Mitologie americane e incubi notturni
recensione di Pavel Belli Micati
RV-73
01.11.2024
1971, Londra. Il 25 dicembre negli studi della BBC i T. Rex si esibiscono con Get it On, primo singolo estratto da Electric Warrior, il loro sesto album. Sullo stesso palco l’esibizione di Hot Love a marzo aveva segnato la nascita del glam rock. La performance di Natale, trasmessa in tv, vede un cameo straordinario ai tasti di Sir Elton John, migliore amico di Marc Bolan, il mitico frontman della band inglese scomparso prematuramente nel ‘77. Electric Warrior segna un nuovo approdo per i T. Rex, cioè il passaggio dal repertorio classico rock’n’roll alla più libera sperimentazione con le sintesi e distorsioni delle basi pop. La canzone dal motivetto energico, insieme ai suoi glissati seducenti, conquista al gruppo il disco di platino ed è destinata a divenire la traccia più famosa dei T.Rex, oltre che il manifesto poetico con cui la band rompe la cortina che fino ad allora aveva tenuto separata la musica rock da quella pop. Bolan è la star indiscussa, non splenderà mai più di così.
1996, Colorado. La mattina dopo Natale, la centrale di polizia di Boulder risponde alla chiamata di una donna che denuncia la scomparsa della figlia. Sono le sei del mattino e Patsy Ramsey ha trovato sulle scale di casa una lettera, scritta da un misterioso gruppo che si firma “S.B.T.C”. Una pattuglia accorre sul luogo e le indagini cominciano. Non c’è traccia della bambina, tutto farebbe pensare a un rapimento con richiesta di riscatto. Qualche ora dopo il marito di Patsy, John Ramsay, scortato dall’investigatrice Linda Arndt, rinviene nello scantinato di casa il corpo senza vita della figlia, la piccola JonBénet, anni sei. L’autopsia rivela una frattura al cranio, ma la piccola è morta per strangolamento. Il misterioso infanticidio è destinato al mito: la morte dell’angelica bambina dagli occhi smeraldo e i boccoli d’oro, promettente stella dello showbusiness, già nota all’epoca per la vittoria in svariati beauty pageant, diventa da subito un evento mediatico che, ancora oggi, dopo quasi trent’anni, resta uno dei casi irrisolti più oscuri della storia americana.
Oz Perkins non è solo un nepo baby: il figlio dell’attore Anthony Perkins - celebre interprete di Norman Bates nel classico hitchcockiano Psycho (1960) - oltre ad aver recitato in piccoli ma incisivi ruoli in film come Nope (2022) di Jordan Peele e Legally Blonde (La rivincita delle bionde, 2001) affianco Reese Witherspon, scrive da anni cinema horror, è appassionato di mitologia popolare e nuovi media, e ha un orecchio raffinato per la musica rock. Questo è ciò da tenere a mente per arrivare preparati al suo ultimo lavoro da regista: Longlegs.
Il film, quarta regia di Perkins - dopo The Blackcoat’s Daughter (2015), I Am the Pretty Thing That Lives in the House (Sono la bella creatura che vive in questa casa, 2016) e Gretel & Hansel (2020) - è stato distribuito da Neon negli Stati Uniti a luglio e ha incassato finora più di 108 milioni di dollari internazionalmente. In Italia è uscito ieri, nel giorno più spaventoso dell’anno, il 31 ottobre. Come reagirà un pubblico che con il thriller nelle sue variabili horror ha poca, se non alcuna, dimestichezza? Le domande sono tante, le risposte insoddisfacenti.
Longlegs ci porta in Oregon, anni Novanta. Dopo aver individuato come per magia il nascondiglio di un uomo ricercato, l’agente Lee Harker (Maika Monroe) si sottopone a un test dell’FBI che rivela in lei delle abilità psichiche sovrannaturali. Harker viene assegnata a un cold case d’eccezione: a capo dell’indagine, l’agente Carter (Blair Underwood) la informa di una serie di crimini domestici dove i padri ammazzano prima le loro bambine, poi il resto della famiglia, e infine si tolgono la vita. Ad unire la scia di omicidi-suicidi è la presenza sul luogo del crimine di lettere codificate e firmate da un certo Longlegs. Harker decifra il contenuto dei messaggi, versi di filastrocche per l'infanzia, ma appena scopre che le bambine uccise hanno tutte in comune la data di nascita (il 14 del mese), un’altra tragedia familiare con lettera si aggiunge alla lista. Longlegs, in azione dagli anni Settanta, è ancora a piede libero. È qualcuno, o qualcosa, che spinge i padri a commettere queste atrocità. Il caso si infittisce, ma nessuno sa che l'oscura figura è molto più vicina di quanto sembra… anche perché il compleanno di Harker, non a caso il 14 di gennaio, è in imminente arrivo.
