Lo sguardo delle fiabe,
recensione di Andrea Tiradritti
RV-10
07.03.2023
Se è vero che nel centro degli occhi abbiamo due bambine – in latino pupilla era la giovane fanciulla – ne servono di curiose e scalmanate per vedere l’ultimo film di Alice Rohrwacher, che con l’infanzia e lo sguardo, con l’infantile voracità del guardare, ha molto a che fare. Tratto da una lettera di auguri che Elsa Morante scrisse al suo amico Goffredo Fofi, prodotto da Alfonso Cuarón per Disney e nominato agli Oscar come miglior cortometraggio, Le pupille racconta la vigilia e il pranzo di Natale in un collegio italiano di orfane durante un inverno di guerra.
Il film inizia non a caso con uno sguardo proibito e un richiamo all’ordine: la madre superiora si premura fin da subito che alle bambine sia vietato guardare altrove, tra le righe di una lettera, oltre la finestra del dormitorio, lungo traiettorie che non siano le regole del convento a tracciare. Eppure, l’arrivo della festività sobilla un’agitazione tutto intorno e all’interno della struttura che è difficile da tenere a bada. La mattina del ventiquattro dicembre alle porte del collegio una donna scongiura le bambine di pregare per il suo uomo sventurato. Più tardi, nelle sale rischiarate dal fuoco, ci si adopera nel trambusto per la sacra vestizione, così da accogliere i fedeli bisognosi e la nascita di Gesù conciate di tutto punto, aggrappate a un cielo di cartapesta, cherubini adoranti dalle ali guaste. Tra le pupille ce n’è una, Serafina, che il permesso di guardare lo chiede alle compagne e ogni volta da loro le viene detto di no, di scansarsi e aspettare il suo turno. Lo sguardo di Serafina è negato, mancante, e per questo ardente del bisogno di trasgredire. La prima cosa che vede davvero, il suo cuore di scena caduto per terra, scatena una magia, una rivolta. Il comunicato alla radio che descrive le valorose gesta dei soldati al fronte si tramuta all’improvviso in una canzone dal ritmo indiavolato e dalle parole scabrose, la fila uniforme delle bambine si rompe in danza, i corpi oltrepassano la norma e lo sguardo liberato finalmente fa festa.
Fiabesca nel realismo rohrwacheriano è la contrapposizione morale tra bene e male, ovvero tra gli sguardi, le visioni delle cose, che a essi corrispondono. Bene nel cinema di Rohrwacher è lo sguardo gentile di Serafina, aperto allo stupore, sguardo desiderante degli umili che nulla afferra ma tutto immagina di afferrare, sguardo trasfigurante, ribelle, in grado di meraviglie e di meravigliarsi. Male, non perché cattivo in sè ma perché ottuso e opposto al bene, è invece lo sguardo timorato della badessa, sguardo severo e avaro, simbolo di un potere accecato e di una cultura inautentica, sguardo che condanna e reclude, per il quale l’identità è unica, il senso assoluto, la fantasia un pericolo da bandire. Come ogni fiaba che coltivi l’incredulità, per quanto il bene venga offeso e messo a repentaglio, anche ne Le pupille è infine lo sguardo del male a soccombere, serrandosi sconfitto e ridicolo. «Sparite dalla mia vista!», tuona la madre superiora alle bambine l’istante seguente al peccato di Serafina, colpevole durante il pranzo di Natale di aver desiderato addentare la sontuosa zuppa inglese, di averla guardata con occhi irascibili. La madre ordina dunque di sparire, ma è lei la sola, coprendosi il volto con la mano, a non vedere più. Il suo sguardo si rivela cieco nel momento in cui quello delle bambine si spalanca per la prima volta: la rivoluzione è vittoriosa, il mondo capovolto. È Natale e almeno a Natale tutti gli esclusi e i morti di fame – cani maltrattati, spazzacamini sfruttati, bambine senza famiglia – mangeranno la zuppa inglese perché così ha desiderato il loro sguardo.
Di Pasolini Le pupille rinnova l’iconografia cristiana, la sofferente santità degli oppressi, la relazione compassionevole nei confronti di individui pre-intellettualizzati, nonché un approccio letterario alla lingua delle immagini, dove letterario significa plurale, instabile, ambiguo e sempre un poco oltre, tra le pieghe e addosso alla pelle del reale. Di Jean Vigo, dei suoi eroici protagonisti di Zero in condotta (1933), ripropone invece il gusto per lo sberleffo e la sovversione, l’età dell’infanzia come età del gioco e della guerra, la stupidità degli adulti, il cinema come luogo prediletto dell’incanto, nel quale sopra e sotto si confondono, così che i tetti possano diventare pavimenti sui quali camminare verso una giusta felicità.
Ha fatto un film da canticchiare sotto la doccia Alice Rohrwacher, uno di quelli che si posano leggeri sul palmo di una mano e che il vento si porterebbe via se non avesse radici profonde da qualche parte, nel nero delle nostre iridi. Le pupille canta della gioventù dello sguardo, che non è uno stato temporaneo ma una condizione necessaria per vedere sul serio, mantenersi spettatori intelligenti, persone vive. Uno sguardo è giovane se incosciente dei suoi limiti, affamato di torte le cui ricette non sono nemmeno ancora state pensate. È giovane il cinema di Alice Rohrwacher perché non insegna nulla, semmai ricorda l’essenziale: nutrire le bambine dispettose che ci saltellano negli occhi, conservare indisciplinato lo sguardo, rispondere: «Ancora! Ancora!», a chi ci strattona via dicendo che tutto è stato già visto e nulla più è da vedere. Al cinema la vita non è mai uguale a se stessa, sullo schermo sempre nuove vite, nuovi sguardi, aspettano di rivederci.
