Un'esperienza mastodontica,
recensione di Francesco Sellitti
RV-53
07.03.2024
A quarant’anni di distanza dal controverso adattamento di David Lynch, il regista Denis Villeneuve porta a compimento la propria interpretazione del primo romanzo del ciclo più famoso di Frank Herbert con un’opera sensorialmente maestosa. Dune: Parte due (2024) segue le vicende e l’evoluzione del personaggio di Paul Atreides (Timothée Chalamet) dal momento in cui si concludeva la pellicola del 2021, focalizzandosi sull’integrazione e sul confronto del nobile rampollo con la società e la cultura dei Fremen, il popolo delle sabbie.
Tale rapporto deve fare però i conti con la profezia del Lisan al-Gaib, il fantomatico profeta messianico di cui i Fremen attendono la venuta e il cui ruolo pare essere destinato a Paul. Le posizioni dei Fremen circa la veridicità della profezia e la sua attinenza al giovane Atreides non sono tuttavia univoche: una parte della popolazione, rappresentata da Stilgar (Javier Bardem), crede fermamente nella venuta del Mahdi e ne vede in Paul i segni dell’imminente arrivo, mentre un’altra, rappresentata da Chani (Zendaya), ritiene non solo la profezia una semplice leggenda, ma risulta scettica nei confronti della religione in generale. Paul dunque si trova a essere succube di continue pressioni familiari e sociali, fronteggiando chi lo ritiene il messia salvifico dei Fremen e chi lo guarda con sospetto in quanto straniero e potenziale pericolo, entrambe posizioni incuranti delle sue reali aspirazioni.
Il tema religioso trova ulteriore declinazione nella congrega femminile delle Bene Gesserit, di cui fa parte Jessica (Rebecca Ferguson), madre di Paul: anche lei è costretta a confrontarsi con la profezia e a fare i conti con il suo ruolo di guida spirituale e di madre. Nonostante l’importanza del rapporto con la fede all’interno della narrazione, il film non fornisce una risposta univoca riguardo la veridicità della stessa: viene lasciata allo spettatore la decisione di unirsi a Stilgar e credere ai segni della venuta del Lisan al-Gaib o seguire Chani e leggere quegli stessi presagi come prodotto di macchinazioni dovute a logiche di potere.
Esiste però un fronte comune fra tutti i Fremen che va oltre ogni possibile dissidio interno: l’avversione per gli Harkonnen. Il baronato dei calvi pallidi guidato da Vladimir Harkonnen (Stellan Skarsgård) e suo nipote Rabban (Dave Bautista) presenta un nuovo membro, fratello del precedente: lo spietato Feyd-Rautha (Austin Butler). Le sue sequenze di introduzione ambientate sul pianeta nativo della famiglia, Giedi Prime, mostrano fotograficamente la disumanità della società Harkonnen attraverso uno spettacolo in un’arena gladiatoria, illuminata a picco da un sole talmente pallido da rimuovere ogni colore, riducendo tutto a una scala di grigi. Oltre a ciò, è innegabile il parallelismo che la scelta cromatica crea tra la casata Harkonnen e i regimi totalitari della prima metà del Novecento, soprattutto nelle inquadrature della parata pre-bellica, realizzate come fossero destinate a un cinegiornale.
Quest’ultimo non è che un esempio dell’elevata qualità delle immagini che Dune: Parte due offre: il direttore della fotografia Greig Fraser riesce a catapultare lo spettatore direttamente fra le dune di Arrakis, facendogli quasi sentire il profumo della spezia in sala (che sia dovuto a questo l’effetto euforico del pubblico esperibile dopo la proiezione?). La composizione delle inquadrature è tale da restituire sensorialmente la vastità del pianeta deserto, permettendo così una sempre maggiore immedesimazione fra pubblico e personaggi (la sequenza fra Paul e il gigantesco Shai-Hulud ne è la prova evidente). Le immagini da sole però non sarebbero altrettanto efficaci se non fossero coadiuvate dalla direzione attoriale di Villeneuve, in cui persino un semplice scambio di sguardi diventa latore di complesse reazioni emotive, e dalla colonna sonora di Hans Zimmer, in grado di destreggiarsi abilmente tra sonorità religiose e viscerali.
L’unico aspetto che pare essere leggermente compromesso è la scrittura: le necessità di condensazione del romanzo e la volontà dell’autore di esplorare le tematiche a lui più importanti (oltre a qualche possibile difficoltà dovuta alla produzione in periodo pandemico) hanno restituito una narrazione la cui seconda metà sembra essere fin troppo rapida, lasciando quindi alcune dinamiche fra i personaggi non sempre chiare a una ricostruzione plausibile da parte dello spettatore. Si tratta comunque di poca cosa se confrontato al lavoro mastodontico compiuto dalla pellicola (o forse le mancanze rilevate sono solo nella mente di chi avrebbe voluto prolungare la visione di un film tanto sensorialmente appagante).
Dune: Parte due risulta quindi un riuscito adattamento da parte di Villeneuve del romanzo omonimo di Herbert e fa del comparto estetico il suo punto di forza. Un’esperienza travolgente per lo spettatore che si trova come e con il protagonista in balia degli eventi. Nel primo capitolo della saga Leto Atreides diceva al figlio Paul: «Un grand’uomo non cerca di essere un leader, è chiamato a esserlo. E risponde». In questo seguito è tempo di fare i conti con questa chiamata.
