Icone infrante
recensione di Mario Vannoni
RV-68
11.10.2024
È difficile scrivere di Joker: Folie à Deux, pellicola che sin dalla sua presentazione al Festival del cinema di Venezia e ancor prima, quando annunciarono che sarebbe stata un musical con co-protagonista Lady Gaga nei panni di Harley Quinn, aveva già fatto parlare tantissimo di sé. Musical, appunto, film carcerario, courtroom drama, ma anche e soprattutto attesissimo sequel di Joker (2019): un’opera composta di tante anime per una produzione con cifre da blockbuster.
A Venezia il film non è piaciuto - è stato bollato nella stragrande maggioranza dei casi come una stanca riproposizione dei temi del suo predecessore - e anche ora, ad una settimana dal suo debutto nelle sale, le reazioni di pubblico e critica continuano a non essere esattamente entusiaste. In effetti, a una prima lettura di superficie, Joker: Folie à Deux prosegue il discorso di Joker - quello di un individuo spezzato da una società che si dimostra incapace di comprenderne la complessità e le problematiche - in maniera ancora più didascalica. Basta la (splendida) sequenza d’apertura animata per accorgersene, intitolata, a scanso di ogni equivoco, “Io e la mia ombra”. Una delle principali critiche mosse al film ne rimarca l’inutilità, una coda non necessaria a un campione di incassi e fenomeno groundbreaking, la cui esistenza deriva unicamente dalla volontà produttiva di sfruttarne il successo.
L’inizio di Folie à Deux scioglie ogni dubbio in merito alla conclusione del primo film: Arthur Fleck è davvero rinchiuso nel penitenziario psichiatrico di Arkham e perciò reale colpevole dei molteplici omicidi compiuti, non solo nella sua immaginazione. Il rapporto tra realtà e fantasia, già centrale in Joker, viene qui approfondito sino a renderlo l’unico pilastro sul quale sostenere la narrazione. Il filtro del musical agisce in questo senso, aprendo scenari onirico-surreali il cui statuto di realtà dovrebbe essere dubbio o quanto meno interpretabile, sulla scia di quanto fatto da Lars von Trier in Dancer in the Dark (2000). Ma se in quest’ultimo la fattualità degli avvenimenti non è in discussione (il musical opera degli squarci nella narrazione, degli spazi di evasione che la protagonista Selma può popolare con la propria fantasia), in Folie à Deux la decidibilità sulla veridicità degli eventi è il veicolo che muove l’intero impianto discorsivo del lungometraggio.
Phillips gioca con la percezione di Arthur, che si specchia in quella degli spettatori, per poi operare scelte che fugano qualsiasi incertezza: gli intermezzi musicali assomigliano più alla sequenza finale di La La Land (2016) che a (non)luoghi critici sull’attendibilità narrativa delle immagini; come in Joker, le maggiori difficoltà si riscontrano in una sceneggiatura che ha alla base un’idea forte e solida ma sviluppata con scarsa coerenza interna e continue indecisioni che ne smorzano la profondità filosofica. È indecisa (e piatta) anche la regia, che regala una prima mezzora di grande cinema per poi perdere idee e mordente con il trascorrere dei minuti, dilagando in siparietti musical girati con scarso senso scenico e informati da una logica minimale che, anziché esaltarli, li svilisce.
Questo, se guardiamo alla superficie. Ma Joker: Folie à Deux offre un secondo livello di lettura - teorico, denso, concettuale - che lo rilancia come esatta mimesi del suo stesso fallimento. Nel primo film Todd Phillips (suo malgrado) aveva creato una figura iconica, mitica, separata dall’universo fumettistico e precipitata in un mondo reale seppur allucinato; nel sequel mette in atto un’azione di sabotaggio nei confronti dell’immaginario da lui stesso creato, minandone dalle fondamenta la credibilità: Arthur Fleck non è Joker, non sussiste alcun dualismo o scissione psichica, ma “soltanto” la fatica, la sconfitta di un individuo cui la realtà non risponde più e che perciò si rifugia in una fantasia tanto fallimentare quanto le ambizioni che la nutrono. Il personaggio di Harley Quinn - al netto di un’interpretazione tutt’altro che convincente di Lady Gaga e di una scrittura al limite della funzione narrativa - è cruciale nel definire questo meta-livello interpretativo, frutto di un film che contiene in sé la critica del suo stesso immaginario.
