Una poesia ecologista,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-44
15.12.2023
In un piccolo paese situato in mezzo ai boschi del Giappone settentrionale, Takumi vive con la giovane figlia Hana e svolge una serie di attività strettamente a contatto con la natura la cui utilità ricade su tutta la comunità. L’arrivo di Takahashi e Mayuzumi, due impiegati di un’azienda d’intrattenimento interessata ad aprire un glamping (un campeggio di lusso) nei boschi della zona, turba la quiete della comunità. A farsi carico di questo sentimento è proprio Takumi, che mette in guardia i due emissari sul rischio di alterare il sottile equilibrio che gli abitanti del paese hanno stabilito con il mondo naturale.
In una lunga scena all’interno dell’abitacolo di un’auto un personaggio afferma di apprezzare il mondo dello spettacolo poiché “tutti dicono le cose come stanno”. Se si pensa però che Il male non esiste, nuovo lungometraggio di Ryusuke Hamaguchi, proceda comodamente nel solco ben tracciato del precedente Drive My Car si cade in errore. La nuova opera dell’acclamato cineasta giapponese, reduce del Gran Premio della Giuria alla 80° Mostra del cinema di Venezia, è incentrata infatti sul concetto di discontinuità. Discontinuità rispetto alle opere precedenti, verbose, quasi del tutto prive di accompagnamenti musicali e ambientate prevalentemente in contesti urbani, ma anche nei confronti della forma del film stesso, che appare volutamente frammentata e irregolare.
Se i due lungometraggi che hanno preceduto Il male non esiste sono ascrivibili a forme narrative come quelle del racconto breve nel caso di Il gioco del destino e della fantasia e del romanzo nel caso di Drive My Car, il nuovo film di Hamaguchi appare più vicino a quella forma di poesia a verso libero nota come haiku. Una poesia che si compone di pochi versi e di libere associazioni senza alcuna continuità l’una con l’altra, in cui il senso va ricercato nella discontinuità e nella frammentazione e non si presta ad alcuna interpretazione universale. Hamaguchi rende l’haiku schema compositivo sia della narrazione del film, ermetica, ambigua e priva dello sviluppo classico dell’intreccio, sia del piano formale, in cui l’immagine audiovisiva viene continuamente marcata da irregolarità che ne compromettono una semplice lettura.
Nonostante lo stile del regista rimanga sempre ascrivibile al minimalismo, si avverte nella composizione delle inquadrature e nel loro montaggio, curato dallo stesso Hamaguchi, una tendenza alla giustapposizione il cui senso è da cogliere nello scarto a cui essa dà luogo. Diversi sono gli stacchi di montaggio che giudicheremmo “sbagliati”, così come sono molteplici i momenti in cui la visibilità dello svolgimento delle azioni e dei personaggi è compromessa. Proprio grazie a questi espedienti stranianti Hamaguchi indaga il rapporto tra uomo e natura, tema principale del film, e offre diverse suggestioni allo spettatore. Analizzando la relazione fra questi due ambiti, è importante soffermarsi sulla congiunzione e poiché essa pone sullo stesso piano e lega, senza alcuna subordinazione, le due entità protagoniste del film. Il regista giapponese insiste su questa co-esistenza, rinunciando al cliché che vede l’uomo agire su una natura passiva e traducendo nella forma del film questo concetto. Se le azioni che si svolgono in interni vedono sempre al centro i personaggi e le loro relazioni non si può dire ugualmente di quelle che si svolgono negli esterni e, nello specifico, nel bosco. È proprio in queste scene in cui i bruschi stacchi di montaggio, la difficile visibilità delle azioni e i tagli netti che si verificano sia sul piano dell’immagine sia su quello sonoro, suggeriscono l’esistenza di un personaggio silenzioso ma immanente, mai passivo, che osserva lo svolgersi delle vicende degli uomini: la natura.
