Sorvegliare e punire,
recensione di Federico Mattioni
RV-51
01.03.2024
C’è un confine sottile che a volte si rende necessario superare per andare incontro alla verità, in quanto solamente l’onestà paga. È in casi come quello di una serie di furti avvenuti in una classe media berlinese che le possibilità della tecnologia tornano utili ai fini della scoperta della verità. Esattamente quello che decide di fare l’insegnante di matematica ed educazione fisica Carla Nowak, lasciando la webcam del proprio computer accesa nella sala professori con lo scopo di riuscire a catturare il fatidico momento e scoprire il responsabile. Quel confine anzidetto è rappresentato però dalla collisione tra spie e spiati. Riprendere di nascosto un’intera classe, composta oltretutto da minorenni, è un illecito. Vale la pena farlo se tutti sanno ma nessuno parla o ammette? Illecito contro illecito saltano in aria logicità e supposizioni. Non c’è dibattito che tenga. Ciascuno ha le proprie ragioni, le quali nascondono sempre delle insidie.
L’operato di Carla, spinto dal nobile scopo di rintracciare il colpevole, diventa oggetto di diffidenza sia da parte del corpo insegnanti che di quegli stessi studenti che ha tentato vanamente di proteggere. La vittima diviene capro espiatorio all’interno di una rigidità di vedute, figlia di politiche pregiudiziali contro la quale non c’è ideologia comportamentale che possa resistere. Carla Nowak è una donna al centro di una tensione tra opposte fazioni, nelle quali si scontrano generazioni agli antipodi e sguardi interculturali dalle divergenti vedute. Un microcosmo delle società europee, figlie di una globalizzazione che tutto incorpora, erodendo le fin troppo definite identità religiose e culturali senza venire a un punto d’incontro. Nessuno pare avere l’obiettività di sottoporre ad accorta analisi le azioni dell’insegnante, dettate da tutte le buone intenzioni possibili, nonostante l’ovvietà dell’urgenza di allontanare chi mette le mani nelle giacche altrui.
Il film del tedesco di origini turche Ilker Çatak inquadra questa problematica, tentando di esaminare le idiosincrasie di un sistema nel quale il confine tra ragione e torto è sempre più labile e contraddittorio. L’ambiente scolastico viene descritto con una perizia sondatrice di volti scomodi e atteggiamenti poco accomodanti. I tempi sono realisticamente dosati a ritmo di montaggio, al totale servizio delle interpretazioni di squadra. Basti osservare la protagonista, capace di muoversi sfumando da uno stato d’animo all’altro con convinzione umorale, temporeggiata da tempi ben calibrati. L’attrice Leonie Benesch (già vista ne Il Nastro Bianco di Haneke) convince appieno e dimostra di saper padroneggiare quel crescente e palpabile disagio che si percepisce all’interno del contesto scolastico. Complice la colonna sonora poi, il film acquisisce le caratteristiche del thriller sociale al quale non sfugge nulla riguardo tutto ciò che può tornare utile a una disamina comportamentale.
Uno sguardo obiettivo, frontale e spietato che il regista e sceneggiatore (scrive in coppia con Johannes Duncker) accoglie privilegiando gli scontri tra gli interpreti, esaminati da una cinepresa attenta a ogni esacerbata sollecitazione nervosa, e costruendo una forma di racconto davvero significativa. La sala professori, uno dei film più verosimili e meglio costruiti fra tutti quelli che hanno come centro nevralgico l’ambiente scolastico, ci dimostra che il cinema è sì un mezzo soggettivo, ma che può inquadrare il reale con una tale obiettività da incastonarsi perfettamente in un genere (il thriller), senza bisogno di dover utilizzare i trucchetti tipici di quello stesso genere (come a esempio il disattendere costante delle traiettorie tipiche del giallo). La suspense invece ne sorregge imperituramente le fondamenta, in maniera lucida e senza edulcorazioni.
Nel titolo originale, in maniera più appropriata, si evidenzia come si tratti del salotto degli insegnanti piuttosto che della sala, quasi a voler dimostrare quanto nel salotto di discussione del corpo insegnanti il dibattito non tiene, non sta in piedi. Non si trova mai un reale punto d’incontro e per l’appunto, si finisce per fare “salotto”. Resta il mutismo come via d’uscita, perché ciascuno ha le proprie ragioni. Al massimo si resta incollati alla propria sedia, che vale tanto quanto una poltrona.
