Così è (se vi pare),
recensione di Alberto de Carolis Villars
RV-08
10.02.2023
Oramai non vi sono più dubbi nell’affermare che Park Chan-wook sia un maestro dei nostri giorni. Da Joint Security Area (2000) alla cosiddetta “trilogia della vendetta” - composta da Mr. Vendetta (2002), Old Boy (2003) e Lady Vendetta (2005) - da Thirst (2009) all’incursione americana di Stoker (2013), fino ad arrivare a Mademoiselle (2016), il regista coreano ha sempre descritto un mondo ambiguo e dalla natura mutevole, nel quale la realtà non sembra far capo a un’unica interpretazione ma - come ci insegna la lezione di Kurosawa nel capolavoro Rashomon (1950) - a molteplici, e mutevoli, verità. Questa sorta di file rouge che in un modo o in un altro attraversa tutta la filmografia dell’autore trova in Decision to Leave il suo totale, e decisivo, compimento. L’ultimo lavoro di Park Chan-wook, premiato lo scorso maggio al Festival di Cannes 2022 con il Prix de la mise en scène (premio alla miglior regia) è di fatto un rebus senza soluzione, un labirinto mentale dove i protagonisti si avventurano perdendo loro stessi, un’assurda e struggente canzone d’amore che, non trovando mai una fine, continua la sua melodia all’infinito.
La trama presenta tutti gli elementi di una perfetta crime story: una serie di omicidi intricati, un investigatore brillante le cui certezze vengono pian piano messe in discussione e una dark lady misteriosa e perturbante. Ma la verità sembra essere un'altra: con il progressivo avanzamento del plot, l'ossessiva attenzione che Park Chan-wook posa sui suoi due protagonisti - unici focus di un'azione intorno alla quale orbitano una serie di personaggi minori - insinuerà sempre più nella mente dello spettatore il dubbio che, forse, lo scopo del regista sia quello di raccontarci altro. Più ci si inoltra negli ingranaggi della storia e più si comprenderà che il fine dell’opera non è arrivare a una reale risoluzione degli avvenimenti, ma alla descrizione di un amore folle, complesso e disperato. Decision to Leave è quindi un melodramma oscuro con delle spiccate caratteristiche da noir, una love story dove la tragedia incombe minacciosa a ogni angolo, un pirandelliano gioco delle parti che si interroga, per tutta la sua durata, sulla reale natura dei sentimenti umani.
Attraverso un linguaggio poetico e un sopito umorismo grottesco, Park Chan-wook dimostra ancora una volta la sua preziosa capacità di narrare una storia su più livelli. Per mezzo di una stratificata elaborazione della trama, il cineasta muta ogni elemento narrativo in metafora - la montagna dell’omicidio, le coste tempestose del finale - regalandoci un’ibridazione costante dei generi e incorniciando il tutto con una regia attenta e calibrata, virtuosa ma mai compiaciuta, penetrante e sinuosa. Si potrebbe quasi dichiarare che il regista abbia concepito un nuovo genere cinematografico, un genere fatto di cambi repentini di tono e situazioni impenetrabili.
Da autore colto e raffinato qual è, Park Chan-wook non si tira indietro neanche nei giochi citazionisti: per un occhio attento non sarà poi così difficile scovare tutte quelle caratteristiche tipiche delle grandi storie d’amore e morte che hanno da sempre abitato la storia del cinema. Nella dinamica dell’uomo che insegue la donna amata senza mai riuscire realmente a coronare la sua ossessione erotico-sentimentale, sembrano infatti echeggiare le atmosfere di capolavori oscuri quali Vertigo (1958) o Double Indemnity (1944), frammenti di opere sublimi riadoperati con ispirata delicatezza. Mentre si osserva Decision to Leave si ha come l’impressione di trovarsi di fronte a un grande affresco in movimento dove è possibile decidere cosa guardare. Coinvolti nella sua pazzia possiamo fruirlo e comprenderlo sotto molteplici punti di vista. E come ipnotizzati dal vortice che inghiotte la sua protagonista, rimaniamo annichiliti sulla poltrona del cinema cercando la verità nel baratro di un pozzo senza fondo.
