Berlinale 74 - La fine di un'odissea coloniale,
recensione di Cecilia Parini
RV-52
05.03.2024
La 74a edizione della Berlinale si è conclusa con la vittoria di una delle migliori registe emergenti degli ultimi anni. Mati Diop, cineasta franco-senegalese, aveva già dimostrato un grande talento con Atlantique, film d’esordio che, nel 2019, la portò a vincere il Gran Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes. Quest’anno Diop si è presentata a Berlino con il suo secondo lungometraggio, nel quale abbandona il mondo della fiction per immergersi nel cinema documentaristico, mantenendo però uno spunto narrativo interessante e per nulla scontato.
Con Dahomey la regista si fa narratrice omerica di un racconto epico. Non a caso infatti la struttura della storia sembra proprio guardare al viaggio che Odisseo compì per tornare alla sua amata Itaca. I protagonisti di questa pellicola, però, non sono quei leggendari eroi o soldati greci che vagarono per dieci anni nel Mediterraneo, ma opere e manufatti storici che furono strappati dalla loro terra natia per finire tra le mura di un museo francese durante gli anni del Colonialismo.
L’idea del film nacque nel 2019, quando il presidente francese Emmanuel Macron annunciò l’intenzione di restituire le opere rubate durante l’impero coloniale iniziando da dei manufatti saccheggiati intorno al 1892 nel “Regno di Dahomey”, oggi conosciuto come Repubblica di Benin. Inizialmente Diop, credendo che l’operazione di restituzione sarebbe durata, tra negoziati e accordi, tra i venti e i trent’anni, progettò di raccontare questi fatti attraverso un lungometraggio di finzione, non potendo minimamente immaginare che la realtà avrebbe poi superato di gran lunga la sua fantasia. Infatti, già nel 2021, vennero selezionate ventisei opere, sulle settemila trafugate, che avrebbero fatto ritorno in Africa.
Mati Diop decide quindi di optare per la formula documentaria, seguendo il viaggio a ritroso delle opere e presentando un importante elemento di fiction che, invece di togliere autenticità alla storia, contribuisce a sottolinearne l’enorme potenza. Difatti, a raccontarci il rientro dei manufatti del Regno di Dahomey, non sono esclusivamente le immagini – catturate attraverso la camera fissa come finestre sul mondo museale, o riprese a mano libera in modo da richiamare i movimenti degli addetti ai lavori mentre imballano le opere – ma anche, e soprattutto, un protagonista d’eccezione; a dare letteralmente voce a queste opere è proprio la statua del leggendario Re Glele, decimo sovrano del Dahomey, figura che ci invita all’ascolto della sua travagliata storia, a partire dal viaggio in direzione di un paese straniero verso un esilio senza mai fine. Oltre a sentirne la voce, profonda e lontana, è come se Diop ci mostrasse il ritorno del monarca attraverso delle soggettive del suo stesso sguardo, che dall'oscurità della cassa in legno si apre verso la luce del suo regno perduto.
Il film, tuttavia, non vuole soffermarsi esclusivamente sul viaggio, ma catturare anche l’essenza del rientro a casa: dalla festa di accoglienza di un’intera popolazione che esulta davanti al ritorno di oggetti appartenenti alla propria cultura, fino a una conferenza portata avanti da giovani che discutono non solo dell’importanza storica della restituzione, ma anche dell’atto politico che l’accompagna e dell’esigenza di riappropriarsi al più presto di altre opere rubate.
Attraverso il peculiare punto di vista di Diop, assistiamo all’apertura del museo che conserverà i manufatti, un luogo dove per la prima volta persone di ogni età si interfacciano con la propria storia entrando in contatto con oggetti che i loro antenati avevano fabbricato e venerato. La regista francese coglie perfettamente l’emozione negli occhi dei visitatori, creando una sequenza di ritratti da brividi, grazie alla quale possiamo scorgere vari frammenti di realtà umane: da dei bambini rapiti dalla bellezza delle statue, fino a un uomo che, davanti a una delle sculture esposte, inizia a cantare con trasporto una canzone popolare.
Se già le sole immagini si rivelano all’altezza di trasmettere l’importanza e la solennità di questo momento storico e politico, sono soprattutto le parole che escono dalle bocche dei giovani durante la conferenza che riescono a farci comprendere cosa significhi riappropriarsi della propria cultura. Le ventisei opere tornate a Benin, infatti, non sono solo sculture in legno o oggetti funebri di metallo, ma rappresentano un trascorso, una civiltà, una memoria collettiva troppo a lungo negata.
Tramite il suo documentario, Mati Diop riesce con una semplicità infinita a trasmettere due messaggi dall’immensa portata: l’importanza di riconnettersi con il proprio passato per poter costruire un futuro migliore e consapevole, e la denuncia rivolta ai musei europei che ancora oggi detengono opere rubate, privando interi Paesi della loro memoria storico-artistica.
