Sinfonia di ombre,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-102
17.04.2025
Nel profondo Sud degli Stati Uniti, nel Mississippi del 1932, i fratelli gemelli Elijah ed Elias Smoke - veterani della Prima Guerra Mondiale ed ex gangster che hanno fatto fortuna a Chicago - fanno ritorno alla loro città natale con l’intento di costruire un futuro diverso, aprendo un juke joint: un locale dedicato alla musica, al ballo e alla cultura afroamericana. Il loro progetto, simbolo di speranza e riscatto per la comunità nera locale, viene però minacciato dall’arrivo di una presenza oscura: un gruppo di vampiri guidati da un enigmatico predicatore bianco, Remmick (Jack O’Connell).
Ryan Coogler si rifà ai vampiri di Bigelow, Carpenter e Rodriguez, ma con una concretezza e un senso del genere più vicino al black cinema di Jordan Peele. Guarda con l’accuratezza dello storico al passato, collocando la vicenda in quel perturbante sud statunitense degli anni ’30, ma dà del tu al presente con le sue istanze e le sue rivendicazioni. I peccatori guarda a tanti generi, dall’horror home-invasion al musical, passando per la commedia e quel cinema muscolare che andava di moda negli ultimi due decenni del Novecento. Ma dedica a ognuno di essi il giusto sguardo, la giusta attenzione. Persino la complessa scelta di usare lo stesso attore - un Michael B. Jordan particolarmente in parte - per interpretare due personaggi diversi, che nel cinema contemporaneo americano si traduce quasi sempre in fallimento, risulta divertente e piuttosto efficace.
Il rischio del pastrocchio era altissimo, ma tutti gli elementi convivono con impensabile armonia. Il merito va sicuramente a una scrittura che, con grande abilità, riesce nella prima parte del film a costruire e perimetrare un mondo e dei personaggi estremamente accurati e a gestire alla perfezione le varie cesure fra gli atti che sanciscono i cambi di tono dell’opera. Altra nota di valore va data alla regia di Ryan Coogler, a proprio agio nel cavalcare diversi stili evitando però la frammentaria citazione post-moderna e donando quindi a I peccatori unità e compattezza formale.
Ma, soprattutto, a prendere la scena nel film è la colonna sonora firmata da Ludwig Goransson. Il compositore firma uno score che spazia fra blues, folk, tribale, elettronica ed hip hop e che accompagna le sequenze corali più interessanti dell’opera. Ci riferiamo, nello specifico, a un lungo e virtuoso piano sequenza che fa da spartiacque al film, un vero e proprio inno alla potenza della musica di unire spazi ed epoche, e alle scene che vedono i vampiri impegnati a suonare e interpretare musiche folcloristiche.
Non manca, ovviamente, la metafora che si sposa con l’urgenza politica del film: l’utopia nera che si costruisce alla luce del sole e che sembra potersi concretizzare nella notte, infatti, viene infranta dai vampiri bianchi. Che, ovviamente, se sono i cattivi della storia con la s minuscola non lo sono della Storia con la S maiuscola: quel ruolo spetta al Ku Klux Klan. Una vicenda, insomma, di oppressione e segregazione razziale. Il denaro è potere, e il potere logora. Se danzi col diavolo ti verrà a trovare a casa. La fede non può salvare perché è essa stessa un’imposizione e un esercizio di dominio sull’uomo. Tutto è molto chiaro, molto esplicito.
Un voice-over spiega i principi teorici del film, il montaggio accompagna per mano lo spettatore in modo che ogni passaggio venga chiarificato e puntualizzato. Ma è cinema popolare, quello di Coogler. Un cinema che crede fortemente nella grandiosità dei propri mezzi e che usa tutti gli ingredienti necessari per fare in modo che la storia arrivi allo spettatore nel giusto modo. E, nonostante I Peccatori sia un film che dà, dalla prima inquadratura fino alla scena post-credit, tutte le risposte senza lasciare alcuno spazio per l’interpretazione, lo accogliamo con grande entusiasmo.
È davvero difficile nel panorama del cinema d’intrattenimento americano contemporaneo - sempre più affetto da una certa pigrizia nella scrittura e nella messa in scena - scorgere un film con questa consapevolezza formale, un’opera che sappia dosare vari ingredienti senza che essi appaiano gratuità e che abbia un senso pieno e non vacuo della coreografia e della grandezza come il lungometraggio di Ryan Coogler.
