Giungle e pirati,
recensione di Andrea Tiradritti
RV-07
07.02.2023
Il nuovo film di Alessandro Comodin, premiato a Locarno e ora in tour nelle sale italiane, rivela fin dal titolo la natura retorica che per la sua intera durata cercherà poi di scardinare. Gigi la legge rovescia l’allitterazione che lo nomina, disallineando il suo linguaggio così da reiterare suoni ciechi, significati sbandati, immagini immemori dai contorni di nebbia. Siamo nell’assolata campagna friulana, nella vettura e nella testa di Gigi, poliziotto dagli occhiali scuri e dal cuore buono, vagabondo in servizio lungo strade prive di destinazione. In paese qualcuno si è gettato sotto un treno, eppure i treni non si fermano. Gigi indaga morti sospette e incendi fantasma, parla con voci senza viso e litiga con i vicini a causa del suo giardino, ormai ingombrante foresta, tra le cui fronde affonda invece di sfoltire.
Domandarsi cosa sia autentico in questa storia equivale a cercare la menzogna in una promessa. Il cinema di Comodin è sempre stato un gentile bugiardo proprio perché iperrealista, in grado di curvare il reale in simbolico secondo una sensibilità antropologica che ha cura degli sradicati, uno sguardo fatato su tempi vacillanti, esistenze comuni e avventurose. Questo è un film che si ripete e a ogni ripetizione invece di impararsi si dimentica, smarrito come il suo protagonista in amazzonie indistricate, false piste e amori impossibili. Della realtà indossa la divisa ma la sua pistola spara fazzoletti da clown a un pubblico che è passeggero e osservatore, complice di un errare e di un errore. Gigi dice buongiorno e buonasera come un mago l’istante prima dell’inganno, poi alla radio corteggia Paola, una giovane collega, e a ogni passo e chiudo ricomincia come il giorno dalla notte, girando a vuoto tra i desideri della sua fantasia.
Gigi la legge ha il sole in fronte e una grammatica dissestata: spesso campi e controcampi non corrispondono, quello che viene prima è tradito da quello che viene dopo, così che la risposta sbigottisca la domanda invece di risolverla. Gigi sorveglia la situazione mentre lo spettatore sorveglia lui, dal sedile accanto o a debita distanza, ammaliato e diffidente come capita nei confronti di quei pirati e di quei signori che imbrogliano col sorriso. Che l’unico luogo a essere raggiunto da Gigi sia un centro di salute mentale conferma metaforicamente il carattere allucinato del film, nonché il suo inciampare tra questo e un altro mondo, questo e un altro cinema, invischiato come i matti e i poeti in romantici deliri. Che Paola infine esista davvero, che alla sua voce tanto ascoltata coincida un corpo e che questo appaia senza avvisare, come si dice sia solita fare la felicità, è un atto di fede nella disperata possibilità del cinema di avverare i sogni e sognare la vita, al ritmo di una canzone da cantare tra le risa mentre si guida verso il nulla.
Una buona conclusione per un buon critico sarebbe a questo punto quella di svelare una volta per tutte il mistero di Gigi e i codici della sua legge. Si potrebbe parlare della lingua, il dialetto, di come il lavoro sulla sua musicalità renda attraversabili i margini della provincia e le attese estive. Si dovrebbe poi scrivere degli ostacoli e dei meriti produttivi, della coraggiosa visione di un cinema senza dimora, ogni volta libero di traslocare da se stesso per sfuggire alle norme, alla logica, alla gabbia dei botteghini. Si dovrebbe paragonare a film del passato, tracciare una panoramica generale, scovare padri e fratelli che utilizzino il dispositivo con lo stesso indocile minimalismo, preparando la realtà alla finzione e sabotando questa con apparizioni inconsulte, interruzioni e sfasamenti, attimi folgoranti di verità rubata allo schermo.
Un buon critico scriverebbe questo. Un critico sincero, magari ancora aggrovigliato nella giungla di Gigi, potrebbe invece rinunciare e scegliere di prendere in prestito proprio le sue parole per avvicinarsi al battito del film. A un lettore smanioso di conoscere il segreto di un’opera tanto sfuggente, uno che volesse saperne gli ingredienti per comprenderla e replicarne la ricetta, un critico sincero potrebbe allora cavarsela elencandoli in ordine, sussurrando senza fretta: due farfalle, un po’ di vento, una viola, una margherita, una rosa...
