Il peso del tempo,
recensione di Antonio Orrico
RV-80
05.12.2024
Nel 1983, Chris Marker, uno dei più grandi registi di tutti i tempi, elaborava uno studio sull’occidentalizzazione dell'Oriente, sempre più alle prese con l'importazione delle mode americane e con l’introiettamento della cultura a stelle e strisce, in uno dei più grandi prodotti filmici di sempre: Sans Soleil (1983). Marker aveva appena ideato un oggetto alieno, una frantumazione del cinema-veritè in cui il documentario si svestiva dei panni della semplice didattica per vestire, invece, quelli di uno strumento d'indagine sulla materia filmica - evidenziando come le immagini di cui noi ci impossessiamo siano comunque alterate radicalmente, filtrate e manomesse - per simulare ed emulare la stessa distorsione che subisce una delle componenti principali del cervello umano: la memoria.
Grand Tour, il nuovo dramma colonialista del regista Miguel Gomes, riprende in parte gli stessi concetti markeriani, filtrando nuovamente lo sguardo della macchina da presa sulla Storia, su ciò che è ripreso e su come queste riprese vengono percepite. Il centro del cinema di Gomes riaccoglie nuovamente il potere della narrazione, scaturendo nello spettatore la necessità di riporre la sua fiducia in essa e nell’incanto che produce, lasciando così piena potenza all'immaginazione e al flusso delle voci e delle immagini. E proprio di questo flusso, il film, ambientato nella Birmania del 1917, si nutre, attraversando suggestioni e narratori diversi (che cambiano in funzione di ciò che si racconta) per narrare l’impossibilità di un amore e, soprattutto, l’impossibilità, da parte degli europei, di raggiungere uno sguardo uniforme e univoco nei confronti dell’Estremo Oriente, all'interno di una dialettica instabile che si fonda totalmente sul concetto di “do ut des” che, al posto di richiudere la forbice tra Asia e Europa, la allarga.
Il risultato è un giro a vuoto, un’intera rappresentazione di due visioni destinate a non incontrarsi mai, a sfiorarsi e guardarsi da lontano senza mai avere la possibilità di approcciarsi. Questa inconciliabilità si esprime perfettamente attraverso la forma cinematografica elaborata da Gomes. Oltre ai riferimenti al colonialismo disseminati nel corso dell'opera, il regista riesce apparentemente ad astrarre il suo film dal contesto odierno collegandosi ad un cinema-altro (ricordando, da questo punto di vista, l’unico altro grande autore contemporaneo in grado di “alienarsi” definitivamente dalle narrazioni odierne: il thailandese Apichatpong Weerasethakul) e ad una serie di suggestioni provenienti da rappresentazioni mediali forgiate in altre epoche (il “teatro delle ombre” ad esempio) e soprattutto da tipologie di cinema lontanissime dal nostro. Vi sono echi della Nouvelle Vague di Taiwan e di Hong Kong all’interno di Grand Tour (a testimonianza della natura cosmopolita e pienamente aderente al contesto coloniale narrato), ma allo stesso tempo la vicenda che ha come protagonista Gonçalo Waddington e Crista Alfaiate riprende, nei modi di scandire la relazione tra i due, il linguaggio filmico della screwball comedy “lubitschiana”, a testimonianza di quanto il dispositivo cinematografico, secondo il regista, sia praticamente assuefatto ad una dimensione sognante, onirica, totalmente rivolta nei confronti dell’immaginazione e delle fantasticherie.
Proprio attraverso il versante tecnico, il cineasta riesce a far avvertire allo spettatore il peso del tempo all’interno dell’economia di ciò che racconta, la sua importanza e la sua necessità. Se i travelling con cui Gomes attraversa varie fasi del racconto mostrano una sospensione del tempo narrativo che gli permette di attraversare facilmente la Storia (e le storie), e le dissolvenze incrociate nel traffico ci regalano nuovi fantasmi nella sua filmografia, di contro la rappresentazione della diegesi permette allo spettatore di confrontarsi con il cinema delle origini, a partire dalla costruzione di alcune sequenze che guardano all'era del muto (e della cui buona riuscita si gode soprattutto grazie alla prossemica e alla corporeità straniante, a tratti “chapliniana”, dei due interpreti principali) per poi ricollegarsi con il presente.
