L'agghiacciante ritualità del morso,
recensione di Andrea Di Pede
RV-09
16.02.2023
Saeed Hananei (Mehdi Bajestani), ex militare iraniano, è un semplice operaio dedicato al sostentamento della propria famiglia. Nonostante l’apparente normalità della sua esistenza, la guerra ha originato in lui il più doloroso degli irrisolti: non essere diventato un martire. Saeed esce quindi in piena notte per adescare prostitute, le attira nella sua abitazione e le strangola con il loro stesso velo, lasciandosi alle spalle un’efferata scia di sangue. Mentre i crimini del Ragno scuotono e dividono l’opinione pubblica, da Teheran arriva Rahimi (Zahra Amir Ebrahimi), una giornalista che inizierà a investigare sul caso, osteggiata da pregiudizi sessisti e da un corpo di polizia passivo e inadeguato.
Se per il ruvido ma interessantissimo Border - Creature di confine era legittimo gridare all’epifania di un nuovo autore, l’ultima fatica di Ali Abbasi è certamente un lascito che merita un’analisi più lucida. Ispirato a fatti realmente accaduti – Saeed Hananei uccise sedici lavoratrici del sesso tra il 2000 e il 2001 nella città santa di Mashad – Holy Spider è un thriller d’inchiesta, un noir con sfumature horror, coraggioso nella scelta di indugiare sui volti delle vittime del Ragno, quasi a forzare lo sguardo dello spettatore; è un incubo urbano e casalingo senza vie d’uscita, caratterizzato dall'apparente distruzione del simbolismo in favore di un’ode alla più algida crudezza. L’identità del serial killer è svelata fin dalle prime battute del film, secondo una scelta sottrattiva discutibile che assume i contorni di una netta presa di posizione: il regista, per nulla interessato a dispensare mistero, è alla ricerca di risposte concrete. I perché, i motivi del male, giocano infatti un ruolo fondamentale nella girandola di omicidi in cui Rahimi tenta di districarsi con il debole aiuto del reporter locale Sharifi. Nulla è lasciato al caso.
Esiste un capannello di cinefili a cui, in prima battuta, le modalità di narrazione del nuovo film di Abbasi hanno ricordato Zodiac di Fincher; per quanto Holy Spider si rifaccia a un flusso tipicamente hollywoodiano – gli echi di registi come Fincher e Mann non mancano di certo – la differenza sta proprio nella definizione di punti focali, domande e analisi. Mentre nei film dei registi citati la caccia a un individuo slegato, vessato dalla società e per questo fuori quadro lasciava sullo sfondo il contesto generale, in Abbasi la descrizione dell’universo cittadino in cui la follia (condivisa da alcuni, forse anche dalle istituzioni?) del singolo si sprigiona risulta fondamentale. Cambia la prospettiva da cui guardare, anche per un discorso di latitudini, certamente per scelta, di un regista senz’altro non iscrivibile tra i canonici. Per quanto problematica sia la normalità con cui il killer viene rappresentato – riuscito escamotage con cui il regista rende Saeed un piccolo uomo schiavo dei suoi traumi e del processo di auto-mitizzazione – il vero punto di svolta sta nella caratterizzazione delle vittime, ognuna delle quali mostra una personalità distinta e combattiva. Le ultime disperate grida nei confronti di un tessuto culturale che le considera involucri privi di qualsiasi senso d’essere rappresentano l’urlo di tutte le donne iraniane vessate e private della loro autodeterminazione. La fotografia sporca di Nadim Carlsen gioca un ruolo decisivo nel dettare la temperatura di un film la cui luce esaspera il colore fino a farne un simbolo: il preponderante giallo ocra delle città arabe si mescola con le luci delle insegne e delle auto, squarcio nel buio capace di illuminare violentemente le brutture di un mondo che dispone la propria vita su due livelli di realtà, il giorno e la notte, il padre di famiglia e il giustiziere seriale, l’umile lavoratore e il folle paladino della decenza.