Sinfonia di ombre,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-102
17.04.2025
Nel profondo Sud degli Stati Uniti, nel Mississippi del 1932, i fratelli gemelli Elijah ed Elias Smoke - veterani della Prima Guerra Mondiale ed ex gangster che hanno fatto fortuna a Chicago - fanno ritorno alla loro città natale con l’intento di costruire un futuro diverso, aprendo un juke joint: un locale dedicato alla musica, al ballo e alla cultura afroamericana. Il loro progetto, simbolo di speranza e riscatto per la comunità nera locale, viene però minacciato dall’arrivo di una presenza oscura: un gruppo di vampiri guidati da un enigmatico predicatore bianco, Remmick (Jack O’Connell).
Ryan Coogler si rifà ai vampiri di Bigelow, Carpenter e Rodriguez, ma con una concretezza e un senso del genere più vicino al black cinema di Jordan Peele. Guarda con l’accuratezza dello storico al passato, collocando la vicenda in quel perturbante sud statunitense degli anni ’30, ma dà del tu al presente con le sue istanze e le sue rivendicazioni. I peccatori guarda a tanti generi, dall’horror home-invasion al musical, passando per la commedia e quel cinema muscolare che andava di moda negli ultimi due decenni del Novecento. Ma dedica a ognuno di essi il giusto sguardo, la giusta attenzione. Persino la complessa scelta di usare lo stesso attore - un Michael B. Jordan particolarmente in parte - per interpretare due personaggi diversi, che nel cinema contemporaneo americano si traduce quasi sempre in fallimento, risulta divertente e piuttosto efficace.
Il rischio del pastrocchio era altissimo, ma tutti gli elementi convivono con impensabile armonia. Il merito va sicuramente a una scrittura che, con grande abilità, riesce nella prima parte del film a costruire e perimetrare un mondo e dei personaggi estremamente accurati e a gestire alla perfezione le varie cesure fra gli atti che sanciscono i cambi di tono dell’opera. Altra nota di valore va data alla regia di Ryan Coogler, a proprio agio nel cavalcare diversi stili evitando però la frammentaria citazione post-moderna e donando quindi a I peccatori unità e compattezza formale.
Ma, soprattutto, a prendere la scena nel film è la colonna sonora firmata da Ludwig Goransson. Il compositore firma uno score che spazia fra blues, folk, tribale, elettronica ed hip hop e che accompagna le sequenze corali più interessanti dell’opera. Ci riferiamo, nello specifico, a un lungo e virtuoso piano sequenza che fa da spartiacque al film, un vero e proprio inno alla potenza della musica di unire spazi ed epoche, e alle scene che vedono i vampiri impegnati a suonare e interpretare musiche folcloristiche.
Non manca, ovviamente, la metafora che si sposa con l’urgenza politica del film: l’utopia nera che si costruisce alla luce del sole e che sembra potersi concretizzare nella notte, infatti, viene infranta dai vampiri bianchi. Che, ovviamente, se sono i cattivi della storia con la s minuscola non lo sono della Storia con la S maiuscola: quel ruolo spetta al Ku Klux Klan. Una vicenda, insomma, di oppressione e segregazione razziale. Il denaro è potere, e il potere logora. Se danzi col diavolo ti verrà a trovare a casa. La fede non può salvare perché è essa stessa un’imposizione e un esercizio di dominio sull’uomo. Tutto è molto chiaro, molto esplicito.
Un voice-over spiega i principi teorici del film, il montaggio accompagna per mano lo spettatore in modo che ogni passaggio venga chiarificato e puntualizzato. Ma è cinema popolare, quello di Coogler. Un cinema che crede fortemente nella grandiosità dei propri mezzi e che usa tutti gli ingredienti necessari per fare in modo che la storia arrivi allo spettatore nel giusto modo. E, nonostante I Peccatori sia un film che dà, dalla prima inquadratura fino alla scena post-credit, tutte le risposte senza lasciare alcuno spazio per l’interpretazione, lo accogliamo con grande entusiasmo.
È davvero difficile nel panorama del cinema d’intrattenimento americano contemporaneo - sempre più affetto da una certa pigrizia nella scrittura e nella messa in scena - scorgere un film con questa consapevolezza formale, un’opera che sappia dosare vari ingredienti senza che essi appaiano gratuità e che abbia un senso pieno e non vacuo della coreografia e della grandezza come il lungometraggio di Ryan Coogler.