Giungle e pirati,
recensione di Andrea Tiradritti
RV-07
07.02.2023
Il nuovo film di Alessandro Comodin, premiato a Locarno e ora in tour nelle sale italiane, rivela fin dal titolo la natura retorica che per la sua intera durata cercherà poi di scardinare. Gigi la legge rovescia l’allitterazione che lo nomina, disallineando il suo linguaggio così da reiterare suoni ciechi, significati sbandati, immagini immemori dai contorni di nebbia. Siamo nell’assolata campagna friulana, nella vettura e nella testa di Gigi, poliziotto dagli occhiali scuri e dal cuore buono, vagabondo in servizio lungo strade prive di destinazione. In paese qualcuno si è gettato sotto un treno, eppure i treni non si fermano. Gigi indaga morti sospette e incendi fantasma, parla con voci senza viso e litiga con i vicini a causa del suo giardino, ormai ingombrante foresta, tra le cui fronde affonda invece di sfoltire.
Domandarsi cosa sia autentico in questa storia equivale a cercare la menzogna in una promessa. Il cinema di Comodin è sempre stato un gentile bugiardo proprio perché iperrealista, in grado di curvare il reale in simbolico secondo una sensibilità antropologica che ha cura degli sradicati, uno sguardo fatato su tempi vacillanti, esistenze comuni e avventurose. Questo è un film che si ripete e a ogni ripetizione invece di impararsi si dimentica, smarrito come il suo protagonista in amazzonie indistricate, false piste e amori impossibili. Della realtà indossa la divisa ma la sua pistola spara fazzoletti da clown a un pubblico che è passeggero e osservatore, complice di un errare e di un errore. Gigi dice buongiorno e buonasera come un mago l’istante prima dell’inganno, poi alla radio corteggia Paola, una giovane collega, e a ogni passo e chiudo ricomincia come il giorno dalla notte, girando a vuoto tra i desideri della sua fantasia.
Gigi la legge ha il sole in fronte e una grammatica dissestata: spesso campi e controcampi non corrispondono, quello che viene prima è tradito da quello che viene dopo, così che la risposta sbigottisca la domanda invece di risolverla. Gigi sorveglia la situazione mentre lo spettatore sorveglia lui, dal sedile accanto o a debita distanza, ammaliato e diffidente come capita nei confronti di quei pirati e di quei signori che imbrogliano col sorriso. Che l’unico luogo a essere raggiunto da Gigi sia un centro di salute mentale conferma metaforicamente il carattere allucinato del film, nonché il suo inciampare tra questo e un altro mondo, questo e un altro cinema, invischiato come i matti e i poeti in romantici deliri. Che Paola infine esista davvero, che alla sua voce tanto ascoltata coincida un corpo e che questo appaia senza avvisare, come si dice sia solita fare la felicità, è un atto di fede nella disperata possibilità del cinema di avverare i sogni e sognare la vita, al ritmo di una canzone da cantare tra le risa mentre si guida verso il nulla.
Una buona conclusione per un buon critico sarebbe a questo punto quella di svelare una volta per tutte il mistero di Gigi e i codici della sua legge. Si potrebbe parlare della lingua, il dialetto, di come il lavoro sulla sua musicalità renda attraversabili i margini della provincia e le attese estive. Si dovrebbe poi scrivere degli ostacoli e dei meriti produttivi, della coraggiosa visione di un cinema senza dimora, ogni volta libero di traslocare da se stesso per sfuggire alle norme, alla logica, alla gabbia dei botteghini. Si dovrebbe paragonare a film del passato, tracciare una panoramica generale, scovare padri e fratelli che utilizzino il dispositivo con lo stesso indocile minimalismo, preparando la realtà alla finzione e sabotando questa con apparizioni inconsulte, interruzioni e sfasamenti, attimi folgoranti di verità rubata allo schermo.
Un buon critico scriverebbe questo. Un critico sincero, magari ancora aggrovigliato nella giungla di Gigi, potrebbe invece rinunciare e scegliere di prendere in prestito proprio le sue parole per avvicinarsi al battito del film. A un lettore smanioso di conoscere il segreto di un’opera tanto sfuggente, uno che volesse saperne gli ingredienti per comprenderla e replicarne la ricetta, un critico sincero potrebbe allora cavarsela elencandoli in ordine, sussurrando senza fretta: due farfalle, un po’ di vento, una viola, una margherita, una rosa...