l’approdo al fantastico gargantuesco ci suggerisce che, in una terra dove conta solo la forza, l’intensità dell’Amore è l’unica unità di misura. Il titolo allude sì a una canzone comparsa in un’altra famigerata storia di sentimenti estremi, Breaking the Waves (Le onde del destino, 1996) di Lars Von Trier, ma del brano di Sir Elton John, Clint Mansell - che firma la colonna sonora - ne riprende giusto i palpitanti synth strumentali dell’intro. E mentre l’amore giace esangue, Kristen Stewart e Katy O’Brian sono le nuove Natural Born Killers (Assassini nati, 1994) di una vendetta nata dal desiderio e pompata dalla sua grande, colossale, forza. Non adatta ai deboli di cuore, un’opera seconda che nega la poetica della prima, Love Lies Bleeding è un classico istantaneo che conferma il talento di Glass. Da vedere a stomaco vuoto!
Amori spietati e frontiere psichedeliche
recensione di Pavel Belli Micati
RV-66
12.09.2024
Oggi esce nelle sale italiane la seconda opera di Rose Glass, Love Lies Bleeding. La regista britannica, classe 1990, riappare sulla scena cinematografica dopo il debutto con l’acclamato Saint Maud, lungometraggio presentato al TIFF nel 2019 e insignito di numerose candidature - e diversi premi - ai BAFTA e ai BIF l’anno successivo. Questo incensato horror psicologico, che rivisitava Carrie (1977) nei temi e Suspiria (2018) di Guadagnino nei toni, come molte altre pellicole della stagione pre-pandemia ha subìto la maledizione della chiusura dei cinema: se nel Regno Unito StudioCanal è riuscito a distribuirlo ad emergenza conclusa, la sua uscita negli Stati Uniti è stata invece posticipata indefessamente finché A24, a gennaio 2021, gli ha riservato una distribuzione stringatissima poco prima del passaggio in on-demand.
La sfortuna ha di certo frenato la ricezione di un esordio d’eccezione, ma la casa newyorkese non si è data per vinta e, al secondo round, ha finanziato la produzione di Love Lies Bleeding, le cui riprese sono avvenute tra giugno e agosto del 2022. Il film è stato presentato ufficialmente al Sundance 2024 e in anteprima alla Berlinale. Mentre il suo debutto era ambientato in un austero maniero dello Yorkshire, il nuovo thriller di Glass - uscito nelle sale statunitensi a marzo scorso - ci porta invece in una cittadina del New Mexico durante anni Ottanta, un luogo senza poesia dove giunge Jackie (Katie O’Brian), una body-builder in preparazione per le gare nazionali di Las Vegas. Di passaggio nello stato più a sud delle Rocky Mountains, incontra e s’innamora di Lou (Kristen Stewart), ragazza che gestisce una palestra.
Il passato della giovane atleta dà ragione del suo nomadismo: adottata a tredici anni e bullizzata dai coetanei perché sovrappeso, Jackie è una renegade che ha imparato a rispondere alla violenza con la violenza, trasformando il proprio corpo in un’arma di difesa. Il suo unico strumento di emancipazione la porta lontano dal natio Oklahoma e verso il sogno di Sin City. È così che questa singolare apostata, che vive alla giornata, trova lavoro presso Mr. Langston (Ed Harris), vecchio ceffo dall’aria losca, proprietario di un poligono di tiro che coltiva una passione sinistra per le cimici. Dal canto suo, anche il presente di Lou non è propriamente idilliaco: allontanatasi dal padre, isolata dalla comunità perché lesbica, sua madre è sparita nel nulla dodici anni prima e sua sorella Beth (Jena Malone) è una vittima silenziosa del violento marito JJ (Dave Franco).
Jackie confida a Lou il desiderio di vincere il campionato, e questa, che vende steroidi sottobanco, le regala una dose. Tra le due scoppia una passione travolgente. Jackie apprende da subito che Mr. Langston è il padre di Lou, che controlla gli affari illeciti sul territorio e che la sua attività di contrabbando è legata alla misteriosa scomparsa della madre. “Vieni con me a Vegas?”, Jackie domanda a Lou, “E dopo, continuiamo a guidare”. “Dove?”, le chiede Lou, che non è mai uscita dai confini di questa landa malfamata. Nel frattempo, il loro amore va rafforzandosi al ritmo dei muscoli di Jackie, in una serie sensuale di iniezioni, tuorli d’uovo e bilancieri. Il loro progetto di fuga viene messo in crisi quando JJ picchia per l’ennesima volta Beth, che finisce in ospedale: Jackie, mossa dalla rabbia di Lou, vendica la donna in un impeto di violenza.
