La storia si ripete
recensione di Mario Vannoni
RV-77
20.11.2024
Che possa diventare una tendenza (leggi: una moda) quella di aprire i blockbuster con una sequenza animata? Lo aveva già fatto Joker: Folie à Deux (Todd Phillips, 2024) con quella sorta di cortometraggio intitolato “Io e la mia ombra” e lo rifà anche Ridley Scott sui titoli di testa del suo Gladiator II (Il gladiatore II) con un rimodellamento in rotoscopio delle scene cruciali di Gladiator (Il gladiatore, Ridley Scott, 2000). Nel film di Phillips la sezione animata svolgeva un ruolo tematico che andava a configurarsi come puntello teorico su cui ancorare il successivo sviluppo sfacciatamente concettuale, in quello di Scott, invece, le immagini che scorrono sono un déjà-vu, un già visto, un bignami per disattenti, un’apertura che da sola racchiude il senso di questo sequel.
Infatti, Gladiator II è un ritorno dell’identico, una variazione sui temi del suo predecessore, una storia che ricalca i tempi, i modi e gli avvenimenti di Gladiator. Intanto nella progressione narrativa, che segue lo schema delle vicende accadute a Massimo Decimo Meridio (Russell Crowe): il nuovo protagonista, Annone (un Paul Mescal in parte ma dal volto non troppo azzeccato), nome acquisito che ne nasconde uno decisamente più illustre, è inizialmente un condottiero militare amato dai suoi soldati; perde moglie e battaglia in Numidia contro Marco Acacio (Pedro Pascal, sprecato), comandante delle centurie romane; finisce schiavo e poi, notato da Macrino (Denzel Washington, gigione ma non così in overacting come ci si aspettava: la sua resta la migliore interpretazione del film) durante un combattimento, diventa gladiatore; ottiene grande fama, sino a trovarsi nella posizione di sfidare il potere degli imperatori fratelli Geta (Joseph Quinn, efebico e allucinato) e Caracalla (Fred Hechinger, lui sì decisamente sopra le righe), aiutato dalla ritrovata madre Augusta Lucilla (Connie Nielsen, frignona e monoespressiva). Annone, invero, fuggito da Roma dopo la morte di Commodo, è Lucio Vero Aurelio, figlio, appunto, di Lucilla e Massimo, nonché nipote di Marco Aurelio. Come Massimo, Lucio passa da legittimo erede al trono, a schiavo, per poi tornare all’apice del potere.
Scott non solo ri-narra, con leggeri slittamenti, la medesima storia, ma ne conserva anche le occasioni rappresentative, disseminando nei gesti, nelle frasi, nei dettagli spiccioli un cumulo di fan service talvolta talmente esibito da risultare naïf, se non del tutto spregiudicato. Dal ritornello “strength and honor”, ripetuto dai personaggi come se si scambiassero il buongiorno, alla ferita sul braccio di Peter Mensah a inizio film, che è identica a quella sulla spalla del protagonista in Gladiator. Dalla testa che Annone mozza con un doppio colpo di spada a un gladiatore durante uno scontro, alla sua corsetta per salire dalle gabbie e fare l’ingresso al Colosseo, entrambe riprese quasi calligraficamente (anche nella scelta delle inquadrature e dei modi di ripresa, vedi il ralenti) dalle medesime azioni che Massimo eseguiva nel primo film. E poi la dimostrazione di forza di Annone, fatto combattere contro un avversario molto più imponente di lui, la sua irriverenza nei confronti del potere, continuamente rifiutato disobbedendo agli ordini, le citazioni di Virgilio, le frasette, gli ammiccamenti. Scott arriva a ripetere la maniera registica della pellicola del 2000, finanche replicato nei cambi di approccio che scandiscono la successione degli eventi.
Gladiator II comincia con una possente scena di guerra, ben diretta e costruita attraverso un montaggio oppositivo funzionale a introdurre i personaggi e il loro contrasto, che sembra una variazione marittima dell’iniziale scontro coi barbari di Gladiator, quando Massimo pronuncia la famosa frase “at my signal, unleash hell”. Stessa epica, stesso tono sospeso che sfocia in una battaglia cruenta dall’esito scontato. Scontato anche perché già sappiamo che Annone è destinato a diventare gladiatore, e perciò dovrà perdere (tutto) per finire prigioniero dei romani. Il lungometraggio prosegue sfilacciandosi progressivamente, sia nella narrazione, con una sceneggiatura dai risvolti poco verosimili (non c’entra niente la fedeltà storica, è questione di coerenza) e che butta via i personaggi (vedi Acacio), che nello stile, tendente al compiacimento tamarro - e a tratti grottesco (la scena della lotta dei gladiatori contro le scimmie) -, ma robusto nelle scene di combattimento, girate da Scott con un approccio vicino a quello con cui aveva diretto gli scontri in The Last Duel (2021).
Al netto delle osservazioni sin qui svolte, Gladiator II mostra comunque una regia più solida del suo predecessore, che si perdeva in alcuni vezzi fini a sé stessi e slegati dal racconto. Qui Scott dirige con mano ferma e dimostra convinzione. Quello che manca a questo sequel è il riscatto morale, la logica dei personaggi, la rivalsa (che qui diventa riciclo) personale che induce quella popolare, l’alone monumentale-generazionale del primo film. Gladiator II è un clone kitsch - come lo erano già Star Wars: The Force Awakens (Star Wars: Il risveglio della Forza, J. J. Abrams, 2015) e Alien: Romulus (Fede Álvarez, 2024) - dell’immagine di un tempo aggiornato alle possibilità (anche politiche) e ai divismi odierni: niente più che un’operazione commerciale senza timore di mostrarsi inutile. Senz’altro ci crede.
