Predatori e prede,
recensione di Francesco Sellitti
RV-100
13.04.2025
È possibile definire la forma delle nuvole? Ognuno ci prova a suo modo, interpretando quei nembi fluttuanti in base alla propria sensibilità… un po' come accade per l’ultimo film di Kiyoshi Kurosawa, Cloud (2024). Proprio come le nuvole, è difficile definire quale sia la forma di Cloud, il suo genere di appartenenza: c’è chi dice thriller, chi dice dramma, chi persino horror o azione, ma un’opera come Cloud, esattamente come le nuvole, sfugge ad ogni tentativo di razionalizzazione e proprio in questo trova la sua essenza.
La storia è semplicissima: un giovane bagarino informatico, Ryōsuke Yoshii (Masaki Suda), gestisce il proprio business di reselling senza alcuno scrupolo, fino a quando un gruppo di suoi ex acquirenti, vittime di frode da parte di Yoshii, decidono di attuare contro di lui una spedizione punitiva. Parrebbe dunque un tipico revenge movie che reinterpreta gli stilemi dell’horror slasher e home invasion, recuperando elementi come la maschera di sacco bianco, indossato da uno degli aggressori, che facilmente rimanda all’immaginario di film come The Strangers (2008) o La città che aveva paura (The Town That Dreaded Sundown, 1976). Se c’è una cosa alla quale però Kurosawa ci ha abituati è che lui non è in grado di effettuare reinterpretazioni elementari, e Cloud non fa eccezione.
Con una struttura definibile in due atti che, come il recente Saw X (2023), dividono il film in una placida prima metà e una turbolenta seconda metà, Cloud riesce a sovvertire in continuazione le aspettative dello spettatore, sia in termini di genere sia di empatia con i protagonisti. Nella prima parte del film, infatti, Yoshii viene presentato come un giovane senza scrupoli, interessato solamente al proprio guadagno e pronto per questo anche ad agire contro la legge vendendo prodotti contraffatti. Viene inoltre illustrato il suo rapporto con la fidanzata Akiko (Kotone Furukawa), una ragazza piena di entusiasmo e pronta a sostenere Yoshii nel suo lavoro… purché continui a guadagnare sempre di più. Il rapporto umano tra i due è freddo, quasi mai fisico, in quanto per Yoshii l’unico obiettivo è il denaro, mentre la fidanzata non è dissimile da una delle tante action figure che acquista e rivende: una bella bambolina da tenere sotto una campana di vetro.
Nella seconda parte, invece, la prospettiva si ribalta: alcuni ex clienti e fornitori di Yoshii, caduti in disgrazia a causa sua, si organizzano per trovare l’uomo, torturarlo e ucciderlo, trasformando così quello che prima era un predatore virtuale in una preda reale. Attraverso una dinamica simile a quella che Kubrick adoperò in A Clockwork Orange (Arancia Meccanica, 1971) con il personaggio di Alex DeLarge, anche lo spettatore che più di tutti aveva potuto aver in antipatia Yoshii si trova costretto a parteggiare per lui dinanzi all’efferatezza dei suoi aggressori, e la citazione kubrickiana non è peregrina: infatti, mentre Yoshii si nasconde in un capanno, uno degli uomini ne spacca la porta di legno con un'accetta allo stesso modo, e con la stessa messa in quadro, di Jack Torrance in Shining (1980).
Per tornare invece alla questione dei generi, quello che prima poteva sembrare un semplice dramma diventa nella seconda metà un tripudio di differenti stili che si alternano in un vortice emotivo che travolge lo spettatore: dall’home invasion al thriller, dall’action al revenge fino al noir senza soluzione di continuità… e il tutto, spesso, sotto la luce del sole. La violenza raccontata in Cloud non teme di mostrarsi in tutta la sua cruda banalità e lo fa attraverso una serie di aggressioni perpetrate anche in spazi aperti in pieno giorno, in cui chiunque potrebbe assistere alle gesta criminali. È un tipo di violenza che utilizza il buio per praticità ma che non ha paura di niente e di nessuno, succube solamente di un’accecante sete di sangue.
Attraverso la tipica fotografia di Kurosawa, caratterizzata da un frequente e sapiente uso di long take e colori neutri, Cloud presenta una narrazione in cui non esiste una distinzione tra personaggi positivi e negativi, tra buoni e cattivi, ma in cui ogni figura raccontata, posta in determinate condizioni, può trasformarsi in uno spietato prevaricatore. Chissà, probabilmente il buon filosofo Thomas Hobbes avrebbe apprezzato questa pellicola.