Sorvegliare e punire,
recensione di Federico Mattioni
RV-51
01.03.2024
C’è un confine sottile che a volte si rende necessario superare per andare incontro alla verità, in quanto solamente l’onestà paga. È in casi come quello di una serie di furti avvenuti in una classe media berlinese che le possibilità della tecnologia tornano utili ai fini della scoperta della verità. Esattamente quello che decide di fare l’insegnante di matematica ed educazione fisica Carla Nowak, lasciando la webcam del proprio computer accesa nella sala professori con lo scopo di riuscire a catturare il fatidico momento e scoprire il responsabile. Quel confine anzidetto è rappresentato però dalla collisione tra spie e spiati. Riprendere di nascosto un’intera classe, composta oltretutto da minorenni, è un illecito. Vale la pena farlo se tutti sanno ma nessuno parla o ammette? Illecito contro illecito saltano in aria logicità e supposizioni. Non c’è dibattito che tenga. Ciascuno ha le proprie ragioni, le quali nascondono sempre delle insidie.
L’operato di Carla, spinto dal nobile scopo di rintracciare il colpevole, diventa oggetto di diffidenza sia da parte del corpo insegnanti che di quegli stessi studenti che ha tentato vanamente di proteggere. La vittima diviene capro espiatorio all’interno di una rigidità di vedute, figlia di politiche pregiudiziali contro la quale non c’è ideologia comportamentale che possa resistere. Carla Nowak è una donna al centro di una tensione tra opposte fazioni, nelle quali si scontrano generazioni agli antipodi e sguardi interculturali dalle divergenti vedute. Un microcosmo delle società europee, figlie di una globalizzazione che tutto incorpora, erodendo le fin troppo definite identità religiose e culturali senza venire a un punto d’incontro. Nessuno pare avere l’obiettività di sottoporre ad accorta analisi le azioni dell’insegnante, dettate da tutte le buone intenzioni possibili, nonostante l’ovvietà dell’urgenza di allontanare chi mette le mani nelle giacche altrui.
Il film del tedesco di origini turche Ilker Çatak inquadra questa problematica, tentando di esaminare le idiosincrasie di un sistema nel quale il confine tra ragione e torto è sempre più labile e contraddittorio. L’ambiente scolastico viene descritto con una perizia sondatrice di volti scomodi e atteggiamenti poco accomodanti. I tempi sono realisticamente dosati a ritmo di montaggio, al totale servizio delle interpretazioni di squadra. Basti osservare la protagonista, capace di muoversi sfumando da uno stato d’animo all’altro con convinzione umorale, temporeggiata da tempi ben calibrati. L’attrice Leonie Benesch (già vista ne Il Nastro Bianco di Haneke) convince appieno e dimostra di saper padroneggiare quel crescente e palpabile disagio che si percepisce all’interno del contesto scolastico. Complice la colonna sonora poi, il film acquisisce le caratteristiche del thriller sociale al quale non sfugge nulla riguardo tutto ciò che può tornare utile a una disamina comportamentale.
Uno sguardo obiettivo, frontale e spietato che il regista e sceneggiatore (scrive in coppia con Johannes Duncker) accoglie privilegiando gli scontri tra gli interpreti, esaminati da una cinepresa attenta a ogni esacerbata sollecitazione nervosa, e costruendo una forma di racconto davvero significativa. La sala professori, uno dei film più verosimili e meglio costruiti fra tutti quelli che hanno come centro nevralgico l’ambiente scolastico, ci dimostra che il cinema è sì un mezzo soggettivo, ma che può inquadrare il reale con una tale obiettività da incastonarsi perfettamente in un genere (il thriller), senza bisogno di dover utilizzare i trucchetti tipici di quello stesso genere (come a esempio il disattendere costante delle traiettorie tipiche del giallo). La suspense invece ne sorregge imperituramente le fondamenta, in maniera lucida e senza edulcorazioni.
Nel titolo originale, in maniera più appropriata, si evidenzia come si tratti del salotto degli insegnanti piuttosto che della sala, quasi a voler dimostrare quanto nel salotto di discussione del corpo insegnanti il dibattito non tiene, non sta in piedi. Non si trova mai un reale punto d’incontro e per l’appunto, si finisce per fare “salotto”. Resta il mutismo come via d’uscita, perché ciascuno ha le proprie ragioni. Al massimo si resta incollati alla propria sedia, che vale tanto quanto una poltrona.