La storia si ripete
recensione di Mario Vannoni
RV-77
20.11.2024
Che possa diventare una tendenza (leggi: una moda) quella di aprire i blockbuster con una sequenza animata? Lo aveva già fatto Joker: Folie à Deux (Todd Phillips, 2024) con quella sorta di cortometraggio intitolato “Io e la mia ombra” e lo rifà anche Ridley Scott sui titoli di testa del suo Gladiator II (Il gladiatore II) con un rimodellamento in rotoscopio delle scene cruciali di Gladiator (Il gladiatore, Ridley Scott, 2000). Nel film di Phillips la sezione animata svolgeva un ruolo tematico che andava a configurarsi come puntello teorico su cui ancorare il successivo sviluppo sfacciatamente concettuale, in quello di Scott, invece, le immagini che scorrono sono un déjà-vu, un già visto, un bignami per disattenti, un’apertura che da sola racchiude il senso di questo sequel.
Infatti, Gladiator II è un ritorno dell’identico, una variazione sui temi del suo predecessore, una storia che ricalca i tempi, i modi e gli avvenimenti di Gladiator. Intanto nella progressione narrativa, che segue lo schema delle vicende accadute a Massimo Decimo Meridio (Russell Crowe): il nuovo protagonista, Annone (un Paul Mescal in parte ma dal volto non troppo azzeccato), nome acquisito che ne nasconde uno decisamente più illustre, è inizialmente un condottiero militare amato dai suoi soldati; perde moglie e battaglia in Numidia contro Marco Acacio (Pedro Pascal, sprecato), comandante delle centurie romane; finisce schiavo e poi, notato da Macrino (Denzel Washington, gigione ma non così in overacting come ci si aspettava: la sua resta la migliore interpretazione del film) durante un combattimento, diventa gladiatore; ottiene grande fama, sino a trovarsi nella posizione di sfidare il potere degli imperatori fratelli Geta (Joseph Quinn, efebico e allucinato) e Caracalla (Fred Hechinger, lui sì decisamente sopra le righe), aiutato dalla ritrovata madre Augusta Lucilla (Connie Nielsen, frignona e monoespressiva). Annone, invero, fuggito da Roma dopo la morte di Commodo, è Lucio Vero Aurelio, figlio, appunto, di Lucilla e Massimo, nonché nipote di Marco Aurelio. Come Massimo, Lucio passa da legittimo erede al trono, a schiavo, per poi tornare all’apice del potere.
Scott non solo ri-narra, con leggeri slittamenti, la medesima storia, ma ne conserva anche le occasioni rappresentative, disseminando nei gesti, nelle frasi, nei dettagli spiccioli un cumulo di fan service talvolta talmente esibito da risultare naïf, se non del tutto spregiudicato. Dal ritornello “strength and honor”, ripetuto dai personaggi come se si scambiassero il buongiorno, alla ferita sul braccio di Peter Mensah a inizio film, che è identica a quella sulla spalla del protagonista in Gladiator. Dalla testa che Annone mozza con un doppio colpo di spada a un gladiatore durante uno scontro, alla sua corsetta per salire dalle gabbie e fare l’ingresso al Colosseo, entrambe riprese quasi calligraficamente (anche nella scelta delle inquadrature e dei modi di ripresa, vedi il ralenti) dalle medesime azioni che Massimo eseguiva nel primo film. E poi la dimostrazione di forza di Annone, fatto combattere contro un avversario molto più imponente di lui, la sua irriverenza nei confronti del potere, continuamente rifiutato disobbedendo agli ordini, le citazioni di Virgilio, le frasette, gli ammiccamenti. Scott arriva a ripetere la maniera registica della pellicola del 2000, finanche replicato nei cambi di approccio che scandiscono la successione degli eventi.
Gladiator II comincia con una possente scena di guerra, ben diretta e costruita attraverso un montaggio oppositivo funzionale a introdurre i personaggi e il loro contrasto, che sembra una variazione marittima dell’iniziale scontro coi barbari di Gladiator, quando Massimo pronuncia la famosa frase “at my signal, unleash hell”. Stessa epica, stesso tono sospeso che sfocia in una battaglia cruenta dall’esito scontato. Scontato anche perché già sappiamo che Annone è destinato a diventare gladiatore, e perciò dovrà perdere (tutto) per finire prigioniero dei romani. Il lungometraggio prosegue sfilacciandosi progressivamente, sia nella narrazione, con una sceneggiatura dai risvolti poco verosimili (non c’entra niente la fedeltà storica, è questione di coerenza) e che butta via i personaggi (vedi Acacio), che nello stile, tendente al compiacimento tamarro - e a tratti grottesco (la scena della lotta dei gladiatori contro le scimmie) -, ma robusto nelle scene di combattimento, girate da Scott con un approccio vicino a quello con cui aveva diretto gli scontri in The Last Duel (2021).
Al netto delle osservazioni sin qui svolte, Gladiator II mostra comunque una regia più solida del suo predecessore, che si perdeva in alcuni vezzi fini a sé stessi e slegati dal racconto. Qui Scott dirige con mano ferma e dimostra convinzione. Quello che manca a questo sequel è il riscatto morale, la logica dei personaggi, la rivalsa (che qui diventa riciclo) personale che induce quella popolare, l’alone monumentale-generazionale del primo film. Gladiator II è un clone kitsch - come lo erano già Star Wars: The Force Awakens (Star Wars: Il risveglio della Forza, J. J. Abrams, 2015) e Alien: Romulus (Fede Álvarez, 2024) - dell’immagine di un tempo aggiornato alle possibilità (anche politiche) e ai divismi odierni: niente più che un’operazione commerciale senza timore di mostrarsi inutile. Senz’altro ci crede.