È proprio sui simboli però che Holy Spider rivela le proprie fragilità. La divisione in tre atti è riuscita: presentazione dei protagonisti e della loro visione del mondo, cattura del killer, processo finale. Se nei primi due atti la narrazione si sposa con un simbolismo sussurrato, quasi annientato dalla crudezza delle immagini, il terzo atto si perde in qualche grossolana didascalia e scene di deriva onirica – figlie forse di una qualche patologia post-traumatica del killer? – che alimentano lo smarrimento dello spettatore, fino a quel punto abituato a dinamiche di ben altro spessore. La scena in cui Saeed pone il proprio braccio fuori dalla finestra della cella per tornare puro tramite la pioggia è una stonata antitesi del linguaggio autoriale ma non è il passaggio più esplicito: i finti colpi di frusta simulati fuori campo sono al limite dell’improbabile, un ghigno grottesco che non aggiunge niente se non instabilità a uno sguardo per nulla banale e a un ragionamento pur iniziato con premesse virtuose. L’autore prova a servirsi del non detto e invece grida. Per quanto in grado di tenersi in equilibrio sul confine di un’autorialità godibile per larghi tratti del film, Holy Spider profuma di occasione sfruttata a metà, come se l’autore fosse venuto meno, nelle battute conclusive del film, alla premessa di fotografare la realtà dalla giusta distanza, alimentando invece l’opera di un vigore simbolico fine a sé stesso.
Lo sguardo di Ali Abbasi però, merita attenzione: il film, dalla lunga gestazione, è stato girato in Giordania per ovvie esigenze politiche ma è in qualche modo riuscito a intercettare la questione iraniana con ottimo tempismo, alla luce del fervore mosso internazionalmente dall’uccisione in circostanze sospette della giovane Masha Amini e delle notizie che quotidianamente arrivano da Teheran. Nota di merito alla straordinaria interpretazione di Zahra Amir Ebrahimi nei panni di Rahimi, premiata a Cannes nella sezione Prix d'interprétation féminine: il suo personaggio eredita il senso di immarcescibilità della Clarice Starling (Jodie Foster) de Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme con una prova magnetica, tanto efficace nei silenzi quanto nelle scene più fisiche, vero e proprio elemento trainante del film. Al netto di alcune criticità, Holy Spider è un’opera avvincente e coraggiosa, una tappa della carriera di Abbasi che potrebbe rivelarsi fondamentale per la sua maturità registica e di linguaggio.
L'agghiacciante ritualità del morso,
recensione di Andrea Di Pede
RV-09
16.02.2023
Saeed Hananei (Mehdi Bajestani), ex militare iraniano, è un semplice operaio dedicato al sostentamento della propria famiglia. Nonostante l’apparente normalità della sua esistenza, la guerra ha originato in lui il più doloroso degli irrisolti: non essere diventato un martire. Saeed esce quindi in piena notte per adescare prostitute, le attira nella sua abitazione e le strangola con il loro stesso velo, lasciandosi alle spalle un’efferata scia di sangue. Mentre i crimini del Ragno scuotono e dividono l’opinione pubblica, da Teheran arriva Rahimi (Zahra Amir Ebrahimi), una giornalista che inizierà a investigare sul caso, osteggiata da pregiudizi sessisti e da un corpo di polizia passivo e inadeguato.
Se per il ruvido ma interessantissimo Border - Creature di confine era legittimo gridare all’epifania di un nuovo autore, l’ultima fatica di Ali Abbasi è certamente un lascito che merita un’analisi più lucida. Ispirato a fatti realmente accaduti – Saeed Hananei uccise sedici lavoratrici del sesso tra il 2000 e il 2001 nella città santa di Mashad – Holy Spider è un thriller d’inchiesta, un noir con sfumature horror, coraggioso nella scelta di indugiare sui volti delle vittime del Ragno, quasi a forzare lo sguardo dello spettatore; è un incubo urbano e casalingo senza vie d’uscita, caratterizzato dall'apparente distruzione del simbolismo in favore di un’ode alla più algida crudezza. L’identità del serial killer è svelata fin dalle prime battute del film, secondo una scelta sottrattiva discutibile che assume i contorni di una netta presa di posizione: il regista, per nulla interessato a dispensare mistero, è alla ricerca di risposte concrete. I perché, i motivi del male, giocano infatti un ruolo fondamentale nella girandola di omicidi in cui Rahimi tenta di districarsi con il debole aiuto del reporter locale Sharifi. Nulla è lasciato al caso.