Un'esperienza mastodontica,
recensione di Francesco Sellitti
RV-53
07.03.2024
A quarant’anni di distanza dal controverso adattamento di David Lynch, il regista Denis Villeneuve porta a compimento la propria interpretazione del primo romanzo del ciclo più famoso di Frank Herbert con un’opera sensorialmente maestosa. Dune: Parte due (2024) segue le vicende e l’evoluzione del personaggio di Paul Atreides (Timothée Chalamet) dal momento in cui si concludeva la pellicola del 2021, focalizzandosi sull’integrazione e sul confronto del nobile rampollo con la società e la cultura dei Fremen, il popolo delle sabbie.
Tale rapporto deve fare però i conti con la profezia del Lisan al-Gaib, il fantomatico profeta messianico di cui i Fremen attendono la venuta e il cui ruolo pare essere destinato a Paul. Le posizioni dei Fremen circa la veridicità della profezia e la sua attinenza al giovane Atreides non sono tuttavia univoche: una parte della popolazione, rappresentata da Stilgar (Javier Bardem), crede fermamente nella venuta del Mahdi e ne vede in Paul i segni dell’imminente arrivo, mentre un’altra, rappresentata da Chani (Zendaya), ritiene non solo la profezia una semplice leggenda, ma risulta scettica nei confronti della religione in generale. Paul dunque si trova a essere succube di continue pressioni familiari e sociali, fronteggiando chi lo ritiene il messia salvifico dei Fremen e chi lo guarda con sospetto in quanto straniero e potenziale pericolo, entrambe posizioni incuranti delle sue reali aspirazioni.
Il tema religioso trova ulteriore declinazione nella congrega femminile delle Bene Gesserit, di cui fa parte Jessica (Rebecca Ferguson), madre di Paul: anche lei è costretta a confrontarsi con la profezia e a fare i conti con il suo ruolo di guida spirituale e di madre. Nonostante l’importanza del rapporto con la fede all’interno della narrazione, il film non fornisce una risposta univoca riguardo la veridicità della stessa: viene lasciata allo spettatore la decisione di unirsi a Stilgar e credere ai segni della venuta del Lisan al-Gaib o seguire Chani e leggere quegli stessi presagi come prodotto di macchinazioni dovute a logiche di potere.
Esiste però un fronte comune fra tutti i Fremen che va oltre ogni possibile dissidio interno: l’avversione per gli Harkonnen. Il baronato dei calvi pallidi guidato da Vladimir Harkonnen (Stellan Skarsgård) e suo nipote Rabban (Dave Bautista) presenta un nuovo membro, fratello del precedente: lo spietato Feyd-Rautha (Austin Butler). Le sue sequenze di introduzione ambientate sul pianeta nativo della famiglia, Giedi Prime, mostrano fotograficamente la disumanità della società Harkonnen attraverso uno spettacolo in un’arena gladiatoria, illuminata a picco da un sole talmente pallido da rimuovere ogni colore, riducendo tutto a una scala di grigi. Oltre a ciò, è innegabile il parallelismo che la scelta cromatica crea tra la casata Harkonnen e i regimi totalitari della prima metà del Novecento, soprattutto nelle inquadrature della parata pre-bellica, realizzate come fossero destinate a un cinegiornale.
Quest’ultimo non è che un esempio dell’elevata qualità delle immagini che Dune: Parte due offre: il direttore della fotografia Greig Fraser riesce a catapultare lo spettatore direttamente fra le dune di Arrakis, facendogli quasi sentire il profumo della spezia in sala (che sia dovuto a questo l’effetto euforico del pubblico esperibile dopo la proiezione?). La composizione delle inquadrature è tale da restituire sensorialmente la vastità del pianeta deserto, permettendo così una sempre maggiore immedesimazione fra pubblico e personaggi (la sequenza fra Paul e il gigantesco Shai-Hulud ne è la prova evidente). Le immagini da sole però non sarebbero altrettanto efficaci se non fossero coadiuvate dalla direzione attoriale di Villeneuve, in cui persino un semplice scambio di sguardi diventa latore di complesse reazioni emotive, e dalla colonna sonora di Hans Zimmer, in grado di destreggiarsi abilmente tra sonorità religiose e viscerali.
L’unico aspetto che pare essere leggermente compromesso è la scrittura: le necessità di condensazione del romanzo e la volontà dell’autore di esplorare le tematiche a lui più importanti (oltre a qualche possibile difficoltà dovuta alla produzione in periodo pandemico) hanno restituito una narrazione la cui seconda metà sembra essere fin troppo rapida, lasciando quindi alcune dinamiche fra i personaggi non sempre chiare a una ricostruzione plausibile da parte dello spettatore. Si tratta comunque di poca cosa se confrontato al lavoro mastodontico compiuto dalla pellicola (o forse le mancanze rilevate sono solo nella mente di chi avrebbe voluto prolungare la visione di un film tanto sensorialmente appagante).
Dune: Parte due risulta quindi un riuscito adattamento da parte di Villeneuve del romanzo omonimo di Herbert e fa del comparto estetico il suo punto di forza. Un’esperienza travolgente per lo spettatore che si trova come e con il protagonista in balia degli eventi. Nel primo capitolo della saga Leto Atreides diceva al figlio Paul: «Un grand’uomo non cerca di essere un leader, è chiamato a esserlo. E risponde». In questo seguito è tempo di fare i conti con questa chiamata.