Così è (se vi pare),
recensione di Alberto de Carolis Villars
RV-08
10.02.2023
Oramai non vi sono più dubbi nell’affermare che Park Chan-wook sia un maestro dei nostri giorni. Da Joint Security Area (2000) alla cosiddetta “trilogia della vendetta” - composta da Mr. Vendetta (2002), Old Boy (2003) e Lady Vendetta (2005) - da Thirst (2009) all’incursione americana di Stoker (2013), fino ad arrivare a Mademoiselle (2016), il regista coreano ha sempre descritto un mondo ambiguo e dalla natura mutevole, nel quale la realtà non sembra far capo a un’unica interpretazione ma - come ci insegna la lezione di Kurosawa nel capolavoro Rashomon (1950) - a molteplici, e mutevoli, verità. Questa sorta di file rouge che in un modo o in un altro attraversa tutta la filmografia dell’autore trova in Decision to Leave il suo totale, e decisivo, compimento. L’ultimo lavoro di Park Chan-wook, premiato lo scorso maggio al Festival di Cannes 2022 con il Prix de la mise en scène (premio alla miglior regia) è di fatto un rebus senza soluzione, un labirinto mentale dove i protagonisti si avventurano perdendo loro stessi, un’assurda e struggente canzone d’amore che, non trovando mai una fine, continua la sua melodia all’infinito.
La trama presenta tutti gli elementi di una perfetta crime story: una serie di omicidi intricati, un investigatore brillante le cui certezze vengono pian piano messe in discussione e una dark lady misteriosa e perturbante. Ma la verità sembra essere un'altra: con il progressivo avanzamento del plot, l'ossessiva attenzione che Park Chan-wook posa sui suoi due protagonisti - unici focus di un'azione intorno alla quale orbitano una serie di personaggi minori - insinuerà sempre più nella mente dello spettatore il dubbio che, forse, lo scopo del regista sia quello di raccontarci altro. Più ci si inoltra negli ingranaggi della storia e più si comprenderà che il fine dell’opera non è arrivare a una reale risoluzione degli avvenimenti, ma alla descrizione di un amore folle, complesso e disperato. Decision to Leave è quindi un melodramma oscuro con delle spiccate caratteristiche da noir, una love story dove la tragedia incombe minacciosa a ogni angolo, un pirandelliano gioco delle parti che si interroga, per tutta la sua durata, sulla reale natura dei sentimenti umani.
Attraverso un linguaggio poetico e un sopito umorismo grottesco, Park Chan-wook dimostra ancora una volta la sua preziosa capacità di narrare una storia su più livelli. Per mezzo di una stratificata elaborazione della trama, il cineasta muta ogni elemento narrativo in metafora - la montagna dell’omicidio, le coste tempestose del finale - regalandoci un’ibridazione costante dei generi e incorniciando il tutto con una regia attenta e calibrata, virtuosa ma mai compiaciuta, penetrante e sinuosa. Si potrebbe quasi dichiarare che il regista abbia concepito un nuovo genere cinematografico, un genere fatto di cambi repentini di tono e situazioni impenetrabili.
Da autore colto e raffinato qual è, Park Chan-wook non si tira indietro neanche nei giochi citazionisti: per un occhio attento non sarà poi così difficile scovare tutte quelle caratteristiche tipiche delle grandi storie d’amore e morte che hanno da sempre abitato la storia del cinema. Nella dinamica dell’uomo che insegue la donna amata senza mai riuscire realmente a coronare la sua ossessione erotico-sentimentale, sembrano infatti echeggiare le atmosfere di capolavori oscuri quali Vertigo (1958) o Double Indemnity (1944), frammenti di opere sublimi riadoperati con ispirata delicatezza. Mentre si osserva Decision to Leave si ha come l’impressione di trovarsi di fronte a un grande affresco in movimento dove è possibile decidere cosa guardare. Coinvolti nella sua pazzia possiamo fruirlo e comprenderlo sotto molteplici punti di vista. E come ipnotizzati dal vortice che inghiotte la sua protagonista, rimaniamo annichiliti sulla poltrona del cinema cercando la verità nel baratro di un pozzo senza fondo.