La marcia funebre della Storia,
recensione di Pier Giovanni Adamo
RV-36
27.10.2023
Non sono molti i titoli al plurale nella filmografia di Martin Scorsese. C’è Mean Streets, certo, ma i Killers di questa sua prova estrema riconducono più che altro ai Goodfellas e alle Gangs of New York, forse perché, pur nella radicale estraneità stilistica rispetto ai suddetti, l’ultimo film di Scorsese riempie quello spazio rimasto finora vuoto tra i due nel maestoso polittico sulla storia americana che impegna il regista newyorchese da decenni (e la cui predella è occupata dagli insuperabili documentari musicali). A metà tra la rocciosa iniziazione urbana di metà Ottocento e le infiltrazioni criminali di secondo Novecento (cui comunque andrebbe frapposto lo “studio di costumi” alla Henry James dell’Età dell’innocenza) mancava infatti una tavola centrale che raccontasse nella maniera tonica e impressiva di Scorsese il vero atto fondativo dell’identità statunitense, ossia il massacro perpetrato ai danni dei nativi e la conseguente estirpazione della loro civiltà dal territorio nordamericano.
Adattando insieme a Eric Roth l’omonimo libro del giornalista David Grann, Scorsese ha scelto un episodio risalente all’inizio degli anni Venti in Oklahoma: il sistematico tentativo di annientamento degli Osage, una tribù diventata improvvisamente ricchissima grazie ai giacimenti di petrolio scoperti nella loro riserva, di cui i bianchi volevano appropriarsi con ogni mezzo. A organizzare scrupolosamente l’eliminazione degli Osage, di cui si finge protettore e amico, è il latifondista William Hale, mentre il nipote Ernest Burkhart, imbelle reduce della prima guerra mondiale, si dibatte tra la fedeltà allo zio, Kronos di frontiera, e l’amore tossico per la moglie Mollie, di cui dovrebbe curare il diabete mentre aspetta di ereditarne le concessioni.
Scandito dalla terrificante regolarità delle morti tra i nativi e dall’opprimente paternalismo dei bianchi che progressivamente si stringono attorno alla famiglia di Mollie, decimandola, Killers of the Flower Moon ha il ritmo di una marcia funebre. Tanto che non assomiglia granché allo Scorsese sfrenato che in molti si aspettavano, considerato che i famigerati “fatti realmente accaduti” nella contea di Osage gli hanno fornito alcuni ingredienti ricorrenti del suo cinema: la colpa come premessa dell’esistenza, la violenza senza espiazione, il sacrificio, la menzogna elevata a metodo, i rapporti di ambigua dipendenza tra uomo e donna – e già i primi dispacci da Cannes, dove il film era stato presentato fuori concorso, avevano segnalato questa sorta di anomalia apparentemente poco selvaggia. In effetti il film, affidato per lo più alla disciplina del campo-controcampo e dei piani americani, nella prima parte potrebbe sembrare un western puramente dialogico, in cui la concitazione tipica del genere, pur condensata in alcuni momenti (letteralmente) esplosivi, è costantemente frustrata dall’andamento allentato della narrazione; nella seconda, in cui si accenna all’importanza del caso per il consolidamento nazionale dell’FBI, parrebbe una ricostruzione giudiziaria volta a far emergere il cinismo connaturato a qualunque ipotesi di risarcimento istituzionale di un eccidio che è solo una tappa nell’implacabile e brutale colonizzazione da cui è nata la stessa democrazia statunitense.
Ma gli effetti della luce che sembra respirare attraverso le finestre, o intossicarsi nel caso della scena dell’incendio doloso nei campi – indizi della ricerca di Scorsese sulla trascendenza del girato, e della sua fede nelle immagini – e poi la solita cura maniacale nella ricostruzione degli ambienti d’epoca, a cominciare dagli oggetti quotidiani (le onnipresenti bottiglie, le coperte dei nativi e, soprattutto, la siringa per le iniezioni di insulina) che emanano emozione ogni volta che vengono inquadrati, suggeriscono che durante la realizzazione Scorsese deve aver avuto in mente i film storici di Rossellini degli anni Sessanta, e in particolare La presa del potere da parte di Luigi XIV. Non sarà un caso che Hart si faccia chiamare da tutti “King”. Come lì l’invenzione dello Stato moderno si manifesta nelle estenuanti contrattazioni e nei rituali della corte di Versailles, così nella paura indigena di Killers of the Flower Moon e nella sua disseminazione di eventi e personaggi si manifesta il fondamento della storia americana, che non si è consumata in singoli avvenimenti decisivi ma è stata “estratta” con paziente accanimento dalle comunità, dalla terra, dagli individui. D’altra parte lo stesso Scorsese in passato ha indicato proprio quel Rossellini, dove «il potere assoluto del re viene mostrato attraverso il modo in cui consuma i pasti, e non necessariamente quando si occupa degli affari del paese», come il film grazie al quale ha capito che «la Storia è questo», cioè che «è fatta di persone». Aggiungendo di essere «sempre stato affascinato dal modo in cui la Storia veniva registrata».
Chi l’ha visto sa che il film comincia come un finto cinegiornale sulla Nazione Osage, con tanto di didascalie da muto, e termina, durante una trasmissione radiofonica del genere True Crime registrata dal vivo in un teatro, con un cameo che ha il sapore di un congedo impossibile: dalla sanguinosa storia degli Stati Uniti e dalle colpe dei bianchi, ma anche dal cinema, massima passione di uomo e di un grande artista in nome del quale un giorno si potrà forse dire che il secolo è stato “scorsesiano”.
