Una minaccia che attraversa la Storia,
recensione di Matteo Bonfiglioli
RV-28
11.09.2023
Nella prima sequenza di La Bête, la protagonista Gabrielle interpreta una scena. Deve provare paura, intimorirsi davanti a un pericolo invisibile, da aggiungere in post-produzione, perché intorno a lei c’è solo un green screen. È un corpo reale solo, immerso nella potenzialità dell’immagine digitale, essere vivente nel mondo delle riproduzioni senza referente. Quelle che si possono creare ad hoc, senza puntare l’obiettivo verso nulla.
In La Bête, il mondo è un’immagine senza corpo, quindi un’immagine squisitamente narcisistica, appagata di se stessa, dimentica di ciò che la emana; un’immagine introflessa, in cui piacere e dolore sono continuamente rimandati e sublimati nell’attesa eccitante o terribile di un presagio. È un dramma distopico e in costume, un'epopea teorica, struggente, cervellotica, romantica. Forse, il film più complesso del concorso di Venezia 80. Per il suo linguaggio continuamente ostacolato, per come sa cogliere le bestialità, i sacri motori del tempo, ma anche per l’anti-linearità con cui le tre vite della protagonista (1910, 2014, 2044) vengono intessute, messe in abisso, eluse, rievocate, in un movimento a spirale che appunto, rifiuta di determinare un’origine evidente.
Ne emerge un cinema che si muove col pensiero del personaggio, immerso in uno stato di trance che attraversa la Storia, le esistenze, nella distopica occasione di cancellare i traumi delle vite passate dal proprio DNA, quindi i sentimenti. Un sogno lucido che contagia la forma e che, attraverso epoche e generi, racconta di un corpo dimenticato, privato di emozioni, sentimenti e quindi di identità.
Léa Seydoux è ipnotica, perturbante e angosciata, perfetta nel restituire il sentimento della tragedia di un corpo minacciato da sé, dalle intrusioni dell’altro e del mondo. Ma anche di pop up, virus e minacce web che, come in Coma (2022) attorniano la protagonista di schermi che la inquietano e rapiscono, trasformando la visione in agonia, la casa in display, l’individuo in bambola inerme. Perché come spesso accade nei film di Bonello, il corpo diventa materia inanimata, replica delle immagini che abita.
La paura di una minaccia attraversa la Storia, contagia i geni, imbalsama il presente, ma è anche l’unico indizio d’esistenza, l’unica prova che la protagonista ha di vivere. Immaginare la fine, per sentirsi legati alla vita, in una società che ha perso il legame col suo dato veritiero, fisico, originario e originale, in nome di una placidità liofilizzata. Questa è la bestia del tempo. Il senso della tragedia, il desiderio che vince sul sesso, la resa dell’amore e dell’emozione. E La Bête è un meló- horror-sci-fi che sa che nessun genere può raccontarlo, una grande ricerca sulla radice genetica dell’immagine, continuamente intaccata, messa in discussione con jump cut, ritorni, errori, sincopi e sgambetti alla linearità. Per questo, la visione del film è disorientante e devota.
Perché La Bête fa parte di un cinema sontuoso e profondo che sfarina il suo linguaggio, si disgrega nel tempo che vive, lo abita e lo ingloba. Forse il film più complesso quest’anno a Venezia, ma anche il più bello.
Una minaccia che attraversa la Storia,
recensione di Matteo Bonfiglioli
RV-28
11.09.2023
Nella prima sequenza di La Bête, la protagonista Gabrielle interpreta una scena. Deve provare paura, intimorirsi davanti a un pericolo invisibile, da aggiungere in post-produzione, perché intorno a lei c’è solo un green screen. È un corpo reale solo, immerso nella potenzialità dell’immagine digitale, essere vivente nel mondo delle riproduzioni senza referente. Quelle che si possono creare ad hoc, senza puntare l’obiettivo verso nulla.
In La Bête, il mondo è un’immagine senza corpo, quindi un’immagine squisitamente narcisistica, appagata di se stessa, dimentica di ciò che la emana; un’immagine introflessa, in cui piacere e dolore sono continuamente rimandati e sublimati nell’attesa eccitante o terribile di un presagio. È un dramma distopico e in costume, un'epopea teorica, struggente, cervellotica, romantica. Forse, il film più complesso del concorso di Venezia 80. Per il suo linguaggio continuamente ostacolato, per come sa cogliere le bestialità, i sacri motori del tempo, ma anche per l’anti-linearità con cui le tre vite della protagonista (1910, 2014, 2044) vengono intessute, messe in abisso, eluse, rievocate, in un movimento a spirale che appunto, rifiuta di determinare un’origine evidente.
Ne emerge un cinema che si muove col pensiero del personaggio, immerso in uno stato di trance che attraversa la Storia, le esistenze, nella distopica occasione di cancellare i traumi delle vite passate dal proprio DNA, quindi i sentimenti. Un sogno lucido che contagia la forma e che, attraverso epoche e generi, racconta di un corpo dimenticato, privato di emozioni, sentimenti e quindi di identità.
Léa Seydoux è ipnotica, perturbante e angosciata, perfetta nel restituire il sentimento della tragedia di un corpo minacciato da sé, dalle intrusioni dell’altro e del mondo. Ma anche di pop up, virus e minacce web che, come in Coma (2022) attorniano la protagonista di schermi che la inquietano e rapiscono, trasformando la visione in agonia, la casa in display, l’individuo in bambola inerme. Perché come spesso accade nei film di Bonello, il corpo diventa materia inanimata, replica delle immagini che abita.
La paura di una minaccia attraversa la Storia, contagia i geni, imbalsama il presente, ma è anche l’unico indizio d’esistenza, l’unica prova che la protagonista ha di vivere. Immaginare la fine, per sentirsi legati alla vita, in una società che ha perso il legame col suo dato veritiero, fisico, originario e originale, in nome di una placidità liofilizzata. Questa è la bestia del tempo. Il senso della tragedia, il desiderio che vince sul sesso, la resa dell’amore e dell’emozione. E La Bête è un meló- horror-sci-fi che sa che nessun genere può raccontarlo, una grande ricerca sulla radice genetica dell’immagine, continuamente intaccata, messa in discussione con jump cut, ritorni, errori, sincopi e sgambetti alla linearità. Per questo, la visione del film è disorientante e devota.
Perché La Bête fa parte di un cinema sontuoso e profondo che sfarina il suo linguaggio, si disgrega nel tempo che vive, lo abita e lo ingloba. Forse il film più complesso quest’anno a Venezia, ma anche il più bello.