L'elogio del brutto,
recensione di Antonio Orrico
RV-63
23.07.2024
L’anima di Dostoevskij (2024) è contenuta già tutta, inconsapevolmente, nell’incipit. In una steppa imprecisata dai contorni inospitali, un uomo giace per terra, probabilmente a causa di una tentata overdose da psicofarmaci, inquadrati abilmente in primo piano di sfuggita, lasciando ogni ricostruzione allo spettatore. Improvvisamente squilla un telefono, e veniamo a conoscenza dei connotati dell’uomo. Si tratta di Enzo Vitello, poliziotto dell’unità investigativa di un’imprecisata città di provincia, revenant che dalla morte torna alla vita attraverso l’unica cosa che sembra dargli linfa per proseguire il suo soggiorno da vivo: uno scopo.
I fratelli D’Innocenzo stabiliscono, dunque, un’anti-epica che si occupa di immedesimare lo spettatore nel fallimento di un uomo e di un sistema, nella sconfitta di un ambiente intero, nel marcio di una provincia che è ormai indistinguibile e non ha né nome né un cognome. Già in America Latina (2021) i protagonisti convivevano all’interno di una realtà circoscritta ma indefinita, etichettata all’interno dei contorni di Latina ma, a conti fatti, indistinguibile, impossibile da catalogare e da localizzare, inafferrabile e generalizzata, atta più a manifestare un devastante trionfo della putrescenza piuttosto che a rappresentare un vero e proprio luogo.
Dostoevskij riparte da lì, da quella sgranatura della pellicola in 16mm che si ripropone negli atti più riprovevoli e devastanti della serie TV/film, ma supera quello step che forse mancava per la buona riuscita del lungometraggio del 2021. Se nella terza opera dei due gemelli romani, i continui stimoli visivi e l’interessante cura nei confronti della parte più tecnica del film (regia, sonoro, fotografia e scenografia) risultava poi radicalmente appiattita e quasi sbeffeggiata da una seconda parte che non solo non seguiva più gli stimoli della prima, ma addirittura li sovvertiva e li azzerava tramite una mezz’ora finale insufficiente, qui fortunatamente, nonostante alcuni incidenti di percorso, il lavoro è portato a termine.
Nella ricerca ossessiva del serial killer le cui lettere, lasciate adeguatamente nei pressi dei cadaveri di ogni vittima che si sussegue sullo schermo nel corso dei 270 minuti, c’è soprattutto un ritratto a 360° di uomini che annegano progressivamente nei propri demoni, incapaci di far fronte alle proprie difficoltà, testardi e quasi votati a tutto corpo nella loro missione. Nella sfida contro Dostoevskij, il Vitello di Filippo Timi, personaggio che sembra uscito dall’opera fumettistica di Aaron e Latour, Southern Bastards (2014), svuotato dalla vita e riempito solamente dagli scambi epistolari con il serial killer, si riattiva, ritrova un cuore pulsante che combatte radicalmente la sua voglia di farla finita. Il suo inverno interiore rifiorisce a nuova vita solamente attraverso il confronto, solamente mediante il degrado, la sporcizia e la desolazione delle scenografie degli omicidi con cui, di volta in volta, si confronta.
L’elogio, dunque, del brutto, del noir non più inteso come semplice tendenza di un immaginario cinematografico, ma come colore rappresentante del marcio, del traslucido, della cupidigia dell’animo umano. La desolazione in Dostoevskij si ripercuote su tutto ciò che ne fa parte, portandolo a diventare un pandemic-movie in pectore, dove il male è la malattia che contamina tutto, partendo dal profilmico. I volti, catturati più volte in primi piani sghembi, risultano sgranati dall’effetto in 16mm che in più punti cruciali si riaffaccia sullo schermo, hanno un sentore irregolare, sono sempre tumefatti, deturpati da elementi esterni, si fanno simbolo cardine della malvagità. Anche le mani, in riferimenti di “bressoniana” memoria, sono sempre immortalate nei loro gesti più schizofrenici, tra chi infila armi nella borsa, chi strappa violentemente fogli, chi strattona e picchia e allo stesso tempo ama e perdona, dando all’opera un sapore quasi trascendentale che la connota come un oggetto affascinante e unico, a suo modo, difficile da collocare all’interno del panorama italiano.