Il male non esiste è un film ecologico nel senso letterale del termine, ovvero un film che studia la relazione fra l’organismo e il proprio ambiente naturale. Più che alla denuncia ecologista, che è comunque presente nel film, il regista giapponese è interessato a indagare, sondando i limiti del linguaggio cinematografico, la relazione che intercorre tra uomo e natura. Il suo non è un pamphlet polemico, ma una meditazione su questo rapporto sottile e impercettibilmente precario. Quello di Hamaguchi è anche un film che presenta, come in parte già facevano le due opere precedenti del regista, la società giapponese post-covid. Proprio nel corso della pandemia abbiamo tutti avuto modo di sperimentare come la natura possa ancora imporsi con violenza sull’uomo, soprattutto per paradosso in ambienti fortemente antropizzati. Hamaguchi si interroga quindi sui limiti che essa ci pone per garantire la nostra esistenza sul pianeta. Confini spesso impercettibili e difficilmente decifrabili, ma il cui superamento porta alla catastrofe.
È forse questa una delle chiavi di lettura con cui è possibile interpretare il finale che, coerente con la forma dell’haiku, lascia il film aperto a molteplici associazioni e suggestioni. Forse il segno del superamento del limite si trova in una figlia che, abituata a tornare sempre a casa da sola, cessa di farlo dopo l’arrivo di Takahashi e Mayuzumi. Forse in una spina di una pianta che causa una profonda ferita. Forse in uno sparo che non è più indirizzato verso il suo consueto bersaglio o forse in un cervo che inizia all’improvviso ad attaccare gli umani. Il film si conclude come si apre, con la stessa carrellata che mostra gli alberi dal basso. Ma a differenza della prima inquadratura è notte, c’è la nebbia e udiamo un respiro affannoso. Non sapremo mai di chi è quel respiro. Potrebbe essere di Takumi, di Takahashi o di Hana, il cui nome significa emblematicamente “fiore”. O di una natura sempre più allo stremo.
Una poesia ecologista,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-44
15.12.2023
In un piccolo paese situato in mezzo ai boschi del Giappone settentrionale, Takumi vive con la giovane figlia Hana e svolge una serie di attività strettamente a contatto con la natura la cui utilità ricade su tutta la comunità. L’arrivo di Takahashi e Mayuzumi, due impiegati di un’azienda d’intrattenimento interessata ad aprire un glamping (un campeggio di lusso) nei boschi della zona, turba la quiete della comunità. A farsi carico di questo sentimento è proprio Takumi, che mette in guardia i due emissari sul rischio di alterare il sottile equilibrio che gli abitanti del paese hanno stabilito con il mondo naturale.
In una lunga scena all’interno dell’abitacolo di un’auto un personaggio afferma di apprezzare il mondo dello spettacolo poiché “tutti dicono le cose come stanno”. Se si pensa però che Il male non esiste, nuovo lungometraggio di Ryusuke Hamaguchi, proceda comodamente nel solco ben tracciato del precedente Drive My Car si cade in errore. La nuova opera dell’acclamato cineasta giapponese, reduce del Gran Premio della Giuria alla 80° Mostra del cinema di Venezia, è incentrata infatti sul concetto di discontinuità. Discontinuità rispetto alle opere precedenti, verbose, quasi del tutto prive di accompagnamenti musicali e ambientate prevalentemente in contesti urbani, ma anche nei confronti della forma del film stesso, che appare volutamente frammentata e irregolare.
Se i due lungometraggi che hanno preceduto Il male non esiste sono ascrivibili a forme narrative come quelle del racconto breve nel caso di Il gioco del destino e della fantasia e del romanzo nel caso di Drive My Car, il nuovo film di Hamaguchi appare più vicino a quella forma di poesia a verso libero nota come haiku. Una poesia che si compone di pochi versi e di libere associazioni senza alcuna continuità l’una con l’altra, in cui il senso va ricercato nella discontinuità e nella frammentazione e non si presta ad alcuna interpretazione universale. Hamaguchi rende l’haiku schema compositivo sia della narrazione del film, ermetica, ambigua e priva dello sviluppo classico dell’intreccio, sia del piano formale, in cui l’immagine audiovisiva viene continuamente marcata da irregolarità che ne compromettono una semplice lettura.