Esiste un capannello di cinefili a cui, in prima battuta, le modalità di narrazione del nuovo film di Abbasi hanno ricordato Zodiac di Fincher; per quanto Holy Spider si rifaccia a un flusso tipicamente hollywoodiano – gli echi di registi come Fincher e Mann non mancano di certo – la differenza sta proprio nella definizione di punti focali, domande e analisi. Mentre nei film dei registi citati la caccia a un individuo slegato, vessato dalla società e per questo fuori quadro lasciava sullo sfondo il contesto generale, in Abbasi la descrizione dell’universo cittadino in cui la follia (condivisa da alcuni, forse anche dalle istituzioni?) del singolo si sprigiona risulta fondamentale. Cambia la prospettiva da cui guardare, anche per un discorso di latitudini, certamente per scelta, di un regista senz’altro non iscrivibile tra i canonici. Per quanto problematica sia la normalità con cui il killer viene rappresentato – riuscito escamotage con cui il regista rende Saeed un piccolo uomo schiavo dei suoi traumi e del processo di auto-mitizzazione – il vero punto di svolta sta nella caratterizzazione delle vittime, ognuna delle quali mostra una personalità distinta e combattiva. Le ultime disperate grida nei confronti di un tessuto culturale che le considera involucri privi di qualsiasi senso d’essere rappresentano l’urlo di tutte le donne iraniane vessate e private della loro autodeterminazione. La fotografia sporca di Nadim Carlsen gioca un ruolo decisivo nel dettare la temperatura di un film la cui luce esaspera il colore fino a farne un simbolo: il preponderante giallo ocra delle città arabe si mescola con le luci delle insegne e delle auto, squarcio nel buio capace di illuminare violentemente le brutture di un mondo che dispone la propria vita su due livelli di realtà, il giorno e la notte, il padre di famiglia e il giustiziere seriale, l’umile lavoratore e il folle paladino della decenza.
È proprio sui simboli però che Holy Spider rivela le proprie fragilità. La divisione in tre atti è riuscita: presentazione dei protagonisti e della loro visione del mondo, cattura del killer, processo finale. Se nei primi due atti la narrazione si sposa con un simbolismo sussurrato, quasi annientato dalla crudezza delle immagini, il terzo atto si perde in qualche grossolana didascalia e scene di deriva onirica – figlie forse di una qualche patologia post-traumatica del killer? – che alimentano lo smarrimento dello spettatore, fino a quel punto abituato a dinamiche di ben altro spessore. La scena in cui Saeed pone il proprio braccio fuori dalla finestra della cella per tornare puro tramite la pioggia è una stonata antitesi del linguaggio autoriale ma non è il passaggio più esplicito: i finti colpi di frusta simulati fuori campo sono al limite dell’improbabile, un ghigno grottesco che non aggiunge niente se non instabilità a uno sguardo per nulla banale e a un ragionamento pur iniziato con premesse virtuose. L’autore prova a servirsi del non detto e invece grida. Per quanto in grado di tenersi in equilibrio sul confine di un’autorialità godibile per larghi tratti del film, Holy Spider profuma di occasione sfruttata a metà, come se l’autore fosse venuto meno, nelle battute conclusive del film, alla premessa di fotografare la realtà dalla giusta distanza, alimentando invece l’opera di un vigore simbolico fine a sé stesso.
Lo sguardo di Ali Abbasi però, merita attenzione: il film, dalla lunga gestazione, è stato girato in Giordania per ovvie esigenze politiche ma è in qualche modo riuscito a intercettare la questione iraniana con ottimo tempismo, alla luce del fervore mosso internazionalmente dall’uccisione in circostanze sospette della giovane Masha Amini e delle notizie che quotidianamente arrivano da Teheran. Nota di merito alla straordinaria interpretazione di Zahra Amir Ebrahimi nei panni di Rahimi, premiata a Cannes nella sezione Prix d'interprétation féminine: il suo personaggio eredita il senso di immarcescibilità della Clarice Starling (Jodie Foster) de Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme con una prova magnetica, tanto efficace nei silenzi quanto nelle scene più fisiche, vero e proprio elemento trainante del film. Al netto di alcune criticità, Holy Spider è un’opera avvincente e coraggiosa, una tappa della carriera di Abbasi che potrebbe rivelarsi fondamentale per la sua maturità registica e di linguaggio.