L’obiettivo di Joker era mostrare la deriva psichica di un uomo che l’indifferenza ha trasformato in maschera. Qui quella maschera si è fatta mito (gli avvenimenti del primo film in Folie à Deux diventano materiale per un film televisivo), icona, modello, idea. L’intento di Phillips è dunque quello di smantellare pezzo dopo pezzo quell’idea, riportandola alla sua forma umana - allontanandosi una seconda volta da qualsiasi tentazione cine-fumettistica e ricordando che la presenza del nome del villain DC nel titolo è solo incidentale - e decostruendo le credenze del proprio fandom in un’operazione suicidaria, almeno dal punto di vista commerciale. Il processo che vediamo svolgersi all’interno del film non è volto a giudicare le azioni di Arthur, ma le interpretazioni di Joker.
Folie à Deux è un’opera che riflette sulla società dello spettacolo e che fa critica del fanatismo sino ad auto-sabotarsi: la scena in cui Harleen Quinzel si trucca per assistere alle arringhe finali del processo ad Arthur Fleck è il traslato del fan che va ad assistere alla proiezione di Joker: Folie à Deux, salvo scoprire che Fleck non è Joker. Quando l’idea non coincide più con l’ideale si consuma il tradimento; e allora l’idea va uccisa per prenderne il posto. Ed è questa l’ombra che perseguita Arthur Fleck, quella di un ideale cui non corrisponde ma al quale la società continua a ricondurlo, quella di un’immagine incapace di contenere la persona, quella che lo vuole protagonista di un musical in cui accade ciò che i fan si aspettano da lui, in cui si canta e si balla, mentre lui vorrebbe poter parlare. Un’opera fallimentare sul fallimento: Joker: Folie à Deux è l’anti-Joker.
Icone infrante
recensione di Mario Vannoni
RV-68
11.10.2024
È difficile scrivere di Joker: Folie à Deux, pellicola che sin dalla sua presentazione al Festival del cinema di Venezia e ancor prima, quando annunciarono che sarebbe stata un musical con co-protagonista Lady Gaga nei panni di Harley Quinn, aveva già fatto parlare tantissimo di sé. Musical, appunto, film carcerario, courtroom drama, ma anche e soprattutto attesissimo sequel di Joker (2019): un’opera composta di tante anime per una produzione con cifre da blockbuster.
A Venezia il film non è piaciuto - è stato bollato nella stragrande maggioranza dei casi come una stanca riproposizione dei temi del suo predecessore - e anche ora, ad una settimana dal suo debutto nelle sale, le reazioni di pubblico e critica continuano a non essere esattamente entusiaste. In effetti, a una prima lettura di superficie, Joker: Folie à Deux prosegue il discorso di Joker - quello di un individuo spezzato da una società che si dimostra incapace di comprenderne la complessità e le problematiche - in maniera ancora più didascalica. Basta la (splendida) sequenza d’apertura animata per accorgersene, intitolata, a scanso di ogni equivoco, “Io e la mia ombra”. Una delle principali critiche mosse al film ne rimarca l’inutilità, una coda non necessaria a un campione di incassi e fenomeno groundbreaking, la cui esistenza deriva unicamente dalla volontà produttiva di sfruttarne il successo.
L’inizio di Folie à Deux scioglie ogni dubbio in merito alla conclusione del primo film: Arthur Fleck è davvero rinchiuso nel penitenziario psichiatrico di Arkham e perciò reale colpevole dei molteplici omicidi compiuti, non solo nella sua immaginazione. Il rapporto tra realtà e fantasia, già centrale in Joker, viene qui approfondito sino a renderlo l’unico pilastro sul quale sostenere la narrazione. Il filtro del musical agisce in questo senso, aprendo scenari onirico-surreali il cui statuto di realtà dovrebbe essere dubbio o quanto meno interpretabile, sulla scia di quanto fatto da Lars von Trier in Dancer in the Dark (2000). Ma se in quest’ultimo la fattualità degli avvenimenti non è in discussione (il musical opera degli squarci nella narrazione, degli spazi di evasione che la protagonista Selma può popolare con la propria fantasia), in Folie à Deux la decidibilità sulla veridicità degli eventi è il veicolo che muove l’intero impianto discorsivo del lungometraggio.
