Corpi in fiamme,
recensione di Antonio Orrico
RV-41
29.11.2023
L’incipit de Il cielo brucia, nelle sale da giovedì 30 novembre, svela senza fronzoli il nuovo approccio che Petzold dona al secondo film della sua “trilogia degli elementi”. Se in Undine tutto ruotava intorno alla presenza dell’acqua, nel nuovo capitolo, come già il titolo anticipa, l’elemento d’interesse è il fuoco. Un approccio che, mai come in questo caso, si può definire metamorfico, capace di fornire nuove forme di racconto a seconda di come si svilupperanno le relazioni tra i protagonisti. Si parte con un elemento che va subito a simboleggiare e a presagire un clima funesto, indirizzando lo spettatore verso un tono di racconto preciso, impossibile apparentemente da sabotare. I due protagonisti principali, infatti, romperanno il motore della propria macchina e resteranno a piedi, in direzione della casa sul Mar Baltico dove hanno intenzione di trascorrere le vacanze.
Qui, però, Petzold dimostra di saper spiazzare il suo pubblico, di padroneggiare benissimo i cambi di registro del racconto e di saper uscire al di fuori della propria comfort zone, proponendo una commistione a dir poco inedita per il suo cinema. Così, Il cielo brucia, se inizialmente dà la sensazione di un’opera che si inerpica sui toni della commedia slapstick, rinnega subito la sua natura, palesando una prospettiva complessa e stratificata che si discosta dai classici dettami del cineasta tedesco, vero e proprio erede di quel cinema romantico che è diventato tradizione, asse portante della trasposizione cinematografica del Bildungsroman, a dimostrazione di quanto nel cinema del teutonico l’intersezione tra mitologia e realtà sia fondamentale per la produzione di storie in grado di affascinare lo spettatore grazie alla loro aura sospesa.
Il film si spinge addirittura a un punto di non ritorno che flirta con l’Apocalisse, risultando imprevedibile, una scheggia impazzita capace di rivelare la sua vera natura attraverso una corrispondenza simbiotica con i suoi protagonisti, volubili e imperscrutabili come l’evoluzione stessa del racconto. Nonostante questi elementi destabilizzanti, restando coerente con la sua poetica, Petzold mostra la sua peculiare affezione nei confronti degli spazi della modernità. Soprattutto, riesce a conferire anche a uno scenario inusuale per lui come quello marittimo, che colloca dunque il suo racconto al di fuori del metropolitano e delle città tedesche oggetto dei suoi precedenti film, lo status di un non-luogo attraversato da un non-tempo. Ne Il cielo brucia tutto appare sospeso, in corso di definizione, in attesa di un cambiamento che arriverà, puntuale, non grazie all’uomo, ma grazie alla grande protagonista della trilogia che sarà completata prossimamente: la natura.
Quest’ultima è usata, ancora una volta, dal regista come presagio di sventura, indicatore di minaccia, cambio ed evoluzione dei corpi dei protagonisti. Non è un caso che i corpi di Thomas Schubert e Langston Uibel agiscano come una vera e propria coppia degna di una screwball, dove il personaggio dello scrittore appare quasi sempre impacciato e fuori contesto e, soprattutto, ancora attaccato a delle valutazioni “bambinesche” che ne evidenziano il carattere egocentrico e viziato, mentre il fotografo si manifesta impossibilitato a valutare le situazioni al di là delle apparenze, mostrando un’evidente cecità. Proprio in virtù di queste opposizioni, è innegabile pensare ai personaggi di Leon e di Felix come due degni alter ego provenienti da un film di Rohmer o di Hong Sang-soo, condividendo con i protagonisti dei film dei due registi la stessa ostinazione, la stessa voglia di attenzioni e anche, in parte, di codardia, che ne mette in evidenza le contraddizioni caratteriali e l’innegabile debolezza.
Entrambi, come anche il Petzold de Il cielo brucia, hanno sempre fatto della semplicità dei dialoghi e dello scambio di battute tra i singoli personaggi la loro peculiarità principale. Anche qui, infatti, si assistono a fitti dialoghi che spezzano, di fatto, i silenzi dei precedenti film del regista tedesco, grazie ai quali la magnetica tensione che accresce man mano diventa un sotto prodotto di un romanzo. Il film attinge da una tipologia di battute e di scambi di parlato incredibilmente letteraria, dove tutta la tradizione del Romanticismo tedesco viene fuori con una passione a dir poco travolgente, rievocando un’attitudine al cinema classico che difficilmente può risultare più azzeccata, data la matrice profondamente tragica con cui il film si confronta.
Il cielo brucia sembrerebbe dunque caratterizzarsi per questa sua natura dualistica. Petzold, però, come un abile illusionista, riesce a tradire la fiducia che lo spettatore ripone in lui, evadendo ogni semplice soluzione ed espandendo il bipolarismo dei suoi protagonisti al film stesso. Il regista si prende tutto il tempo per disvelare il suo meccanismo narrativo, mandato avanti tramite le interazioni tra corpi che qui continuano a essere invisibili (nella scena clou del film, di fatto, l’elemento diegetico oscura ogni tentativo di visualizzazione della vicenda, che invece si affida totalmente al dispositivo del fuori campo) e incapaci, soprattutto, di portarsi allo zenit a causa della cecità dei personaggi, impossibilitati a comprendere il loro destino nella sua interezza.