I movimenti su schermo di Edward (Gonçalo Waddington) sono perpetui, mai domi, intenzionati a rappresentare un personaggio che è in fuga costante dal contesto in cui vive e che, proprio in virtù di questo continuo andirivieni, ha totalmente perso la nozione del tempo. Il protagonista non fa altro che accentuare il mood straniante di un film che si riscopre unico nel suo genere, proprio nel suo rapporto con il mito e il tempo, ma soprattutto nella sua rappresentazione di un tipo di cinema che racchiude in sé tutti gli altri, senza soluzione di continuità.
La gestione dei due attori principali è equilibrata e soprattutto funzionale nell'esprimere le due anime di un lungometraggio estremamente sfaccettato, in cui la fuga rappresenta un escamotage per riuscire a evadere dai vincoli narrativi e lasciare che siano le immagini stesse a muoversi liberamente e ad elaborare un flusso. Footage, materiale d’archivio, riprese narrative, immagini d’epoca e sequenze create ad hoc partecipano tutte alla promozione di un discorso che Gomes intraprende proprio per portare a compimento un corto circuito tra retaggi del passato e realtà del presente, tra verità e finzione, tra veridicità e rappresentazione dell’immagine.
Questo permette al regista di riportare lo spettatore a godere del senso primordiale della narrazione, di fare riferimento a quella ricerca che già nella trilogia As Mil e Uma Noites (Le mille e una notte, 2015) era emersa come lavoro di indagine e rivoluzione per un mondo in crisi, il quale aveva bisogno di recuperare fiducia nella fluvialità della narrazione, gesto eversivo necessario per liberarsi delle maglie cinematografiche produttive odierne e per ricondurre il pubblico ad una propria coscienza dell’immagine, verso i confini filmici che essa stessa lambisce e rappresenta, come quello tra documentario e finzione.
Proprio per questo motivo, Grand Tour si inerpica su strade contorte, perde volontariamente di coerenza nella parte centrale per poi ritrovarsi nel segmento finale, raccontando di uno sfasamento passato che, in realtà, ha i suoi effetti ancora tangibili sul presente e che, tutto sommato, ci appartiene a pieno titolo. La “fuga” che il personaggio di Waddington intraprende non è solo una semplice evasione dal vincolo sacro del matrimonio, ma rappresenta piuttosto la voglia di sfuggire alle convenzioni, siano esse sociali o filmiche, del racconto o dell’immagine.
Grand Tour è, dunque, un nuovo atto politico nel cinema-mondo del grande autore portoghese.
Il peso del tempo,
recensione di Antonio Orrico
RV-80
05.12.2024
Nel 1983, Chris Marker, uno dei più grandi registi di tutti i tempi, elaborava uno studio sull’occidentalizzazione dell'Oriente, sempre più alle prese con l'importazione delle mode americane e con l’introiettamento della cultura a stelle e strisce, in uno dei più grandi prodotti filmici di sempre: Sans Soleil (1983). Marker aveva appena ideato un oggetto alieno, una frantumazione del cinema-veritè in cui il documentario si svestiva dei panni della semplice didattica per vestire, invece, quelli di uno strumento d'indagine sulla materia filmica - evidenziando come le immagini di cui noi ci impossessiamo siano comunque alterate radicalmente, filtrate e manomesse - per simulare ed emulare la stessa distorsione che subisce una delle componenti principali del cervello umano: la memoria.
Grand Tour, il nuovo dramma colonialista del regista Miguel Gomes, riprende in parte gli stessi concetti markeriani, filtrando nuovamente lo sguardo della macchina da presa sulla Storia, su ciò che è ripreso e su come queste riprese vengono percepite. Il centro del cinema di Gomes riaccoglie nuovamente il potere della narrazione, scaturendo nello spettatore la necessità di riporre la sua fiducia in essa e nell’incanto che produce, lasciando così piena potenza all'immaginazione e al flusso delle voci e delle immagini. E proprio di questo flusso, il film, ambientato nella Birmania del 1917, si nutre, attraversando suggestioni e narratori diversi (che cambiano in funzione di ciò che si racconta) per narrare l’impossibilità di un amore e, soprattutto, l’impossibilità, da parte degli europei, di raggiungere uno sguardo uniforme e univoco nei confronti dell’Estremo Oriente, all'interno di una dialettica instabile che si fonda totalmente sul concetto di “do ut des” che, al posto di richiudere la forbice tra Asia e Europa, la allarga.
