L'osceno mistero buffo della Storia,
recensione di Nicolò Bellon
RV-30
29.09.2023
Il Conte ama il sangue inglese. Ha visto la Rivoluzione, la testa di Maria Antonietta tagliata. Il Conte ha leccato la lama della ghigliottina che ha tranciato la regina. Il Conte è Claude Pinoche, soldato reale francese scopertosi vampiro. Il Conte muore e risorge, scappa, lotta, si nasconde e riappare, si unisce all’esercito, poi diventa generale. Nel 1973 rovescia con un colpo di stato il governo socialista di Salvador Allende (perché il Conte ormai è in Cile dal 1935). Il Conte diventa dittatore e tutti devono chiamarlo: “il Conte”. Il suo nome, per la storia, è Augusto Pinochet, anche se in questo mistero buffo di Pablo Larraín, dedicato tutto al Conte, poche volte viene pronunciato per intero.
El Conde, Premio Osella per la miglior sceneggiatura a Venezia, da poco disponibile su Netflix, è un film horror. (Ma non solo). È una commedia nera. (Sì, ma c’è dell’altro). È satira. (Anche). È una storia di famiglia. (E poi?). È un film sul reale e sul fantastico. È ridicolo e terrificante. El Conde di Pablo Larraín è un incubo, e come un incubo attinge dal reale per poi infestarlo di spiriti maligni, paure ancestrali, tormenti, agonie e psicosi. Una casa di campagna diventa teatro degli orrori, i figli adorati si rivelano carogne, le mogli traditrici, i compagni più fedeli doppiogiochisti. El Conde si costruisce sugli equivoci, sui rimbalzi e sui ribaltamenti, ed è giocato tutto su due toni: il bianco e il nero. Larraín usa gli estremi opposti per rivelarci, tra lacrime di desolazione e altre di gioia, quel che sta nel mezzo: cioè la Storia, quella vera, più oscena dell’osceno, e forse per questo taciuta.
Il Conte veste in tuta e scarpe da ginnastica, ha deciso di morire. Ma la famiglia vuole la sua eredità, così la moglie fedifraga fa cadere sempre un po’ di sangue nella minestra che prepara al marito, mescola per bene e fa servire a tavola. Tutti seduti composti, il Conte arriva in deambulatore, tovaglia bianca, calici di vino rosso, buon cibo. Come in ogni famiglia, convenevoli e silenzi, segreti e battibecchi. Ma il senso di tutte le storie è dato dalla prospettiva. È questione di sguardo, di dove e di come si posa, di quali dettagli mette a fuoco, di quali trascura. Basta che la camera allarghi il campo e si rivelano gli scarti. La casa è fredda, mal tenuta, il pavimento sotto il letto del Conte è ceduto, le assi di legno spaccate. Tutto è in frantumi. Ma danza.
Larraín conosce il tempo del sogno. Sa ricostruirlo con maestria ed eleganza, regalando a ogni suo film un’atmosfera sempre di poco sospesa. Sono vere le storie di Jackie Kennedy e Diana Spencer (raccontate in Jackie e Spencer), vera persino questa di Augusto Pinochet, veri i tormenti, le paure, gli errori. È tutto vero ma di poco spostato. Per questo fa ridere e fa paura. Perché il cinema di Larraín si muove sugli incroci della Storia, su ciò che poteva essere e non è stato, o forse è stato e c’è stato nascosto. Larraín non ha paura di guardare sotto i letti. Larraín racconta favole d’orrore, abitate da principesse stonate e cattivi incastrati in un ruolo che non reggono più.
Forse è il suo film più libero e intimo. Forse vale la pena chiedersi perché capita ai grandi di realizzare tutti i loro 8 ½ con Netflix. È successo a Scorsese con The Irishman, a Iñárritu con Bardo, a Sorrentino con È stata la mano di Dio, e a Cuarón con Roma. Ora a Larraín che con El Conde fa ciò che gli riesce meglio: prendere la Storia, studiarla, sviscerarla, e restituircela più dolce e più storta. I vampiri protagonisti di questo racconto frullano cuori in frullatori. Bevono il succo che ne esce. Alcuni in purezza, altri correggendolo con dell’alcool. Si dice che il cuore di un vampiro è quello più nutriente d’ogni altro, capace persino di riportarti bambino. Si dimentichino le guerre, i morti, l’orrore, la carestia. Basta un morso, ed è ancora e di nuovo festa. Ed è ancora, e per sempre, un incubo.