Non è una detective story che sfuma nell’horror quella raccontata da Longlegs, piuttosto un thriller che gioca con l’indagine investigativa nelle sue diverse ricezioni: Perkins ci dà tutte le informazioni che servono a risolvere il rompicapo. Il tropo poliziesco - eredità britannica dei racconti di Arthur Conan Doyle - approda nell’ immaginario statunitense, dove la mitologia popolare e la cultura visuale trascendono anche i più famigerati eventi di cronaca nera e misteri irrisolti - bambine scomparse misteriosamente nel nulla o brutalmente uccise, proprio come il triste caso di JonBénet. La prima parte della narrazione, che si apre proprio con la citazione della famosa hit dei T.Rex, Get it on, dà le coordinate del mystery game: i genitori uccidono le figlie, c’è una lettera in codice firmata ‘Longlegs’ che collega tutti gli omicidi, qualcosa di sovrannaturale porta i padri alla strage e lega personalmente la protagonista alle indagini. Lei è la sola che può decifrare il mistero, non solo perché ha doti di chiaroveggenza, ma anche perché con le bambine condivide il giorno della nascita.
La seconda parte di Longlegs sono le regole del gioco: tramite decodifiche e ricerche documentarie, Harker individua connessioni tra i casi e traccia un filo che riporta gli efferati omicidi alla sua persona, ma soprattutto, al suo passato. L’oscuro firmatario viene individuato e arrestato: nome d’arte di Dale Ferdinand Kobble, interpretato da un Nicolas Cage irriconoscibile, Longlegs è la parodia della rockstar in declino, tra pesanti interventi di chirurgia estetica, performance canore non richieste e triviali simulacri di adorazione. L’interrogatorio, chiaro omaggio all’eredità di Silence of the Lambs (Il silenzio degli innocenti, 1993), avvicina l’agente speciale Harker a qualcosa di demoniaco che comunicherebbe con le sue stesse abilità psichiche. La terza e ultima parte, spoiler-free, è la mise en scene del gioco: dopo averci fornito il materiale e averci letto le istruzioni, Perkins ci fa assistere allo svolgimento completo del piano, un disegno malefico che tramite la cronaca nera dispiega una mitologia popolare in equilibrio tra fanatismo musicale e culto satanico.
Se oggi il giornalismo sopravvive grazie all’engagement emotivo dei suoi lettori, la cronaca nera adatta l’esposizione dei fatti al desiderio di verità del pubblico, è così che il bisogno del common reader, che apprende in tv dell’ennesima tragedia familiare, viene rimodulato costantemente. Perkins immagina allora un paradigma dove il male si nutre del sacrificio degli innocenti, e il rito dell’orrore domestico diventa il riscatto istantaneo della sua ricezione mediatica. Patente in Longlegs è l’ossequio al repertorio di fortunati thriller e horror del cinema statunitense. Ci sono le bambole, e le bambine, di Alice Sweet Alice (Comunione con delitti, 1976), l'universo psichico femminile di Full Circle (Demonio dalla faccia d’angelo, 1977), il sacrificio e il paranormale di Lady in White (Scarlatti – Il thriller, 1988): pellicole che, a loro volta, giocano con la tragedia familiare e più propriamente con l’infanticidio, istituendo le letture insuperate che intellettualizzano i serial killer, ammantano di mistero i loro crimini – fintanto che rimangono impuniti – e tingono di una candida purezza le vittime, piccole stelle private del loro splendente futuro.
