Amicizia d'alta quota,
recensione di Nicolò Bellon
RV-05
10.01.2023
La montagna ha un suo canto, un suo fiato, un suo passo. Soprattutto la montagna ha una sua geometria, che i più penseranno sia verticale ma si sbagliano: la montagna è obliqua. Perché sghembi sono i suoi pendii. Lo sanno gli alpinisti che i monti li scalano, e un tempo li riprendevano in filmini in 16mm, formato 4:3, una cornice stretta che ben restituisce il senso di pressione continua che si prova tra i sentieri di montagna, prima di arrivare in cresta. Formato recuperato da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch per l’adattamento de Le otto montagne, romanzo con cui Paolo Cognetti ha vinto il Premio Strega 2017 (edito da Einaudi), ora ultima fatica della coppia belga, affiancata dai golden boys, tutti italiani, Alessandro Borghi e Luca Marinelli. La storia d’amicizia, piccola e grande, tra Pietro/Marinelli, il ragazzo di città che alla montagna torna, e Bruno/Borghi, il montanaro.
Ne Le otto montagne (Premio della giuria al Festival di Cannes 2022) la macchina da presa si muove poco, per lo più in brevi carrellate a seguire i protagonisti su per i sentieri, fino alla cima dei monti. Sa che non servono acrobazie manieristiche per restituire forza cinetica a luoghi che salgono e scendono da sé, e fremono, scrosciano, rullano, scorrono. Così la macchina sta accanto agli uomini, ai loro corpi, si avvicina a catturare il segreto di uno sguardo, di un ghigno trattenuto, e poi lascia loro spazio, li riprende in campi medi, inquadrature fisse, immersi in quella natura che in questa storia prende sempre un nome specifico: “è il bosco, il pascolo, il torrente, la roccia, cose che puoi indicare con il dito”, dice Bruno/Borghi. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo si dà perché non serve a niente.
È un film di piccole cose, Le otto montagne, fatto di biscotti e latte cagliato, di stalle e di fieno, di trote e libri d’avventura consumati dal tempo, e zaini, scarponi. È fatto del ghiaccio che conserva le storie degli inverni passati e in primavera diventa acqua, scende a valle, si fa lago. Prima di ogni cosa, è una storia di amicizia tra maschi. Pietro è l’uomo di città che smania, si agita tra il tempo della leggerezza e quello della gravità, è l’acqua dei torrenti che guada con l’amico, la brezza d’alta quota. Bruno è il montanaro, “l’omo servadzo”, bestia, uomo, albero, bosco che nella valle ha messo radici. Marinelli e Borghi sono in stato di grazia. L’uno muscolare, esuberante, dolce e deciso, l’altro nervoso, sempre teso, timido, un po’ paranoico, ipersensibile. Cognetti racconta che Marinelli ha passato tre mesi sulle Alpi con lui a fare l’orto e la legna per entrare nel film. Borghi si è fatto crescere la barba, ha cambiato accento, si è ingobbito. Si inseguono, si abbandonano, si ritrovano, si rincorrono, si allontanano. Si parlano senza dirsi niente e raccontandosi tutto. Si guardano poco, di sguincio, poi affondano gli occhi l’uno nel volto dell’altro e non si sganciano più. «Qualcos’altro non gli era piaciuto, ma non mi disse che cos’era e io non glielo chiesi. Non glielo chiesi [...] E lui nemmeno [...] e io non gli risposi», dice Pietro, dopo aver ritrovato Bruno d’adolescente. In tutto il non detto che c’è tra gli uomini prende vita la loro storia.
Si può pensare che sia quindi una storia di maschi di un tempo come non ne esistono più, solitari e malinconici, di una gentilezza ruvida che gli fa nascondere il cuore sotto giacconi e camicie di felpa, eppure le donne ci sono. Dure come la roccia di montagna, lavoratrici indefesse. Hanno fisici asciutti e gli occhi di Elena Lietti (madre di Pietro, contraltare dell’aspro Giovanni, il padre, interpretato da Filippo Timi) ed Elisabetta Mazzullo (Lara, compagna di Bruno). Prendono i loro gesti premurosi e secchi. Il loro sguardo, tutto femminile, contiene la vera grazia e il segreto de Le otto montagne: una storia di uomini osservati sempre, anche in assenza, dalle donne che li amano – si pensi che è il primo film della coppia van Groeningen-Vandermeersch (prima di questo: Alabama Monroe, Beautiful boy) dove Vandermeersch collabora attivamente alla regia. Gli uomini si muovono nello spazio ristretto dei monti, stanno lì, fermi come sassi nel silenzio della valle – Bruno chiama Pietro “Berio”, come chiamano il sasso in Valle d’Aosta. Ritrovano la loro postura nella fatica del sentiero, accelerano il passo, rompono il fiato, salgono su, e ancora più su, senza bisogno di tornare a valle. Le donne hanno il coraggio di ritornare in città, di scendere giù al bisogno, di riordinare le spese, i conti, la storia. Sono custodi silenziose, le uniche capaci di spostare il baricentro degli uomini protagonisti che per loro partono, viaggiano, inciampano, franano, si innamorano, crescono.
È un vecchio nepalese a custodire la leggenda delle otto montagne. Dice che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru? In una scena tagliata dal montaggio finale Bruno e Pietro stanno fuori dall’alpeggio, da soli, di sera. Bruno racconta a Pietro di essere andato una volta a Torino, è sceso giù, si è preso una birra, ma c’era troppa gente, non faceva per lui. E poi sempre Bruno dice di essere andato una volta anche a vedere com’era il mare, e gli era sembrato un grande lago. Pietro è quello che va e viene, lui quello che resta. Senza dover più scendere a valle.