Il risultato è un giro a vuoto, un’intera rappresentazione di due visioni destinate a non incontrarsi mai, a sfiorarsi e guardarsi da lontano senza mai avere la possibilità di approcciarsi. Questa inconciliabilità si esprime perfettamente attraverso la forma cinematografica elaborata da Gomes. Oltre ai riferimenti al colonialismo disseminati nel corso dell'opera, il regista riesce apparentemente ad astrarre il suo film dal contesto odierno collegandosi ad un cinema-altro (ricordando, da questo punto di vista, l’unico altro grande autore contemporaneo in grado di “alienarsi” definitivamente dalle narrazioni odierne: il thailandese Apichatpong Weerasethakul) e ad una serie di suggestioni provenienti da rappresentazioni mediali forgiate in altre epoche (il “teatro delle ombre” ad esempio) e soprattutto da tipologie di cinema lontanissime dal nostro. Vi sono echi della Nouvelle Vague di Taiwan e di Hong Kong all’interno di Grand Tour (a testimonianza della natura cosmopolita e pienamente aderente al contesto coloniale narrato), ma allo stesso tempo la vicenda che ha come protagonista Gonçalo Waddington e Crista Alfaiate riprende, nei modi di scandire la relazione tra i due, il linguaggio filmico della screwball comedy “lubitschiana”, a testimonianza di quanto il dispositivo cinematografico, secondo il regista, sia praticamente assuefatto ad una dimensione sognante, onirica, totalmente rivolta nei confronti dell’immaginazione e delle fantasticherie.
Proprio attraverso il versante tecnico, il cineasta riesce a far avvertire allo spettatore il peso del tempo all’interno dell’economia di ciò che racconta, la sua importanza e la sua necessità. Se i travelling con cui Gomes attraversa varie fasi del racconto mostrano una sospensione del tempo narrativo che gli permette di attraversare facilmente la Storia (e le storie), e le dissolvenze incrociate nel traffico ci regalano nuovi fantasmi nella sua filmografia, di contro la rappresentazione della diegesi permette allo spettatore di confrontarsi con il cinema delle origini, a partire dalla costruzione di alcune sequenze che guardano all'era del muto (e della cui buona riuscita si gode soprattutto grazie alla prossemica e alla corporeità straniante, a tratti “chapliniana”, dei due interpreti principali) per poi ricollegarsi con il presente.
I movimenti su schermo di Edward (Gonçalo Waddington) sono perpetui, mai domi, intenzionati a rappresentare un personaggio che è in fuga costante dal contesto in cui vive e che, proprio in virtù di questo continuo andirivieni, ha totalmente perso la nozione del tempo. Il protagonista non fa altro che accentuare il mood straniante di un film che si riscopre unico nel suo genere, proprio nel suo rapporto con il mito e il tempo, ma soprattutto nella sua rappresentazione di un tipo di cinema che racchiude in sé tutti gli altri, senza soluzione di continuità.
La gestione dei due attori principali è equilibrata e soprattutto funzionale nell'esprimere le due anime di un lungometraggio estremamente sfaccettato, in cui la fuga rappresenta un escamotage per riuscire a evadere dai vincoli narrativi e lasciare che siano le immagini stesse a muoversi liberamente e ad elaborare un flusso. Footage, materiale d’archivio, riprese narrative, immagini d’epoca e sequenze create ad hoc partecipano tutte alla promozione di un discorso che Gomes intraprende proprio per portare a compimento un corto circuito tra retaggi del passato e realtà del presente, tra verità e finzione, tra veridicità e rappresentazione dell’immagine.
Questo permette al regista di riportare lo spettatore a godere del senso primordiale della narrazione, di fare riferimento a quella ricerca che già nella trilogia As Mil e Uma Noites (Le mille e una notte, 2015) era emersa come lavoro di indagine e rivoluzione per un mondo in crisi, il quale aveva bisogno di recuperare fiducia nella fluvialità della narrazione, gesto eversivo necessario per liberarsi delle maglie cinematografiche produttive odierne e per ricondurre il pubblico ad una propria coscienza dell’immagine, verso i confini filmici che essa stessa lambisce e rappresenta, come quello tra documentario e finzione.
Proprio per questo motivo, Grand Tour si inerpica su strade contorte, perde volontariamente di coerenza nella parte centrale per poi ritrovarsi nel segmento finale, raccontando di uno sfasamento passato che, in realtà, ha i suoi effetti ancora tangibili sul presente e che, tutto sommato, ci appartiene a pieno titolo. La “fuga” che il personaggio di Waddington intraprende non è solo una semplice evasione dal vincolo sacro del matrimonio, ma rappresenta piuttosto la voglia di sfuggire alle convenzioni, siano esse sociali o filmiche, del racconto o dell’immagine.
Grand Tour è, dunque, un nuovo atto politico nel cinema-mondo del grande autore portoghese.