Nanni Moretti è un rito,
recensione di Matteo Bonfiglioli
RV-15
03.05.2023
Nanni Moretti è un rito e come dice il suo nuovo alter ego Giovanni: “Un rito è un rito, deve essere sempre lo stesso”. Come la visione attenta e devota dello stesso film in tv, Lola di Jacques Demy, che Giovanni segue con addosso la stessa copertina variopinta che Michele Apicella si serrava sul corpo come una sindone, accanto a sua madre, in Sogni d’oro. E come con la coperta, ne Il sol dell’avvenire Moretti è ancora fedele ai suoi princìpi, ai suoi tic, alle sue ossessioni, ma come ogni rito deve fare per restare vivo si rinnova, mettendosi in discussione e riflettendo sul suo rapporto col tempo. In questa prima scena il film lo vede con moglie e figlia, più volte interrotto dalle suonerie dei loro cellulari. Alla fine desiste perché non c’è gusto a vederselo da soli. Infatti, Il sol dell’avvenire parla anche del bisogno fisiologico che abbiamo degli altri per vivere, dell’impossibilità di controllarli in un copione o in una messa in scena predefinita oppure di tenerli a distanza per guardarli e giudicarli meglio come il Michele Apicella di Ecce bombo o di Bianca.
Così, Moretti torna a essere un protagonista-autore in cui l’attore sosta accanto al personaggio, un regista in crisi, incapace di andarsene dall’inquadratura dopo che ha dato l’azione ai suoi attori. Il film torna a essere contenitore dello sguardo saggistico- esistenziale del Moretti cittadino, trovando un compromesso tra le cifre narrative più documentarie (Caro diario, Aprile) e quelle più impostate e “recitate” (Habemus Papam, Mia madre, Tre piani). Alla fine, al centro c’è sempre lui, Moretti, autoriferito ma non più autarchico, che attraverso i suoi alter ego rivendica ancora la fiera appartenenza a una minoranza, riafferma il suo taglio moralista e indipendente ma rivela al sol dell’avvenire uno sguardo nuovo, che, seppur malinconico e severo verso il passato, è assolutorio, danzante e leggero con il presente che viviamo, rendendo il racconto più vulnerabile all’intervento del sogno e dell’incanto sul reale.
Complesso nel suo essere al contempo amaro ed euforico, Il sol dell’avvenire omaggia il cinema di Moretti nella misura in cui lo mette generosamente in discussione. Fa sfilare tutto il suo cinema in parata: gli interpreti, i fantasmi nevrotici che da quasi cinquant'anni abitano il suo immaginario, la riflessione sulla sinistra, l’assenza di una direzione ideologica collettiva, il disprezzo per certi costumi e certo cinema, le canzoni in auto e le commoventi incursioni pop nel racconto a ricordare che tutte quelle certezze perentorie forse, oggi, sono solo parole. Ma soprattutto rimane centrale il Moretti critico e spettatore, la sala cinematografica come occasione per parlare con se tessi e il proprio passato, il cinema come strumento e veicolo di pensiero - dalla riappacificazione con il circo fellinano all’etica della violenza sullo schermo in Krzysztof Kieślowski.
“Per capire come sto, bisogna vedere i miei film” ha detto lo stesso Moretti. E il film attesta la fiducia definitiva nella fisiologica fusione tra cinema e vita, il rapporto di estrema sincerità e trasparenza tra Moretti e il mezzo, il soccombere vicendevole tra esistenza e racconto. In fondo, Il sol dell’avvenire è la storia di una finzione raccontata nel suo farsi, è sia il film che la sua stessa costruzione. Il cinema non basta più a tenere gli altri a distanza e a controllarli, ma anzi si lascia interrompere e contagiare dalla vita stessa. Anche per questo Il sol dell’avvenire è forse il film più dolce di Nanni Moretti, perché riscrive la storia coi “se”, ballando sulle cose rimpiante. E, nel suo riflettere sul tempo che passa, che cambia ritmo, che sfugge al controllo e alle previsioni, Il sol dell’avvenire è sia somma che svolta, sintesi e differenza di una carriera intera, sguardo euforico alla nostalgia, rivoluzione nella citazione. Perché uno nella vita tre o quattro princìpi deve pur averli, e Nanni Moretti è uno di questi.