Questi serial killer, quando smascherati, si scoprono attratti dall’esoterismo, legati all’occulto, fissati con le crittografie, persino fanatici di musica rock. Il killer in Longlegs non è niente più che la caricatura di Marilyn Manson, a sua volta parodia della spettacolarizzazione della tragedia: la rockstar dimenticata che, tra soluzioni abitative rimediate in scantinati, escursioni al supermercato e incontri ravvicinati con bimbe innocenti, è descritta come perversa, un mostro che sacrifica le anime pure in osservanza al patto col diavolo che gli promise (e permise) la gloria ormai passata. Perkins ci dà modo prima di credere all’assurdo e poi ci rivela che l’assurdo è reale.
Parodia esplicita della ricezione della cronaca nera e delle tragedie familiari, la pellicola di Perkins è anche una rilettura creativa del mito dietro al successo, delle rockstar e delle loro tragiche e premature scomparse (quando non del loro triste declino), oltre a un’indagine trasognata delle ipotetiche connessioni tra la musica rock, la sua storia e il legame che intrattiene con la sua ricezione.
Longlegs ruba vari ingredienti dal contemporaneo - il fascino per i casi irrisolti, lo specchio deformante della tv d’inchiesta che sostituisce l’indagine poliziesca, il culto della musica rock e la sua affiliazione con il satanismo - e li unisce in un mistero di cronaca, raccontando il paterno mostruoso attraverso la lente investigativa, una ricerca della verità dove il male trova le proprie origini in miti precristiani e il diavolo d’oggi sopravvive grazie all'accordo con vecchie glorie, ora al tramonto, della scena musicale. La risoluzione del mistero però procede come il completamento di un puzzle: mettere assieme i pezzi è una sfida intrigante, anche se inutilmente complessa. Il risultato è un composto unitario nella sua estetica ma frammentario nella sua scatologia. Stufo delle narrazioni post-romantiche del giornalismo che racconta la solita favola delle famiglie perfette colpite dal demonio della strage domestica, Perkins chiede al pubblico “Volete trovare un senso a tutto questo?” e risponde all’enigma con una soluzione nuda e cruda: “Non c’è un senso, solo un’antica maledizione”.
Bolan e i T.Rex beatificavano un genere sospetto e rompevano la superstizione che il rock fosse la reincarnazione del diavolo. Rimodulando i confini culturali tra sacro e profano, l’evoluzione del rock nel pop non solo addolciva la sua rigida ricezione critica, ma semplificava anche la composizione nelle sue pretese artistiche. Si può qui citare Walter Benjamin e la sua Arte nell’epoca della riproducibilità tecnica: il genere rock nasceva, ad onor etimologico, per rompere un’armonia musicale; l’approdo al pop democratizzava tale rottura, riportandola ad una unità totale. Se le tragedie, nell’attuale epoca di ricezione globalizzata, si accompagnano a un’esposizione mediatica unificante e banalizzante allora, come contro aristotelica, il film rompe l’unità, ma non della tragedia, bensì della sua ricezione tragica: racconta le parti che la ricevono, non quelle che la compongono. È un’opera che segna l’ingresso delle teorie della ricezione nel cinema d’autore, oltre che un traguardo dell’horror contemporaneo, perché è proprio questo genere che va attualmente verso la sua democratizzazione.
Longlegs è paradossale anche nella sua ricezione: il pubblico lo ha adorato, la critica no. Il copione di Perkins non è perfetto: la storia introduce elementi inconcludenti; la narrazione parte in quarta con elaborate scelte registiche, dalle inquadrature all’uso del suono, ma prosegue in avaria; la denegazione romanzesca è ostacolata dalle rotture con il registro - seppur esilaranti, come quando la figlia di Carter chiede a Harker se già da piccola desiderasse fare l’agente, e lei le risponde: “No, in realtà volevo fare l’attrice”; e poi il finale comico contraddice le tragiche premesse.
Ma tutto questo non è il punto del film. Perkins risponde sia all’insensatezza delle tragedie sia all’insensato tentativo di dar loro un senso. Da europei, quello che allontana da un divertissement sui generis come questo è la distanza tra l’impatto emotivo e la cristallizzazione dei casi di cronaca nera nell’immaginario collettivo. Per il pubblico statunitense invece essa è già secolarizzata nella propria cultura. E lo sappiamo bene, l’America fa di tutto un mito, anche delle tragedie familiari. Per (s)fortuna, la stampa italiana al giorno d’oggi è sulla buona strada.