L’inquietudine che si respira nel corso della pellicola la conduce verso una via enormemente affascinante, che si sporge più volte verso quel cinema trascendentale le cui scelte stilistiche sono richiamate in più occasioni. Dai piani sequenza sulle nuche dei protagonisti alla scelta di concentrarsi sulla loro gestualità, in più occasioni i D’Innocenzo riescono a far respirare la loro personalissima ontologia del male, puntando ad uno storytelling che, piuttosto che affidarsi alla scrittura (in cui, francamente, i due fratelli non sono mai stati dei campioni), proceda a narrare sostanzialmente per immagini una storia torbida, una favolaccia che riesce a coniugare bene impianto visivo e parola scritta, creando un flusso narrativo che, finalmente, procede per suggestioni e analogie, tramite ciò che è raccontato dal campo e dal fuoricampo.
L’orrore, strisciante per la maggior parte del tempo, deflagra attimo dopo attimo, tramite un’escalation che diventa l’unica strada da percorrere una volta addentratisi in profondità. Così, il racconto psicologico di Dostoevskij diventa, progressivamente, una mise en abyme della vita stessa. Un’opera che condensa in sé tutto il funesto, il disastro e la verticalità che, nelle altre opere dei registi, per un motivo o per un altro sono sempre stati attenuati, mai arrivati a loro pieno compimento. La direzione è programmatica, è netta e chiara fin dal principio, a mostrare il disgusto nei confronti della vita stessa e al contempo la sua totale bellezza, che consiste anche nel riconoscere il fallimento.
E Dostoevskij è un’opera contornata da figure fallibili e fallimentari, che mai come questa volta nell’opera dei due cineasti sono cosi verosimili e umane. Non c’è più la caratterizzazione grottesca di Favolacce (2020) o la didascalia di America Latina. Finalmente c’è la percezione di una verità, di un maggior respiro nelle interpretazioni e di una regia che non si limita più solo a mostrare ciò che accade, ma che racconta aspetti macabri, ossessioni, drammi e conflittualità irrisolte (ne è un valido esempio la tormentata “relazione” tra Filippo Timi e Carlotta Gamba, che va ben al di là del classico dualismo padre/figlia). C’è finalmente spazio per un’umanità viva, che lotta contro sé stessa e contro gli altri senza aver bisogno di nascondersi dietro il finto fastidio grottesco e borghese delle due opere precedenti. I D’Innocenzo si riconoscono molto più adatti a fare i cantori dei bassifondi che nemmeno a dare sfogo a tutta la loro finta irriverenza nei confronti delle famiglie “perbene”.
Il risultato è senza dubbio più interessante.
L'elogio del brutto,
recensione di Antonio Orrico
RV-63
23.07.2024
L’anima di Dostoevskij (2024) è contenuta già tutta, inconsapevolmente, nell’incipit. In una steppa imprecisata dai contorni inospitali, un uomo giace per terra, probabilmente a causa di una tentata overdose da psicofarmaci, inquadrati abilmente in primo piano di sfuggita, lasciando ogni ricostruzione allo spettatore. Improvvisamente squilla un telefono, e veniamo a conoscenza dei connotati dell’uomo. Si tratta di Enzo Vitello, poliziotto dell’unità investigativa di un’imprecisata città di provincia, revenant che dalla morte torna alla vita attraverso l’unica cosa che sembra dargli linfa per proseguire il suo soggiorno da vivo: uno scopo.
I fratelli D’Innocenzo stabiliscono, dunque, un’anti-epica che si occupa di immedesimare lo spettatore nel fallimento di un uomo e di un sistema, nella sconfitta di un ambiente intero, nel marcio di una provincia che è ormai indistinguibile e non ha né nome né un cognome. Già in America Latina (2021) i protagonisti convivevano all’interno di una realtà circoscritta ma indefinita, etichettata all’interno dei contorni di Latina ma, a conti fatti, indistinguibile, impossibile da catalogare e da localizzare, inafferrabile e generalizzata, atta più a manifestare un devastante trionfo della putrescenza piuttosto che a rappresentare un vero e proprio luogo.
Dostoevskij riparte da lì, da quella sgranatura della pellicola in 16mm che si ripropone negli atti più riprovevoli e devastanti della serie TV/film, ma supera quello step che forse mancava per la buona riuscita del lungometraggio del 2021. Se nella terza opera dei due gemelli romani, i continui stimoli visivi e l’interessante cura nei confronti della parte più tecnica del film (regia, sonoro, fotografia e scenografia) risultava poi radicalmente appiattita e quasi sbeffeggiata da una seconda parte che non solo non seguiva più gli stimoli della prima, ma addirittura li sovvertiva e li azzerava tramite una mezz’ora finale insufficiente, qui fortunatamente, nonostante alcuni incidenti di percorso, il lavoro è portato a termine.