Berlinale 74 - La fine di un'odissea coloniale,
recensione di Cecilia Parini
RV-52
05.03.2024
La 74a edizione della Berlinale si è conclusa con la vittoria di una delle migliori registe emergenti degli ultimi anni. Mati Diop, cineasta franco-senegalese, aveva già dimostrato un grande talento con Atlantique, film d’esordio che, nel 2019, la portò a vincere il Gran Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes. Quest’anno Diop si è presentata a Berlino con il suo secondo lungometraggio, nel quale abbandona il mondo della fiction per immergersi nel cinema documentaristico, mantenendo però uno spunto narrativo interessante e per nulla scontato.
Con Dahomey la regista si fa narratrice omerica di un racconto epico. Non a caso infatti la struttura della storia sembra proprio guardare al viaggio che Odisseo compì per tornare alla sua amata Itaca. I protagonisti di questa pellicola, però, non sono quei leggendari eroi o soldati greci che vagarono per dieci anni nel Mediterraneo, ma opere e manufatti storici che furono strappati dalla loro terra natia per finire tra le mura di un museo francese durante gli anni del Colonialismo.
L’idea del film nacque nel 2019, quando il presidente francese Emmanuel Macron annunciò l’intenzione di restituire le opere rubate durante l’impero coloniale iniziando da dei manufatti saccheggiati intorno al 1892 nel “Regno di Dahomey”, oggi conosciuto come Repubblica di Benin. Inizialmente Diop, credendo che l’operazione di restituzione sarebbe durata, tra negoziati e accordi, tra i venti e i trent’anni, progettò di raccontare questi fatti attraverso un lungometraggio di finzione, non potendo minimamente immaginare che la realtà avrebbe poi superato di gran lunga la sua fantasia. Infatti, già nel 2021, vennero selezionate ventisei opere, sulle settemila trafugate, che avrebbero fatto ritorno in Africa.
Mati Diop decide quindi di optare per la formula documentaria, seguendo il viaggio a ritroso delle opere e presentando un importante elemento di fiction che, invece di togliere autenticità alla storia, contribuisce a sottolinearne l’enorme potenza. Difatti, a raccontarci il rientro dei manufatti del Regno di Dahomey, non sono esclusivamente le immagini – catturate attraverso la camera fissa come finestre sul mondo museale, o riprese a mano libera in modo da richiamare i movimenti degli addetti ai lavori mentre imballano le opere – ma anche, e soprattutto, un protagonista d’eccezione; a dare letteralmente voce a queste opere è proprio la statua del leggendario Re Glele, decimo sovrano del Dahomey, figura che ci invita all’ascolto della sua travagliata storia, a partire dal viaggio in direzione di un paese straniero verso un esilio senza mai fine. Oltre a sentirne la voce, profonda e lontana, è come se Diop ci mostrasse il ritorno del monarca attraverso delle soggettive del suo stesso sguardo, che dall'oscurità della cassa in legno si apre verso la luce del suo regno perduto.
Il film, tuttavia, non vuole soffermarsi esclusivamente sul viaggio, ma catturare anche l’essenza del rientro a casa: dalla festa di accoglienza di un’intera popolazione che esulta davanti al ritorno di oggetti appartenenti alla propria cultura, fino a una conferenza portata avanti da giovani che discutono non solo dell’importanza storica della restituzione, ma anche dell’atto politico che l’accompagna e dell’esigenza di riappropriarsi al più presto di altre opere rubate.
Attraverso il peculiare punto di vista di Diop, assistiamo all’apertura del museo che conserverà i manufatti, un luogo dove per la prima volta persone di ogni età si interfacciano con la propria storia entrando in contatto con oggetti che i loro antenati avevano fabbricato e venerato. La regista francese coglie perfettamente l’emozione negli occhi dei visitatori, creando una sequenza di ritratti da brividi, grazie alla quale possiamo scorgere vari frammenti di realtà umane: da dei bambini rapiti dalla bellezza delle statue, fino a un uomo che, davanti a una delle sculture esposte, inizia a cantare con trasporto una canzone popolare.
Se già le sole immagini si rivelano all’altezza di trasmettere l’importanza e la solennità di questo momento storico e politico, sono soprattutto le parole che escono dalle bocche dei giovani durante la conferenza che riescono a farci comprendere cosa significhi riappropriarsi della propria cultura. Le ventisei opere tornate a Benin, infatti, non sono solo sculture in legno o oggetti funebri di metallo, ma rappresentano un trascorso, una civiltà, una memoria collettiva troppo a lungo negata.
Tramite il suo documentario, Mati Diop riesce con una semplicità infinita a trasmettere due messaggi dall’immensa portata: l’importanza di riconnettersi con il proprio passato per poter costruire un futuro migliore e consapevole, e la denuncia rivolta ai musei europei che ancora oggi detengono opere rubate, privando interi Paesi della loro memoria storico-artistica.