Predatori e prede,
recensione di Francesco Sellitti
RV-100
13.04.2025
È possibile definire la forma delle nuvole? Ognuno ci prova a suo modo, interpretando quei nembi fluttuanti in base alla propria sensibilità… un po' come accade per l’ultimo film di Kiyoshi Kurosawa, Cloud (2024). Proprio come le nuvole, è difficile definire quale sia la forma di Cloud, il suo genere di appartenenza: c’è chi dice thriller, chi dice dramma, chi persino horror o azione, ma un’opera come Cloud, esattamente come le nuvole, sfugge ad ogni tentativo di razionalizzazione e proprio in questo trova la sua essenza.
La storia è semplicissima: un giovane bagarino informatico, Ryōsuke Yoshii (Masaki Suda), gestisce il proprio business di reselling senza alcuno scrupolo, fino a quando un gruppo di suoi ex acquirenti, vittime di frode da parte di Yoshii, decidono di attuare contro di lui una spedizione punitiva. Parrebbe dunque un tipico revenge movie che reinterpreta gli stilemi dell’horror slasher e home invasion, recuperando elementi come la maschera di sacco bianco, indossato da uno degli aggressori, che facilmente rimanda all’immaginario di film come The Strangers (2008) o La città che aveva paura (The Town That Dreaded Sundown, 1976). Se c’è una cosa alla quale però Kurosawa ci ha abituati è che lui non è in grado di effettuare reinterpretazioni elementari, e Cloud non fa eccezione.
Con una struttura definibile in due atti che, come il recente Saw X (2023), dividono il film in una placida prima metà e una turbolenta seconda metà, Cloud riesce a sovvertire in continuazione le aspettative dello spettatore, sia in termini di genere sia di empatia con i protagonisti. Nella prima parte del film, infatti, Yoshii viene presentato come un giovane senza scrupoli, interessato solamente al proprio guadagno e pronto per questo anche ad agire contro la legge vendendo prodotti contraffatti. Viene inoltre illustrato il suo rapporto con la fidanzata Akiko (Kotone Furukawa), una ragazza piena di entusiasmo e pronta a sostenere Yoshii nel suo lavoro… purché continui a guadagnare sempre di più. Il rapporto umano tra i due è freddo, quasi mai fisico, in quanto per Yoshii l’unico obiettivo è il denaro, mentre la fidanzata non è dissimile da una delle tante action figure che acquista e rivende: una bella bambolina da tenere sotto una campana di vetro.
Nella seconda parte, invece, la prospettiva si ribalta: alcuni ex clienti e fornitori di Yoshii, caduti in disgrazia a causa sua, si organizzano per trovare l’uomo, torturarlo e ucciderlo, trasformando così quello che prima era un predatore virtuale in una preda reale. Attraverso una dinamica simile a quella che Kubrick adoperò in A Clockwork Orange (Arancia Meccanica, 1971) con il personaggio di Alex DeLarge, anche lo spettatore che più di tutti aveva potuto aver in antipatia Yoshii si trova costretto a parteggiare per lui dinanzi all’efferatezza dei suoi aggressori, e la citazione kubrickiana non è peregrina: infatti, mentre Yoshii si nasconde in un capanno, uno degli uomini ne spacca la porta di legno con un'accetta allo stesso modo, e con la stessa messa in quadro, di Jack Torrance in Shining (1980).
Per tornare invece alla questione dei generi, quello che prima poteva sembrare un semplice dramma diventa nella seconda metà un tripudio di differenti stili che si alternano in un vortice emotivo che travolge lo spettatore: dall’home invasion al thriller, dall’action al revenge fino al noir senza soluzione di continuità… e il tutto, spesso, sotto la luce del sole. La violenza raccontata in Cloud non teme di mostrarsi in tutta la sua cruda banalità e lo fa attraverso una serie di aggressioni perpetrate anche in spazi aperti in pieno giorno, in cui chiunque potrebbe assistere alle gesta criminali. È un tipo di violenza che utilizza il buio per praticità ma che non ha paura di niente e di nessuno, succube solamente di un’accecante sete di sangue.
Attraverso la tipica fotografia di Kurosawa, caratterizzata da un frequente e sapiente uso di long take e colori neutri, Cloud presenta una narrazione in cui non esiste una distinzione tra personaggi positivi e negativi, tra buoni e cattivi, ma in cui ogni figura raccontata, posta in determinate condizioni, può trasformarsi in uno spietato prevaricatore. Chissà, probabilmente il buon filosofo Thomas Hobbes avrebbe apprezzato questa pellicola.