Nella ricerca ossessiva del serial killer le cui lettere, lasciate adeguatamente nei pressi dei cadaveri di ogni vittima che si sussegue sullo schermo nel corso dei 270 minuti, c’è soprattutto un ritratto a 360° di uomini che annegano progressivamente nei propri demoni, incapaci di far fronte alle proprie difficoltà, testardi e quasi votati a tutto corpo nella loro missione. Nella sfida contro Dostoevskij, il Vitello di Filippo Timi, personaggio che sembra uscito dall’opera fumettistica di Aaron e Latour, Southern Bastards (2014), svuotato dalla vita e riempito solamente dagli scambi epistolari con il serial killer, si riattiva, ritrova un cuore pulsante che combatte radicalmente la sua voglia di farla finita. Il suo inverno interiore rifiorisce a nuova vita solamente attraverso il confronto, solamente mediante il degrado, la sporcizia e la desolazione delle scenografie degli omicidi con cui, di volta in volta, si confronta.
L’elogio, dunque, del brutto, del noir non più inteso come semplice tendenza di un immaginario cinematografico, ma come colore rappresentante del marcio, del traslucido, della cupidigia dell’animo umano. La desolazione in Dostoevskij si ripercuote su tutto ciò che ne fa parte, portandolo a diventare un pandemic-movie in pectore, dove il male è la malattia che contamina tutto, partendo dal profilmico. I volti, catturati più volte in primi piani sghembi, risultano sgranati dall’effetto in 16mm che in più punti cruciali si riaffaccia sullo schermo, hanno un sentore irregolare, sono sempre tumefatti, deturpati da elementi esterni, si fanno simbolo cardine della malvagità. Anche le mani, in riferimenti di “bressoniana” memoria, sono sempre immortalate nei loro gesti più schizofrenici, tra chi infila armi nella borsa, chi strappa violentemente fogli, chi strattona e picchia e allo stesso tempo ama e perdona, dando all’opera un sapore quasi trascendentale che la connota come un oggetto affascinante e unico, a suo modo, difficile da collocare all’interno del panorama italiano.
L’inquietudine che si respira nel corso della pellicola la conduce verso una via enormemente affascinante, che si sporge più volte verso quel cinema trascendentale le cui scelte stilistiche sono richiamate in più occasioni. Dai piani sequenza sulle nuche dei protagonisti alla scelta di concentrarsi sulla loro gestualità, in più occasioni i D’Innocenzo riescono a far respirare la loro personalissima ontologia del male, puntando ad uno storytelling che, piuttosto che affidarsi alla scrittura (in cui, francamente, i due fratelli non sono mai stati dei campioni), proceda a narrare sostanzialmente per immagini una storia torbida, una favolaccia che riesce a coniugare bene impianto visivo e parola scritta, creando un flusso narrativo che, finalmente, procede per suggestioni e analogie, tramite ciò che è raccontato dal campo e dal fuoricampo.
L’orrore, strisciante per la maggior parte del tempo, deflagra attimo dopo attimo, tramite un’escalation che diventa l’unica strada da percorrere una volta addentratisi in profondità. Così, il racconto psicologico di Dostoevskij diventa, progressivamente, una mise en abyme della vita stessa. Un’opera che condensa in sé tutto il funesto, il disastro e la verticalità che, nelle altre opere dei registi, per un motivo o per un altro sono sempre stati attenuati, mai arrivati a loro pieno compimento. La direzione è programmatica, è netta e chiara fin dal principio, a mostrare il disgusto nei confronti della vita stessa e al contempo la sua totale bellezza, che consiste anche nel riconoscere il fallimento.
E Dostoevskij è un’opera contornata da figure fallibili e fallimentari, che mai come questa volta nell’opera dei due cineasti sono cosi verosimili e umane. Non c’è più la caratterizzazione grottesca di Favolacce (2020) o la didascalia di America Latina. Finalmente c’è la percezione di una verità, di un maggior respiro nelle interpretazioni e di una regia che non si limita più solo a mostrare ciò che accade, ma che racconta aspetti macabri, ossessioni, drammi e conflittualità irrisolte (ne è un valido esempio la tormentata “relazione” tra Filippo Timi e Carlotta Gamba, che va ben al di là del classico dualismo padre/figlia). C’è finalmente spazio per un’umanità viva, che lotta contro sé stessa e contro gli altri senza aver bisogno di nascondersi dietro il finto fastidio grottesco e borghese delle due opere precedenti. I D’Innocenzo si riconoscono molto più adatti a fare i cantori dei bassifondi che nemmeno a dare sfogo a tutta la loro finta irriverenza nei confronti delle famiglie “perbene”.
Il risultato è senza dubbio più interessante.