Lo sguardo delle fiabe,
recensione di Andrea Tiradritti
RV-10
07.03.2023
Se è vero che nel centro degli occhi abbiamo due bambine – in latino pupilla era la giovane fanciulla – ne servono di curiose e scalmanate per vedere l’ultimo film di Alice Rohrwacher, che con l’infanzia e lo sguardo, con l’infantile voracità del guardare, ha molto a che fare. Tratto da una lettera di auguri che Elsa Morante scrisse al suo amico Goffredo Fofi, prodotto da Alfonso Cuarón per Disney e nominato agli Oscar come miglior cortometraggio, Le pupille racconta la vigilia e il pranzo di Natale in un collegio italiano di orfane durante un inverno di guerra.
Il film inizia non a caso con uno sguardo proibito e un richiamo all’ordine: la madre superiora si premura fin da subito che alle bambine sia vietato guardare altrove, tra le righe di una lettera, oltre la finestra del dormitorio, lungo traiettorie che non siano le regole del convento a tracciare. Eppure, l’arrivo della festività sobilla un’agitazione tutto intorno e all’interno della struttura che è difficile da tenere a bada. La mattina del ventiquattro dicembre alle porte del collegio una donna scongiura le bambine di pregare per il suo uomo sventurato. Più tardi, nelle sale rischiarate dal fuoco, ci si adopera nel trambusto per la sacra vestizione, così da accogliere i fedeli bisognosi e la nascita di Gesù conciate di tutto punto, aggrappate a un cielo di cartapesta, cherubini adoranti dalle ali guaste. Tra le pupille ce n’è una, Serafina, che il permesso di guardare lo chiede alle compagne e ogni volta da loro le viene detto di no, di scansarsi e aspettare il suo turno. Lo sguardo di Serafina è negato, mancante, e per questo ardente del bisogno di trasgredire. La prima cosa che vede davvero, il suo cuore di scena caduto per terra, scatena una magia, una rivolta. Il comunicato alla radio che descrive le valorose gesta dei soldati al fronte si tramuta all’improvviso in una canzone dal ritmo indiavolato e dalle parole scabrose, la fila uniforme delle bambine si rompe in danza, i corpi oltrepassano la norma e lo sguardo liberato finalmente fa festa.
Fiabesca nel realismo rohrwacheriano è la contrapposizione morale tra bene e male, ovvero tra gli sguardi, le visioni delle cose, che a essi corrispondono. Bene nel cinema di Rohrwacher è lo sguardo gentile di Serafina, aperto allo stupore, sguardo desiderante degli umili che nulla afferra ma tutto immagina di afferrare, sguardo trasfigurante, ribelle, in grado di meraviglie e di meravigliarsi. Male, non perché cattivo in sè ma perché ottuso e opposto al bene, è invece lo sguardo timorato della badessa, sguardo severo e avaro, simbolo di un potere accecato e di una cultura inautentica, sguardo che condanna e reclude, per il quale l’identità è unica, il senso assoluto, la fantasia un pericolo da bandire. Come ogni fiaba che coltivi l’incredulità, per quanto il bene venga offeso e messo a repentaglio, anche ne Le pupille è infine lo sguardo del male a soccombere, serrandosi sconfitto e ridicolo. «Sparite dalla mia vista!», tuona la madre superiora alle bambine l’istante seguente al peccato di Serafina, colpevole durante il pranzo di Natale di aver desiderato addentare la sontuosa zuppa inglese, di averla guardata con occhi irascibili. La madre ordina dunque di sparire, ma è lei la sola, coprendosi il volto con la mano, a non vedere più. Il suo sguardo si rivela cieco nel momento in cui quello delle bambine si spalanca per la prima volta: la rivoluzione è vittoriosa, il mondo capovolto. È Natale e almeno a Natale tutti gli esclusi e i morti di fame – cani maltrattati, spazzacamini sfruttati, bambine senza famiglia – mangeranno la zuppa inglese perché così ha desiderato il loro sguardo.
Di Pasolini Le pupille rinnova l’iconografia cristiana, la sofferente santità degli oppressi, la relazione compassionevole nei confronti di individui pre-intellettualizzati, nonché un approccio letterario alla lingua delle immagini, dove letterario significa plurale, instabile, ambiguo e sempre un poco oltre, tra le pieghe e addosso alla pelle del reale. Di Jean Vigo, dei suoi eroici protagonisti di Zero in condotta (1933), ripropone invece il gusto per lo sberleffo e la sovversione, l’età dell’infanzia come età del gioco e della guerra, la stupidità degli adulti, il cinema come luogo prediletto dell’incanto, nel quale sopra e sotto si confondono, così che i tetti possano diventare pavimenti sui quali camminare verso una giusta felicità.
Ha fatto un film da canticchiare sotto la doccia Alice Rohrwacher, uno di quelli che si posano leggeri sul palmo di una mano e che il vento si porterebbe via se non avesse radici profonde da qualche parte, nel nero delle nostre iridi. Le pupille canta della gioventù dello sguardo, che non è uno stato temporaneo ma una condizione necessaria per vedere sul serio, mantenersi spettatori intelligenti, persone vive. Uno sguardo è giovane se incosciente dei suoi limiti, affamato di torte le cui ricette non sono nemmeno ancora state pensate. È giovane il cinema di Alice Rohrwacher perché non insegna nulla, semmai ricorda l’essenziale: nutrire le bambine dispettose che ci saltellano negli occhi, conservare indisciplinato lo sguardo, rispondere: «Ancora! Ancora!», a chi ci strattona via dicendo che tutto è stato già visto e nulla più è da vedere. Al cinema la vita non è mai uguale a se stessa, sullo schermo sempre nuove vite, nuovi sguardi, aspettano di rivederci.