L'osceno mistero buffo della Storia,
recensione di Nicolò Bellon
RV-30
29.09.2023
Il Conte ama il sangue inglese. Ha visto la Rivoluzione, la testa di Maria Antonietta tagliata. Il Conte ha leccato la lama della ghigliottina che ha tranciato la regina. Il Conte è Claude Pinoche, soldato reale francese scopertosi vampiro. Il Conte muore e risorge, scappa, lotta, si nasconde e riappare, si unisce all’esercito, poi diventa generale. Nel 1973 rovescia con un colpo di stato il governo socialista di Salvador Allende (perché il Conte ormai è in Cile dal 1935). Il Conte diventa dittatore e tutti devono chiamarlo: “il Conte”. Il suo nome, per la storia, è Augusto Pinochet, anche se in questo mistero buffo di Pablo Larraín, dedicato tutto al Conte, poche volte viene pronunciato per intero.
El Conde, Premio Osella per la miglior sceneggiatura a Venezia, da poco disponibile su Netflix, è un film horror. (Ma non solo). È una commedia nera. (Sì, ma c’è dell’altro). È satira. (Anche). È una storia di famiglia. (E poi?). È un film sul reale e sul fantastico. È ridicolo e terrificante. El Conde di Pablo Larraín è un incubo, e come un incubo attinge dal reale per poi infestarlo di spiriti maligni, paure ancestrali, tormenti, agonie e psicosi. Una casa di campagna diventa teatro degli orrori, i figli adorati si rivelano carogne, le mogli traditrici, i compagni più fedeli doppiogiochisti. El Conde si costruisce sugli equivoci, sui rimbalzi e sui ribaltamenti, ed è giocato tutto su due toni: il bianco e il nero. Larraín usa gli estremi opposti per rivelarci, tra lacrime di desolazione e altre di gioia, quel che sta nel mezzo: cioè la Storia, quella vera, più oscena dell’osceno, e forse per questo taciuta.
Il Conte veste in tuta e scarpe da ginnastica, ha deciso di morire. Ma la famiglia vuole la sua eredità, così la moglie fedifraga fa cadere sempre un po’ di sangue nella minestra che prepara al marito, mescola per bene e fa servire a tavola. Tutti seduti composti, il Conte arriva in deambulatore, tovaglia bianca, calici di vino rosso, buon cibo. Come in ogni famiglia, convenevoli e silenzi, segreti e battibecchi. Ma il senso di tutte le storie è dato dalla prospettiva. È questione di sguardo, di dove e di come si posa, di quali dettagli mette a fuoco, di quali trascura. Basta che la camera allarghi il campo e si rivelano gli scarti. La casa è fredda, mal tenuta, il pavimento sotto il letto del Conte è ceduto, le assi di legno spaccate. Tutto è in frantumi. Ma danza.
Larraín conosce il tempo del sogno. Sa ricostruirlo con maestria ed eleganza, regalando a ogni suo film un’atmosfera sempre di poco sospesa. Sono vere le storie di Jackie Kennedy e Diana Spencer (raccontate in Jackie e Spencer), vera persino questa di Augusto Pinochet, veri i tormenti, le paure, gli errori. È tutto vero ma di poco spostato. Per questo fa ridere e fa paura. Perché il cinema di Larraín si muove sugli incroci della Storia, su ciò che poteva essere e non è stato, o forse è stato e c’è stato nascosto. Larraín non ha paura di guardare sotto i letti. Larraín racconta favole d’orrore, abitate da principesse stonate e cattivi incastrati in un ruolo che non reggono più.
Forse è il suo film più libero e intimo. Forse vale la pena chiedersi perché capita ai grandi di realizzare tutti i loro 8 ½ con Netflix. È successo a Scorsese con The Irishman, a Iñárritu con Bardo, a Sorrentino con È stata la mano di Dio, e a Cuarón con Roma. Ora a Larraín che con El Conde fa ciò che gli riesce meglio: prendere la Storia, studiarla, sviscerarla, e restituircela più dolce e più storta. I vampiri protagonisti di questo racconto frullano cuori in frullatori. Bevono il succo che ne esce. Alcuni in purezza, altri correggendolo con dell’alcool. Si dice che il cuore di un vampiro è quello più nutriente d’ogni altro, capace persino di riportarti bambino. Si dimentichino le guerre, i morti, l’orrore, la carestia. Basta un morso, ed è ancora e di nuovo festa. Ed è ancora, e per sempre, un incubo.