Mitologie americane e incubi notturni
recensione di Pavel Belli Micati
RV-73
01.11.2024
1971, Londra. Il 25 dicembre negli studi della BBC i T. Rex si esibiscono con Get it On, primo singolo estratto da Electric Warrior, il loro sesto album. Sullo stesso palco l’esibizione di Hot Love a marzo aveva segnato la nascita del glam rock. La performance di Natale, trasmessa in tv, vede un cameo straordinario ai tasti di Sir Elton John, migliore amico di Marc Bolan, il mitico frontman della band inglese scomparso prematuramente nel ‘77. Electric Warrior segna un nuovo approdo per i T. Rex, cioè il passaggio dal repertorio classico rock’n’roll alla più libera sperimentazione con le sintesi e distorsioni delle basi pop. La canzone dal motivetto energico, insieme ai suoi glissati seducenti, conquista al gruppo il disco di platino ed è destinata a divenire la traccia più famosa dei T.Rex, oltre che il manifesto poetico con cui la band rompe la cortina che fino ad allora aveva tenuto separata la musica rock da quella pop. Bolan è la star indiscussa, non splenderà mai più di così.
1996, Colorado. La mattina dopo Natale, la centrale di polizia di Boulder risponde alla chiamata di una donna che denuncia la scomparsa della figlia. Sono le sei del mattino e Patsy Ramsey ha trovato sulle scale di casa una lettera, scritta da un misterioso gruppo che si firma “S.B.T.C”. Una pattuglia accorre sul luogo e le indagini cominciano. Non c’è traccia della bambina, tutto farebbe pensare a un rapimento con richiesta di riscatto. Qualche ora dopo il marito di Patsy, John Ramsay, scortato dall’investigatrice Linda Arndt, rinviene nello scantinato di casa il corpo senza vita della figlia, la piccola JonBénet, anni sei. L’autopsia rivela una frattura al cranio, ma la piccola è morta per strangolamento. Il misterioso infanticidio è destinato al mito: la morte dell’angelica bambina dagli occhi smeraldo e i boccoli d’oro, promettente stella dello showbusiness, già nota all’epoca per la vittoria in svariati beauty pageant, diventa da subito un evento mediatico che, ancora oggi, dopo quasi trent’anni, resta uno dei casi irrisolti più oscuri della storia americana.
Oz Perkins non è solo un nepo baby: il figlio dell’attore Anthony Perkins - celebre interprete di Norman Bates nel classico hitchcockiano Psycho (1960) - oltre ad aver recitato in piccoli ma incisivi ruoli in film come Nope (2022) di Jordan Peele e Legally Blonde (La rivincita delle bionde, 2001) affianco Reese Witherspon, scrive da anni cinema horror, è appassionato di mitologia popolare e nuovi media, e ha un orecchio raffinato per la musica rock. Questo è ciò da tenere a mente per arrivare preparati al suo ultimo lavoro da regista: Longlegs.
Il film, quarta regia di Perkins - dopo The Blackcoat’s Daughter (2015), I Am the Pretty Thing That Lives in the House (Sono la bella creatura che vive in questa casa, 2016) e Gretel & Hansel (2020) - è stato distribuito da Neon negli Stati Uniti a luglio e ha incassato finora più di 108 milioni di dollari internazionalmente. In Italia è uscito ieri, nel giorno più spaventoso dell’anno, il 31 ottobre. Come reagirà un pubblico che con il thriller nelle sue variabili horror ha poca, se non alcuna, dimestichezza? Le domande sono tante, le risposte insoddisfacenti.
Longlegs ci porta in Oregon, anni Novanta. Dopo aver individuato come per magia il nascondiglio di un uomo ricercato, l’agente Lee Harker (Maika Monroe) si sottopone a un test dell’FBI che rivela in lei delle abilità psichiche sovrannaturali. Harker viene assegnata a un cold case d’eccezione: a capo dell’indagine, l’agente Carter (Blair Underwood) la informa di una serie di crimini domestici dove i padri ammazzano prima le loro bambine, poi il resto della famiglia, e infine si tolgono la vita. Ad unire la scia di omicidi-suicidi è la presenza sul luogo del crimine di lettere codificate e firmate da un certo Longlegs. Harker decifra il contenuto dei messaggi, versi di filastrocche per l'infanzia, ma appena scopre che le bambine uccise hanno tutte in comune la data di nascita (il 14 del mese), un’altra tragedia familiare con lettera si aggiunge alla lista. Longlegs, in azione dagli anni Settanta, è ancora a piede libero. È qualcuno, o qualcosa, che spinge i padri a commettere queste atrocità. Il caso si infittisce, ma nessuno sa che l'oscura figura è molto più vicina di quanto sembra… anche perché il compleanno di Harker, non a caso il 14 di gennaio, è in imminente arrivo.