Nanni Moretti è un rito,
recensione di Matteo Bonfiglioli
RV-15
03.05.2023
Nanni Moretti è un rito e come dice il suo nuovo alter ego Giovanni: “Un rito è un rito, deve essere sempre lo stesso”. Come la visione attenta e devota dello stesso film in tv, Lola di Jacques Demy, che Giovanni segue con addosso la stessa copertina variopinta che Michele Apicella si serrava sul corpo come una sindone, accanto a sua madre, in Sogni d’oro. E come con la coperta, ne Il sol dell’avvenire Moretti è ancora fedele ai suoi princìpi, ai suoi tic, alle sue ossessioni, ma come ogni rito deve fare per restare vivo si rinnova, mettendosi in discussione e riflettendo sul suo rapporto col tempo. In questa prima scena il film lo vede con moglie e figlia, più volte interrotto dalle suonerie dei loro cellulari. Alla fine desiste perché non c’è gusto a vederselo da soli. Infatti, Il sol dell’avvenire parla anche del bisogno fisiologico che abbiamo degli altri per vivere, dell’impossibilità di controllarli in un copione o in una messa in scena predefinita oppure di tenerli a distanza per guardarli e giudicarli meglio come il Michele Apicella di Ecce bombo o di Bianca.
Così, Moretti torna a essere un protagonista-autore in cui l’attore sosta accanto al personaggio, un regista in crisi, incapace di andarsene dall’inquadratura dopo che ha dato l’azione ai suoi attori. Il film torna a essere contenitore dello sguardo saggistico- esistenziale del Moretti cittadino, trovando un compromesso tra le cifre narrative più documentarie (Caro diario, Aprile) e quelle più impostate e “recitate” (Habemus Papam, Mia madre, Tre piani). Alla fine, al centro c’è sempre lui, Moretti, autoriferito ma non più autarchico, che attraverso i suoi alter ego rivendica ancora la fiera appartenenza a una minoranza, riafferma il suo taglio moralista e indipendente ma rivela al sol dell’avvenire uno sguardo nuovo, che, seppur malinconico e severo verso il passato, è assolutorio, danzante e leggero con il presente che viviamo, rendendo il racconto più vulnerabile all’intervento del sogno e dell’incanto sul reale.
Complesso nel suo essere al contempo amaro ed euforico, Il sol dell’avvenire omaggia il cinema di Moretti nella misura in cui lo mette generosamente in discussione. Fa sfilare tutto il suo cinema in parata: gli interpreti, i fantasmi nevrotici che da quasi cinquant'anni abitano il suo immaginario, la riflessione sulla sinistra, l’assenza di una direzione ideologica collettiva, il disprezzo per certi costumi e certo cinema, le canzoni in auto e le commoventi incursioni pop nel racconto a ricordare che tutte quelle certezze perentorie forse, oggi, sono solo parole. Ma soprattutto rimane centrale il Moretti critico e spettatore, la sala cinematografica come occasione per parlare con se tessi e il proprio passato, il cinema come strumento e veicolo di pensiero - dalla riappacificazione con il circo fellinano all’etica della violenza sullo schermo in Krzysztof Kieślowski.
“Per capire come sto, bisogna vedere i miei film” ha detto lo stesso Moretti. E il film attesta la fiducia definitiva nella fisiologica fusione tra cinema e vita, il rapporto di estrema sincerità e trasparenza tra Moretti e il mezzo, il soccombere vicendevole tra esistenza e racconto. In fondo, Il sol dell’avvenire è la storia di una finzione raccontata nel suo farsi, è sia il film che la sua stessa costruzione. Il cinema non basta più a tenere gli altri a distanza e a controllarli, ma anzi si lascia interrompere e contagiare dalla vita stessa. Anche per questo Il sol dell’avvenire è forse il film più dolce di Nanni Moretti, perché riscrive la storia coi “se”, ballando sulle cose rimpiante. E, nel suo riflettere sul tempo che passa, che cambia ritmo, che sfugge al controllo e alle previsioni, Il sol dell’avvenire è sia somma che svolta, sintesi e differenza di una carriera intera, sguardo euforico alla nostalgia, rivoluzione nella citazione. Perché uno nella vita tre o quattro princìpi deve pur averli, e Nanni Moretti è uno di questi.