Phillips gioca con la percezione di Arthur, che si specchia in quella degli spettatori, per poi operare scelte che fugano qualsiasi incertezza: gli intermezzi musicali assomigliano più alla sequenza finale di La La Land (2016) che a (non)luoghi critici sull’attendibilità narrativa delle immagini; come in Joker, le maggiori difficoltà si riscontrano in una sceneggiatura che ha alla base un’idea forte e solida ma sviluppata con scarsa coerenza interna e continue indecisioni che ne smorzano la profondità filosofica. È indecisa (e piatta) anche la regia, che regala una prima mezzora di grande cinema per poi perdere idee e mordente con il trascorrere dei minuti, dilagando in siparietti musical girati con scarso senso scenico e informati da una logica minimale che, anziché esaltarli, li svilisce.
Questo, se guardiamo alla superficie. Ma Joker: Folie à Deux offre un secondo livello di lettura - teorico, denso, concettuale - che lo rilancia come esatta mimesi del suo stesso fallimento. Nel primo film Todd Phillips (suo malgrado) aveva creato una figura iconica, mitica, separata dall’universo fumettistico e precipitata in un mondo reale seppur allucinato; nel sequel mette in atto un’azione di sabotaggio nei confronti dell’immaginario da lui stesso creato, minandone dalle fondamenta la credibilità: Arthur Fleck non è Joker, non sussiste alcun dualismo o scissione psichica, ma “soltanto” la fatica, la sconfitta di un individuo cui la realtà non risponde più e che perciò si rifugia in una fantasia tanto fallimentare quanto le ambizioni che la nutrono. Il personaggio di Harley Quinn - al netto di un’interpretazione tutt’altro che convincente di Lady Gaga e di una scrittura al limite della funzione narrativa - è cruciale nel definire questo meta-livello interpretativo, frutto di un film che contiene in sé la critica del suo stesso immaginario.
L’obiettivo di Joker era mostrare la deriva psichica di un uomo che l’indifferenza ha trasformato in maschera. Qui quella maschera si è fatta mito (gli avvenimenti del primo film in Folie à Deux diventano materiale per un film televisivo), icona, modello, idea. L’intento di Phillips è dunque quello di smantellare pezzo dopo pezzo quell’idea, riportandola alla sua forma umana - allontanandosi una seconda volta da qualsiasi tentazione cine-fumettistica e ricordando che la presenza del nome del villain DC nel titolo è solo incidentale - e decostruendo le credenze del proprio fandom in un’operazione suicidaria, almeno dal punto di vista commerciale. Il processo che vediamo svolgersi all’interno del film non è volto a giudicare le azioni di Arthur, ma le interpretazioni di Joker.
Folie à Deux è un’opera che riflette sulla società dello spettacolo e che fa critica del fanatismo sino ad auto-sabotarsi: la scena in cui Harleen Quinzel si trucca per assistere alle arringhe finali del processo ad Arthur Fleck è il traslato del fan che va ad assistere alla proiezione di Joker: Folie à Deux, salvo scoprire che Fleck non è Joker. Quando l’idea non coincide più con l’ideale si consuma il tradimento; e allora l’idea va uccisa per prenderne il posto. Ed è questa l’ombra che perseguita Arthur Fleck, quella di un ideale cui non corrisponde ma al quale la società continua a ricondurlo, quella di un’immagine incapace di contenere la persona, quella che lo vuole protagonista di un musical in cui accade ciò che i fan si aspettano da lui, in cui si canta e si balla, mentre lui vorrebbe poter parlare. Un’opera fallimentare sul fallimento: Joker: Folie à Deux è l’anti-Joker.