Nonostante lo stile del regista rimanga sempre ascrivibile al minimalismo, si avverte nella composizione delle inquadrature e nel loro montaggio, curato dallo stesso Hamaguchi, una tendenza alla giustapposizione il cui senso è da cogliere nello scarto a cui essa dà luogo. Diversi sono gli stacchi di montaggio che giudicheremmo “sbagliati”, così come sono molteplici i momenti in cui la visibilità dello svolgimento delle azioni e dei personaggi è compromessa. Proprio grazie a questi espedienti stranianti Hamaguchi indaga il rapporto tra uomo e natura, tema principale del film, e offre diverse suggestioni allo spettatore. Analizzando la relazione fra questi due ambiti, è importante soffermarsi sulla congiunzione e poiché essa pone sullo stesso piano e lega, senza alcuna subordinazione, le due entità protagoniste del film. Il regista giapponese insiste su questa co-esistenza, rinunciando al cliché che vede l’uomo agire su una natura passiva e traducendo nella forma del film questo concetto. Se le azioni che si svolgono in interni vedono sempre al centro i personaggi e le loro relazioni non si può dire ugualmente di quelle che si svolgono negli esterni e, nello specifico, nel bosco. È proprio in queste scene in cui i bruschi stacchi di montaggio, la difficile visibilità delle azioni e i tagli netti che si verificano sia sul piano dell’immagine sia su quello sonoro, suggeriscono l’esistenza di un personaggio silenzioso ma immanente, mai passivo, che osserva lo svolgersi delle vicende degli uomini: la natura.
Il male non esiste è un film ecologico nel senso letterale del termine, ovvero un film che studia la relazione fra l’organismo e il proprio ambiente naturale. Più che alla denuncia ecologista, che è comunque presente nel film, il regista giapponese è interessato a indagare, sondando i limiti del linguaggio cinematografico, la relazione che intercorre tra uomo e natura. Il suo non è un pamphlet polemico, ma una meditazione su questo rapporto sottile e impercettibilmente precario. Quello di Hamaguchi è anche un film che presenta, come in parte già facevano le due opere precedenti del regista, la società giapponese post-covid. Proprio nel corso della pandemia abbiamo tutti avuto modo di sperimentare come la natura possa ancora imporsi con violenza sull’uomo, soprattutto per paradosso in ambienti fortemente antropizzati. Hamaguchi si interroga quindi sui limiti che essa ci pone per garantire la nostra esistenza sul pianeta. Confini spesso impercettibili e difficilmente decifrabili, ma il cui superamento porta alla catastrofe.
È forse questa una delle chiavi di lettura con cui è possibile interpretare il finale che, coerente con la forma dell’haiku, lascia il film aperto a molteplici associazioni e suggestioni. Forse il segno del superamento del limite si trova in una figlia che, abituata a tornare sempre a casa da sola, cessa di farlo dopo l’arrivo di Takahashi e Mayuzumi. Forse in una spina di una pianta che causa una profonda ferita. Forse in uno sparo che non è più indirizzato verso il suo consueto bersaglio o forse in un cervo che inizia all’improvviso ad attaccare gli umani. Il film si conclude come si apre, con la stessa carrellata che mostra gli alberi dal basso. Ma a differenza della prima inquadratura è notte, c’è la nebbia e udiamo un respiro affannoso. Non sapremo mai di chi è quel respiro. Potrebbe essere di Takumi, di Takahashi o di Hana, il cui nome significa emblematicamente “fiore”. O di una natura sempre più allo stremo.