La marcia funebre della Storia,
recensione di Pier Giovanni Adamo
RV-36
27.10.2023
Non sono molti i titoli al plurale nella filmografia di Martin Scorsese. C’è Mean Streets, certo, ma i Killers di questa sua prova estrema riconducono più che altro ai Goodfellas e alle Gangs of New York, forse perché, pur nella radicale estraneità stilistica rispetto ai suddetti, l’ultimo film di Scorsese riempie quello spazio rimasto finora vuoto tra i due nel maestoso polittico sulla storia americana che impegna il regista newyorchese da decenni (e la cui predella è occupata dagli insuperabili documentari musicali). A metà tra la rocciosa iniziazione urbana di metà Ottocento e le infiltrazioni criminali di secondo Novecento (cui comunque andrebbe frapposto lo “studio di costumi” alla Henry James dell’Età dell’innocenza) mancava infatti una tavola centrale che raccontasse nella maniera tonica e impressiva di Scorsese il vero atto fondativo dell’identità statunitense, ossia il massacro perpetrato ai danni dei nativi e la conseguente estirpazione della loro civiltà dal territorio nordamericano.
Adattando insieme a Eric Roth l’omonimo libro del giornalista David Grann, Scorsese ha scelto un episodio risalente all’inizio degli anni Venti in Oklahoma: il sistematico tentativo di annientamento degli Osage, una tribù diventata improvvisamente ricchissima grazie ai giacimenti di petrolio scoperti nella loro riserva, di cui i bianchi volevano appropriarsi con ogni mezzo. A organizzare scrupolosamente l’eliminazione degli Osage, di cui si finge protettore e amico, è il latifondista William Hale, mentre il nipote Ernest Burkhart, imbelle reduce della prima guerra mondiale, si dibatte tra la fedeltà allo zio, Kronos di frontiera, e l’amore tossico per la moglie Mollie, di cui dovrebbe curare il diabete mentre aspetta di ereditarne le concessioni.
Scandito dalla terrificante regolarità delle morti tra i nativi e dall’opprimente paternalismo dei bianchi che progressivamente si stringono attorno alla famiglia di Mollie, decimandola, Killers of the Flower Moon ha il ritmo di una marcia funebre. Tanto che non assomiglia granché allo Scorsese sfrenato che in molti si aspettavano, considerato che i famigerati “fatti realmente accaduti” nella contea di Osage gli hanno fornito alcuni ingredienti ricorrenti del suo cinema: la colpa come premessa dell’esistenza, la violenza senza espiazione, il sacrificio, la menzogna elevata a metodo, i rapporti di ambigua dipendenza tra uomo e donna – e già i primi dispacci da Cannes, dove il film era stato presentato fuori concorso, avevano segnalato questa sorta di anomalia apparentemente poco selvaggia. In effetti il film, affidato per lo più alla disciplina del campo-controcampo e dei piani americani, nella prima parte potrebbe sembrare un western puramente dialogico, in cui la concitazione tipica del genere, pur condensata in alcuni momenti (letteralmente) esplosivi, è costantemente frustrata dall’andamento allentato della narrazione; nella seconda, in cui si accenna all’importanza del caso per il consolidamento nazionale dell’FBI, parrebbe una ricostruzione giudiziaria volta a far emergere il cinismo connaturato a qualunque ipotesi di risarcimento istituzionale di un eccidio che è solo una tappa nell’implacabile e brutale colonizzazione da cui è nata la stessa democrazia statunitense.
Ma gli effetti della luce che sembra respirare attraverso le finestre, o intossicarsi nel caso della scena dell’incendio doloso nei campi – indizi della ricerca di Scorsese sulla trascendenza del girato, e della sua fede nelle immagini – e poi la solita cura maniacale nella ricostruzione degli ambienti d’epoca, a cominciare dagli oggetti quotidiani (le onnipresenti bottiglie, le coperte dei nativi e, soprattutto, la siringa per le iniezioni di insulina) che emanano emozione ogni volta che vengono inquadrati, suggeriscono che durante la realizzazione Scorsese deve aver avuto in mente i film storici di Rossellini degli anni Sessanta, e in particolare La presa del potere da parte di Luigi XIV. Non sarà un caso che Hart si faccia chiamare da tutti “King”. Come lì l’invenzione dello Stato moderno si manifesta nelle estenuanti contrattazioni e nei rituali della corte di Versailles, così nella paura indigena di Killers of the Flower Moon e nella sua disseminazione di eventi e personaggi si manifesta il fondamento della storia americana, che non si è consumata in singoli avvenimenti decisivi ma è stata “estratta” con paziente accanimento dalle comunità, dalla terra, dagli individui. D’altra parte lo stesso Scorsese in passato ha indicato proprio quel Rossellini, dove «il potere assoluto del re viene mostrato attraverso il modo in cui consuma i pasti, e non necessariamente quando si occupa degli affari del paese», come il film grazie al quale ha capito che «la Storia è questo», cioè che «è fatta di persone». Aggiungendo di essere «sempre stato affascinato dal modo in cui la Storia veniva registrata».
Chi l’ha visto sa che il film comincia come un finto cinegiornale sulla Nazione Osage, con tanto di didascalie da muto, e termina, durante una trasmissione radiofonica del genere True Crime registrata dal vivo in un teatro, con un cameo che ha il sapore di un congedo impossibile: dalla sanguinosa storia degli Stati Uniti e dalle colpe dei bianchi, ma anche dal cinema, massima passione di uomo e di un grande artista in nome del quale un giorno si potrà forse dire che il secolo è stato “scorsesiano”.