I confini di un abbraccio,
recensione di Matteo Bonfiglioli
RV-06
13.01.2023
Incontriamo i tredicenni Leo (Eden Dambrine) e Remi (Gustav de Waele) nel buio di un anfratto nascosto nella campagna belga. Si divertono e si provocano, gridano minacce invisibili, si celano allo sguardo di nemici che non esistono. È un’ambientazione enigmatica, sia aperta che soffocante, raccolta ma con vie di fuga. Insulare, rupestre, incerta, questa prima scena definisce al meglio il loro legame senza definizione, tanto stretto e simbiotico da sembrare originario. Leo e Remi vivono un rapporto di dualità puro e innocente che, davanti allo sguardo della giovane collettività scolastica, urgerà di una definizione, un nome, un confine netto che li identifichi come amici, amanti, fratelli o altro.
In Close, Lukas Dhont coglie la preadolescenza come momento interstiziale ed emblematico di una vita, nel quale il bambino si incontra con il mondo, il gioco con il lavoro e la scuola, la libertà dei sentimenti con la necessità di un nome che li identifichi e, in questo caso, li snaturi. Come nello stupendo Girl (2018), la messa in discussione della propria identità parte da una giovane, ingenua eppure letale comunità che spinge Leo a non accettare ciò che di bello lo lega a Remi. L’ottusa richiesta di un “dirsi”, di porsi in una nomenclatura chiara e leggibile per chiunque, porta il protagonista a essere il primo a non sapersi cogliere come individuo.
Close è un racconto sull’uccisione del sogno, sulla rimozione del sentimento in favore di una normatività falsamente inclusiva. Il punctum traumatico sta proprio nel passaggio dalla natura – poi domata, recisa, resa utile – alla civiltà metropolitana. L’arcadia della compagnia belga, colta da una macchina da presa che si affanna dietro le corse scomposte e inarrestabili dei due ragazzi, si contrappone alla fissità e alla ripetizione di una scuola in cui la comunicazione si banalizza, il gioco ricerca un fine (si pensi al calcio e all’hockey) e le relazioni si devono per forza inscrivere in un recinto relazionale che svuota di senso la connessione emotiva, sia essa tra amici, fratelli, o genitori e figli.
È evidente l’influenza dello sguardo umanista dei fratelli Dardenne e soprattutto la stessa attenzione sociologica alla formazione dell’io nell’infanzia e nell’adolescenza (sembra un omaggio, ritrovare nell’ottimo cast Emilie Daquenne, la protagonista di Rosetta). Ma lo sguardo dei maestri belgi, in Dhont, sembra caricarsi di cifre ancor più intime e prossime al soggetto, insistendo su piani ravvicinati che ricordano Dolàn e che obbligano lo sguardo fuoricampo dei protagonisti alla tragica mancanza di una corrispondenza. Nei tanti piani a due della prima parte del film poi, la fotografia crea un collegamento ideale e visivo tra Leo e Remi, lavorando delicatamente sul cambio di fuoco e sulla profondità, prima che la vicenda stessa intervenga nell’appiattire il dato visivo nella seconda parte del film, isolando il suo protagonista.
Filmando l’assenza e il rimpianto, Dhont ha il merito di imporre una riflessione a uno spettatore obbligato a un posizionamento, proprio come è obbligato Leo. Anche noi avremmo provato a definire il rapporto tra lui e Remi? È inevitabile la mortificazione dell’essere al suo ingresso nel mondo? La crescita è necessariamente un sottrarsi a sé stessi, soffocare il proprio Io dentro un confine coatto? Questi concetti rendono Close un film semplice eppure denso di significato, capace di interpellare il suo tempo con un racconto realista, docile e impietoso, abbacinante e cupo allo stesso tempo, che coglie lo straziante e ineluttabile rinnovarsi delle stagioni, nonostante il dolore.
I confini di un abbraccio,
recensione di Matteo Bonfiglioli
RV-06
13.01.2023
Incontriamo i tredicenni Leo (Eden Dambrine) e Remi (Gustav de Waele) nel buio di un anfratto nascosto nella campagna belga. Si divertono e si provocano, gridano minacce invisibili, si celano allo sguardo di nemici che non esistono. È un’ambientazione enigmatica, sia aperta che soffocante, raccolta ma con vie di fuga. Insulare, rupestre, incerta, questa prima scena definisce al meglio il loro legame senza definizione, tanto stretto e simbiotico da sembrare originario. Leo e Remi vivono un rapporto di dualità puro e innocente che, davanti allo sguardo della giovane collettività scolastica, urgerà di una definizione, un nome, un confine netto che li identifichi come amici, amanti, fratelli o altro.
In Close, Lukas Dhont coglie la preadolescenza come momento interstiziale ed emblematico di una vita, nel quale il bambino si incontra con il mondo, il gioco con il lavoro e la scuola, la libertà dei sentimenti con la necessità di un nome che li identifichi e, in questo caso, li snaturi. Come nello stupendo Girl (2018), la messa in discussione della propria identità parte da una giovane, ingenua eppure letale comunità che spinge Leo a non accettare ciò che di bello lo lega a Remi. L’ottusa richiesta di un “dirsi”, di porsi in una nomenclatura chiara e leggibile per chiunque, porta il protagonista a essere il primo a non sapersi cogliere come individuo.
Close è un racconto sull’uccisione del sogno, sulla rimozione del sentimento in favore di una normatività falsamente inclusiva. Il punctum traumatico sta proprio nel passaggio dalla natura – poi domata, recisa, resa utile – alla civiltà metropolitana. L’arcadia della compagnia belga, colta da una macchina da presa che si affanna dietro le corse scomposte e inarrestabili dei due ragazzi, si contrappone alla fissità e alla ripetizione di una scuola in cui la comunicazione si banalizza, il gioco ricerca un fine (si pensi al calcio e all’hockey) e le relazioni si devono per forza inscrivere in un recinto relazionale che svuota di senso la connessione emotiva, sia essa tra amici, fratelli, o genitori e figli.
È evidente l’influenza dello sguardo umanista dei fratelli Dardenne e soprattutto la stessa attenzione sociologica alla formazione dell’io nell’infanzia e nell’adolescenza (sembra un omaggio, ritrovare nell’ottimo cast Emilie Daquenne, la protagonista di Rosetta). Ma lo sguardo dei maestri belgi, in Dhont, sembra caricarsi di cifre ancor più intime e prossime al soggetto, insistendo su piani ravvicinati che ricordano Dolàn e che obbligano lo sguardo fuoricampo dei protagonisti alla tragica mancanza di una corrispondenza. Nei tanti piani a due della prima parte del film poi, la fotografia crea un collegamento ideale e visivo tra Leo e Remi, lavorando delicatamente sul cambio di fuoco e sulla profondità, prima che la vicenda stessa intervenga nell’appiattire il dato visivo nella seconda parte del film, isolando il suo protagonista.
Filmando l’assenza e il rimpianto, Dhont ha il merito di imporre una riflessione a uno spettatore obbligato a un posizionamento, proprio come è obbligato Leo. Anche noi avremmo provato a definire il rapporto tra lui e Remi? È inevitabile la mortificazione dell’essere al suo ingresso nel mondo? La crescita è necessariamente un sottrarsi a sé stessi, soffocare il proprio Io dentro un confine coatto? Questi concetti rendono Close un film semplice eppure denso di significato, capace di interpellare il suo tempo con un racconto realista, docile e impietoso, abbacinante e cupo allo stesso tempo, che coglie lo straziante e ineluttabile rinnovarsi delle stagioni, nonostante il dolore.