Non è una detective story che sfuma nell’horror quella raccontata da Longlegs, piuttosto un thriller che gioca con l’indagine investigativa nelle sue diverse ricezioni: Perkins ci dà tutte le informazioni che servono a risolvere il rompicapo. Il tropo poliziesco - eredità britannica dei racconti di Arthur Conan Doyle - approda nell’ immaginario statunitense, dove la mitologia popolare e la cultura visuale trascendono anche i più famigerati eventi di cronaca nera e misteri irrisolti - bambine scomparse misteriosamente nel nulla o brutalmente uccise, proprio come il triste caso di JonBénet. La prima parte della narrazione, che si apre proprio con la citazione della famosa hit dei T.Rex, Get it on, dà le coordinate del mystery game: i genitori uccidono le figlie, c’è una lettera in codice firmata ‘Longlegs’ che collega tutti gli omicidi, qualcosa di sovrannaturale porta i padri alla strage e lega personalmente la protagonista alle indagini. Lei è la sola che può decifrare il mistero, non solo perché ha doti di chiaroveggenza, ma anche perché con le bambine condivide il giorno della nascita.
La seconda parte di Longlegs sono le regole del gioco: tramite decodifiche e ricerche documentarie, Harker individua connessioni tra i casi e traccia un filo che riporta gli efferati omicidi alla sua persona, ma soprattutto, al suo passato. L’oscuro firmatario viene individuato e arrestato: nome d’arte di Dale Ferdinand Kobble, interpretato da un Nicolas Cage irriconoscibile, Longlegs è la parodia della rockstar in declino, tra pesanti interventi di chirurgia estetica, performance canore non richieste e triviali simulacri di adorazione. L’interrogatorio, chiaro omaggio all’eredità di Silence of the Lambs (Il silenzio degli innocenti, 1993), avvicina l’agente speciale Harker a qualcosa di demoniaco che comunicherebbe con le sue stesse abilità psichiche. La terza e ultima parte, spoiler-free, è la mise en scene del gioco: dopo averci fornito il materiale e averci letto le istruzioni, Perkins ci fa assistere allo svolgimento completo del piano, un disegno malefico che tramite la cronaca nera dispiega una mitologia popolare in equilibrio tra fanatismo musicale e culto satanico.
Se oggi il giornalismo sopravvive grazie all’engagement emotivo dei suoi lettori, la cronaca nera adatta l’esposizione dei fatti al desiderio di verità del pubblico, è così che il bisogno del common reader, che apprende in tv dell’ennesima tragedia familiare, viene rimodulato costantemente. Perkins immagina allora un paradigma dove il male si nutre del sacrificio degli innocenti, e il rito dell’orrore domestico diventa il riscatto istantaneo della sua ricezione mediatica. Patente in Longlegs è l’ossequio al repertorio di fortunati thriller e horror del cinema statunitense. Ci sono le bambole, e le bambine, di Alice Sweet Alice (Comunione con delitti, 1976), l'universo psichico femminile di Full Circle (Demonio dalla faccia d’angelo, 1977), il sacrificio e il paranormale di Lady in White (Scarlatti – Il thriller, 1988): pellicole che, a loro volta, giocano con la tragedia familiare e più propriamente con l’infanticidio, istituendo le letture insuperate che intellettualizzano i serial killer, ammantano di mistero i loro crimini – fintanto che rimangono impuniti – e tingono di una candida purezza le vittime, piccole stelle private del loro splendente futuro.