Corpi in fiamme,
recensione di Antonio Orrico
RV-41
29.11.2023
L’incipit de Il cielo brucia, nelle sale da giovedì 30 novembre, svela senza fronzoli il nuovo approccio che Petzold dona al secondo film della sua “trilogia degli elementi”. Se in Undine tutto ruotava intorno alla presenza dell’acqua, nel nuovo capitolo, come già il titolo anticipa, l’elemento d’interesse è il fuoco. Un approccio che, mai come in questo caso, si può definire metamorfico, capace di fornire nuove forme di racconto a seconda di come si svilupperanno le relazioni tra i protagonisti. Si parte con un elemento che va subito a simboleggiare e a presagire un clima funesto, indirizzando lo spettatore verso un tono di racconto preciso, impossibile apparentemente da sabotare. I due protagonisti principali, infatti, romperanno il motore della propria macchina e resteranno a piedi, in direzione della casa sul Mar Baltico dove hanno intenzione di trascorrere le vacanze.
Qui, però, Petzold dimostra di saper spiazzare il suo pubblico, di padroneggiare benissimo i cambi di registro del racconto e di saper uscire al di fuori della propria comfort zone, proponendo una commistione a dir poco inedita per il suo cinema. Così, Il cielo brucia, se inizialmente dà la sensazione di un’opera che si inerpica sui toni della commedia slapstick, rinnega subito la sua natura, palesando una prospettiva complessa e stratificata che si discosta dai classici dettami del cineasta tedesco, vero e proprio erede di quel cinema romantico che è diventato tradizione, asse portante della trasposizione cinematografica del Bildungsroman, a dimostrazione di quanto nel cinema del teutonico l’intersezione tra mitologia e realtà sia fondamentale per la produzione di storie in grado di affascinare lo spettatore grazie alla loro aura sospesa.
Il film si spinge addirittura a un punto di non ritorno che flirta con l’Apocalisse, risultando imprevedibile, una scheggia impazzita capace di rivelare la sua vera natura attraverso una corrispondenza simbiotica con i suoi protagonisti, volubili e imperscrutabili come l’evoluzione stessa del racconto. Nonostante questi elementi destabilizzanti, restando coerente con la sua poetica, Petzold mostra la sua peculiare affezione nei confronti degli spazi della modernità. Soprattutto, riesce a conferire anche a uno scenario inusuale per lui come quello marittimo, che colloca dunque il suo racconto al di fuori del metropolitano e delle città tedesche oggetto dei suoi precedenti film, lo status di un non-luogo attraversato da un non-tempo. Ne Il cielo brucia tutto appare sospeso, in corso di definizione, in attesa di un cambiamento che arriverà, puntuale, non grazie all’uomo, ma grazie alla grande protagonista della trilogia che sarà completata prossimamente: la natura.
Quest’ultima è usata, ancora una volta, dal regista come presagio di sventura, indicatore di minaccia, cambio ed evoluzione dei corpi dei protagonisti. Non è un caso che i corpi di Thomas Schubert e Langston Uibel agiscano come una vera e propria coppia degna di una screwball, dove il personaggio dello scrittore appare quasi sempre impacciato e fuori contesto e, soprattutto, ancora attaccato a delle valutazioni “bambinesche” che ne evidenziano il carattere egocentrico e viziato, mentre il fotografo si manifesta impossibilitato a valutare le situazioni al di là delle apparenze, mostrando un’evidente cecità. Proprio in virtù di queste opposizioni, è innegabile pensare ai personaggi di Leon e di Felix come due degni alter ego provenienti da un film di Rohmer o di Hong Sang-soo, condividendo con i protagonisti dei film dei due registi la stessa ostinazione, la stessa voglia di attenzioni e anche, in parte, di codardia, che ne mette in evidenza le contraddizioni caratteriali e l’innegabile debolezza.
Entrambi, come anche il Petzold de Il cielo brucia, hanno sempre fatto della semplicità dei dialoghi e dello scambio di battute tra i singoli personaggi la loro peculiarità principale. Anche qui, infatti, si assistono a fitti dialoghi che spezzano, di fatto, i silenzi dei precedenti film del regista tedesco, grazie ai quali la magnetica tensione che accresce man mano diventa un sotto prodotto di un romanzo. Il film attinge da una tipologia di battute e di scambi di parlato incredibilmente letteraria, dove tutta la tradizione del Romanticismo tedesco viene fuori con una passione a dir poco travolgente, rievocando un’attitudine al cinema classico che difficilmente può risultare più azzeccata, data la matrice profondamente tragica con cui il film si confronta.
Il cielo brucia sembrerebbe dunque caratterizzarsi per questa sua natura dualistica. Petzold, però, come un abile illusionista, riesce a tradire la fiducia che lo spettatore ripone in lui, evadendo ogni semplice soluzione ed espandendo il bipolarismo dei suoi protagonisti al film stesso. Il regista si prende tutto il tempo per disvelare il suo meccanismo narrativo, mandato avanti tramite le interazioni tra corpi che qui continuano a essere invisibili (nella scena clou del film, di fatto, l’elemento diegetico oscura ogni tentativo di visualizzazione della vicenda, che invece si affida totalmente al dispositivo del fuori campo) e incapaci, soprattutto, di portarsi allo zenit a causa della cecità dei personaggi, impossibilitati a comprendere il loro destino nella sua interezza.