Amicizia d'alta quota,
recensione di Nicolò Bellon
RV-05
10.01.2023
La montagna ha un suo canto, un suo fiato, un suo passo. Soprattutto la montagna ha una sua geometria, che i più penseranno sia verticale ma si sbagliano: la montagna è obliqua. Perché sghembi sono i suoi pendii. Lo sanno gli alpinisti che i monti li scalano, e un tempo li riprendevano in filmini in 16mm, formato 4:3, una cornice stretta che ben restituisce il senso di pressione continua che si prova tra i sentieri di montagna, prima di arrivare in cresta. Formato recuperato da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch per l’adattamento de Le otto montagne, romanzo con cui Paolo Cognetti ha vinto il Premio Strega 2017 (edito da Einaudi), ora ultima fatica della coppia belga, affiancata dai golden boys, tutti italiani, Alessandro Borghi e Luca Marinelli. La storia d’amicizia, piccola e grande, tra Pietro/Marinelli, il ragazzo di città che alla montagna torna, e Bruno/Borghi, il montanaro.
Ne Le otto montagne (Premio della giuria al Festival di Cannes 2022) la macchina da presa si muove poco, per lo più in brevi carrellate a seguire i protagonisti su per i sentieri, fino alla cima dei monti. Sa che non servono acrobazie manieristiche per restituire forza cinetica a luoghi che salgono e scendono da sé, e fremono, scrosciano, rullano, scorrono. Così la macchina sta accanto agli uomini, ai loro corpi, si avvicina a catturare il segreto di uno sguardo, di un ghigno trattenuto, e poi lascia loro spazio, li riprende in campi medi, inquadrature fisse, immersi in quella natura che in questa storia prende sempre un nome specifico: “è il bosco, il pascolo, il torrente, la roccia, cose che puoi indicare con il dito”, dice Bruno/Borghi. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo si dà perché non serve a niente.
È un film di piccole cose, Le otto montagne, fatto di biscotti e latte cagliato, di stalle e di fieno, di trote e libri d’avventura consumati dal tempo, e zaini, scarponi. È fatto del ghiaccio che conserva le storie degli inverni passati e in primavera diventa acqua, scende a valle, si fa lago. Prima di ogni cosa, è una storia di amicizia tra maschi. Pietro è l’uomo di città che smania, si agita tra il tempo della leggerezza e quello della gravità, è l’acqua dei torrenti che guada con l’amico, la brezza d’alta quota. Bruno è il montanaro, “l’omo servadzo”, bestia, uomo, albero, bosco che nella valle ha messo radici. Marinelli e Borghi sono in stato di grazia. L’uno muscolare, esuberante, dolce e deciso, l’altro nervoso, sempre teso, timido, un po’ paranoico, ipersensibile. Cognetti racconta che Marinelli ha passato tre mesi sulle Alpi con lui a fare l’orto e la legna per entrare nel film. Borghi si è fatto crescere la barba, ha cambiato accento, si è ingobbito. Si inseguono, si abbandonano, si ritrovano, si rincorrono, si allontanano. Si parlano senza dirsi niente e raccontandosi tutto. Si guardano poco, di sguincio, poi affondano gli occhi l’uno nel volto dell’altro e non si sganciano più. «Qualcos’altro non gli era piaciuto, ma non mi disse che cos’era e io non glielo chiesi. Non glielo chiesi [...] E lui nemmeno [...] e io non gli risposi», dice Pietro, dopo aver ritrovato Bruno d’adolescente. In tutto il non detto che c’è tra gli uomini prende vita la loro storia.
Si può pensare che sia quindi una storia di maschi di un tempo come non ne esistono più, solitari e malinconici, di una gentilezza ruvida che gli fa nascondere il cuore sotto giacconi e camicie di felpa, eppure le donne ci sono. Dure come la roccia di montagna, lavoratrici indefesse. Hanno fisici asciutti e gli occhi di Elena Lietti (madre di Pietro, contraltare dell’aspro Giovanni, il padre, interpretato da Filippo Timi) ed Elisabetta Mazzullo (Lara, compagna di Bruno). Prendono i loro gesti premurosi e secchi. Il loro sguardo, tutto femminile, contiene la vera grazia e il segreto de Le otto montagne: una storia di uomini osservati sempre, anche in assenza, dalle donne che li amano – si pensi che è il primo film della coppia van Groeningen-Vandermeersch (prima di questo: Alabama Monroe, Beautiful boy) dove Vandermeersch collabora attivamente alla regia. Gli uomini si muovono nello spazio ristretto dei monti, stanno lì, fermi come sassi nel silenzio della valle – Bruno chiama Pietro “Berio”, come chiamano il sasso in Valle d’Aosta. Ritrovano la loro postura nella fatica del sentiero, accelerano il passo, rompono il fiato, salgono su, e ancora più su, senza bisogno di tornare a valle. Le donne hanno il coraggio di ritornare in città, di scendere giù al bisogno, di riordinare le spese, i conti, la storia. Sono custodi silenziose, le uniche capaci di spostare il baricentro degli uomini protagonisti che per loro partono, viaggiano, inciampano, franano, si innamorano, crescono.
È un vecchio nepalese a custodire la leggenda delle otto montagne. Dice che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru? In una scena tagliata dal montaggio finale Bruno e Pietro stanno fuori dall’alpeggio, da soli, di sera. Bruno racconta a Pietro di essere andato una volta a Torino, è sceso giù, si è preso una birra, ma c’era troppa gente, non faceva per lui. E poi sempre Bruno dice di essere andato una volta anche a vedere com’era il mare, e gli era sembrato un grande lago. Pietro è quello che va e viene, lui quello che resta. Senza dover più scendere a valle.