Da questo mix letale di passione, rabbia e dipendenza, ecco il tributo della regista inglese ai copioni dei blockbuster anni Ottanta, un variegato di spettacoli di violenza dove il protagonista è il forzuto consacrato da Arnold Schwarzenegger in Stay Hungry (Il gigante della strada,1976) o il buono inconsapevole invischiato nei malaffari di To Live and Die in L.A. (Vivere e morire a Los Angeles, 1985) interpretato da William Petersen. È un’estetica surmoderna che descrive i neo Far-West di confine dove la vendetta personale trionfa sempre e la violenza del più forte esplode in sinestesie audiovisive in cui la carne si torce, le ossa si rompono e i denti saltano, sfociando in fiumi colmi di sangue. Solo la violenza detta la legge nel paradigma di Glass: o ne partecipi, o ne sei vittima. La storia tra Lou e Jackie è quella di un amore nervoso, nevralgico, nerboruto: non è un’intesa intellettuale ma il frutto della violenza infinita a cui, per via diretta o meno, le due sono esposte da sempre.
Il cinema che Rose Glass omaggia non è d’autore: i temi sono mutuati dall’universo dei b-movies di Sylvester Stallone, e narrazioni più metafisiche sulla violenza sono state recentemente proposte da film come The Fighter (2010) e Million Dollary Baby (2004). Che il propulsore sia qui una donna non giustifica l’uso, a tratti anche rivoltante, della brutalità; per i seguaci della filosofia della cura - e gli amanti del cinema d’introspezione - questo amore impulsivo, prepotente e furioso, metafora di un’energia irrefrenabile, sineddoche di una rabbia ancestrale, sembrerà anti-intellettuale e il moralismo au courant vi leggerà una sconfitta delle istanze che l’estetica del femminile porterebbe con sé. Per una descrizione del cinema queer, non c’è da aspettarsi il finale stucchevole dei nuovi drammi d’epoca: qui non c’è nessun virtuosismo degno di Rachel Weisz, tutti hanno le mani sporche di sangue.
L’attesa è senz’altro accompagnata dall’aspettativa di vedere finalmente un queer romance degno erede del cinema americano, con protagonista una Kristen Stewart diventata ormai conclamato marchio di garanzia per l’industria dell’Indie. Il film è intriso di iconografia queer, come quando vediamo Lou leggere Macho Sluts di Pat Califia, classico della letteratura erotica queer anni Ottanta, o quando nella sua camera scorgiamo il poster di Female Trouble di John Waters. Glass, non a caso, ha più volte menzionato la sua ammirazione per il maestro americano del cinema della trasgressione, e ha elencato tra le sue letture il Diario di un ladro di Jean Genet, l’unico scrittore ad aver unito crimine e omosessualità in storie d’amore e violenza.
E se da una parte c’è chi ha visto nell’opera una versione lesbica di Thelma & Louise (1991), dall’altra è comunque presente in essa un sapore europeo attraverso la rappresentazione del simbolico femminile, tropo di violenza e repulsione che strizza l’occhio all’ultima Doucourneau di Titane (2021) e fa l’inchino alla Lynne Ramsay di You Were Never Really Here (2017). Nonostante ciò, l’azione del film risponde anche e, soprattutto, a una visione meno impegnata, e la sua fruizione consacra in fin dei conti una storia tutta americana che tributa il “New Far West” di Clint Eastwood.
Ma se la carne all’apparenza trita - anzi, battuta - non sferza colpi troppo lontani dal tecnicismo espressivo della violenza glorificata dal cinema statunitense più pop, sono le dimensioni che il finale raggiunge a sedurre il pubblico: l’approdo al fantastico gargantuesco ci suggerisce che, in una terra dove conta solo la forza, l’intensità dell’Amore è l’unica unità di misura. Il titolo allude sì a una canzone comparsa in un’altra famigerata storia di sentimenti estremi, Breaking the Waves (Le onde del destino, 1996) di Lars Von Trier, ma del brano di Sir Elton John, Clint Mansell - che firma la colonna sonora - ne riprende giusto i palpitanti synth strumentali dell’intro. E mentre l’amore giace esangue, Kristen Stewart e Katy O’Brian sono le nuove Natural Born Killers (Assassini nati, 1994) di una vendetta nata dal desiderio e pompata dalla sua grande, colossale, forza. Non adatta ai deboli di cuore, un’opera seconda che nega la poetica della prima, Love Lies Bleeding è un classico istantaneo che conferma il talento di Glass. Da vedere a stomaco vuoto!