Questi serial killer, quando smascherati, si scoprono attratti dall’esoterismo, legati all’occulto, fissati con le crittografie, persino fanatici di musica rock. Il killer in Longlegs non è niente più che la caricatura di Marilyn Manson, a sua volta parodia della spettacolarizzazione della tragedia: la rockstar dimenticata che, tra soluzioni abitative rimediate in scantinati, escursioni al supermercato e incontri ravvicinati con bimbe innocenti, è descritta come perversa, un mostro che sacrifica le anime pure in osservanza al patto col diavolo che gli promise (e permise) la gloria ormai passata. Perkins ci dà modo prima di credere all’assurdo e poi ci rivela che l’assurdo è reale.
Parodia esplicita della ricezione della cronaca nera e delle tragedie familiari, la pellicola di Perkins è anche una rilettura creativa del mito dietro al successo, delle rockstar e delle loro tragiche e premature scomparse (quando non del loro triste declino), oltre a un’indagine trasognata delle ipotetiche connessioni tra la musica rock, la sua storia e il legame che intrattiene con la sua ricezione.
Longlegs ruba vari ingredienti dal contemporaneo - il fascino per i casi irrisolti, lo specchio deformante della tv d’inchiesta che sostituisce l’indagine poliziesca, il culto della musica rock e la sua affiliazione con il satanismo - e li unisce in un mistero di cronaca, raccontando il paterno mostruoso attraverso la lente investigativa, una ricerca della verità dove il male trova le proprie origini in miti precristiani e il diavolo d’oggi sopravvive grazie all'accordo con vecchie glorie, ora al tramonto, della scena musicale. La risoluzione del mistero però procede come il completamento di un puzzle: mettere assieme i pezzi è una sfida intrigante, anche se inutilmente complessa. Il risultato è un composto unitario nella sua estetica ma frammentario nella sua scatologia. Stufo delle narrazioni post-romantiche del giornalismo che racconta la solita favola delle famiglie perfette colpite dal demonio della strage domestica, Perkins chiede al pubblico “Volete trovare un senso a tutto questo?” e risponde all’enigma con una soluzione nuda e cruda: “Non c’è un senso, solo un’antica maledizione”.
Bolan e i T.Rex beatificavano un genere sospetto e rompevano la superstizione che il rock fosse la reincarnazione del diavolo. Rimodulando i confini culturali tra sacro e profano, l’evoluzione del rock nel pop non solo addolciva la sua rigida ricezione critica, ma semplificava anche la composizione nelle sue pretese artistiche. Si può qui citare Walter Benjamin e la sua Arte nell’epoca della riproducibilità tecnica: il genere rock nasceva, ad onor etimologico, per rompere un’armonia musicale; l’approdo al pop democratizzava tale rottura, riportandola ad una unità totale. Se le tragedie, nell’attuale epoca di ricezione globalizzata, si accompagnano a un’esposizione mediatica unificante e banalizzante allora, come contro aristotelica, il film rompe l’unità, ma non della tragedia, bensì della sua ricezione tragica: racconta le parti che la ricevono, non quelle che la compongono. È un’opera che segna l’ingresso delle teorie della ricezione nel cinema d’autore, oltre che un traguardo dell’horror contemporaneo, perché è proprio questo genere che va attualmente verso la sua democratizzazione.
Longlegs è paradossale anche nella sua ricezione: il pubblico lo ha adorato, la critica no. Il copione di Perkins non è perfetto: la storia introduce elementi inconcludenti; la narrazione parte in quarta con elaborate scelte registiche, dalle inquadrature all’uso del suono, ma prosegue in avaria; la denegazione romanzesca è ostacolata dalle rotture con il registro - seppur esilaranti, come quando la figlia di Carter chiede a Harker se già da piccola desiderasse fare l’agente, e lei le risponde: “No, in realtà volevo fare l’attrice”; e poi il finale comico contraddice le tragiche premesse.
Ma tutto questo non è il punto del film. Perkins risponde sia all’insensatezza delle tragedie sia all’insensato tentativo di dar loro un senso. Da europei, quello che allontana da un divertissement sui generis come questo è la distanza tra l’impatto emotivo e la cristallizzazione dei casi di cronaca nera nell’immaginario collettivo. Per il pubblico statunitense invece essa è già secolarizzata nella propria cultura. E lo sappiamo bene, l’America fa di tutto un mito, anche delle tragedie familiari. Per (s)fortuna, la stampa italiana al giorno d’oggi è sulla buona strada.