I tre lati del desiderio,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-57
24.04.2024
Il triangolo amoroso è da sempre una delle forme di racconto più utilizzate da registi che si mettono alla prova con film romantici. Non tutti, però, riescono a tracciare le linee di questo genere con la stessa precisione di Luca Guadagnino, regista palermitano giunto ormai al suo ottavo lungometraggio e sempre più immerso nel panorama cinematografico statunitense e nelle sue dinamiche produttive. Il suo Challengers, infatti, doveva essere presentato come film di apertura all’80° Mostra del Cinema di Venezia, ma, a causa dello sciopero dei sindacati degli attori, si è trovato, suo malgrado, vittima di un ingorgo nei listini di distribuzione delle major.
L’uscita della pellicola al di fuori dei circuiti festivalieri non deve però farci commettere l’errore di considerare il nuovo lavoro di Guadagnino come un divertissement d’autore, un’opera minore o di transizione in attesa di film più impegnativi. Al contrario, Challengers risulta essere uno dei suoi lungometraggi più maturi, in cui il regista riesce a far convivere, sullo stesso piano, la raffinatezza stilistica che da sempre contraddistingue la sua filmografia con un’accuratezza nella scrittura dei personaggi e nella gestione dei ritmi del racconto talmente precisa da superare le sue opere più acclamate.
In un campo da tennis di provincia i tennisti Art (Mike Faist) e Patrick (Josh O’Connor) giocano una partita senza esclusione di colpi. Ad osservarli, al centro della tribuna, spicca una donna, Tashi (Zendaya), che partecipa con tutto il suo corpo alla gara. Una serie di flashback ci riporta indietro negli anni, mostrandoci come si è arrivati a quella partita e illustrandoci le cause che spingono i tre personaggi - che si conoscono fin dall’adolescenza - ad essere così tanto coinvolti da un match di così basso profilo.
Raccontare la sinossi di Challengers è semplice, così come lo è individuare quelli che sono i vertici che compongono il triangolo su cui si innesta la narrazione. A stupire, invece, è la perfezione con la quale il suo autore traccia le linee che collegano i protagonisti, descrivendo le loro ambizioni e le loro psicologie, marcando i punti di forza e di debolezza e sottolineando le aree di tensione e quelle di distensione. A sostenere il ritmo del racconto imbastito da Guadagnino assieme allo sceneggiatore Justin Kuritzkes concorrono il montaggio curato da Marco Costa, alla seconda collaborazione con il regista dopo Bones and All (2022), e la colonna sonora composta da Trent Reznor e Atticus Ross, anch’essi già coinvolti nel suo precedente film.
A nobilitare maggiormente il lavoro svolto in fase di montaggio sono le sequenze che riguardano proprio le partite di tennis, caratterizzate da un ritmo e da una varietà che donano dinamismo ad uno sport che non siamo mai stati abituati a vedere tramite questa prospettiva. La regia di Guadagnino moltiplica e frammenta i punti di osservazione sperimentando tutti i modi possibili per riprendere i vari aspetti di una partita di tennis.
Fra le diverse e ardite soluzioni formali, particolarmente interessanti sono le immagini che mostrano la pallina dirigersi in direzione della macchina da presa, e quindi dello spettatore.
A questo ingegnoso espediente visivo ne corrisponde uno narrativo: Guadagnino, infatti, imposta la scansione degli episodi delle vite dei due tennisti mantenendosi in un equilibrio perfetto, come se queste fossero una pallina che, nel corso di una partita, viene rimbalzata da una parte all’altra della rete. Chi riceve questa pallina, però, siamo noi spettatori: sempre chiamati a rinnovare il giudizio sui personaggi, i cui connotati si modificano e stratificano dopo ogni colpo. Un rapido susseguirsi di soggettive che, nelle fasi finali del film, sembra sancire la nostra impossibilità di immedesimarci completamente in uno dei due contendenti senza dover fare precedentemente i conti con l’altro.
In Challengers, chi è privato di una soggettiva è il terzo vertice del triangolo, il lato che congiunge e dà forma alla figura: Tashi. Il personaggio interpretato da Zendaya è il perno attorno a cui ruotano i due personaggi maschili. Non a caso, Tashi viene collocata in diverse sequenze - alcune già destinate a diventare iconiche - nel mezzo dell’immagine. Altre volte invece, un’inquadratura che mostra il personaggio viene posizionata al centro di due inquadrature dedicate ad Art e Patrick. Tutto passa attraverso di lei, tanto che i suoi stessi movimenti durante la partita di tennis sembrano, in diversi istanti, dettare il ritmo del montaggio. Non abbiamo bisogno di una sua soggettiva, poiché quasi tutto ciò che vediamo nel film è un’attualizzazione, un’esecuzione del suo sguardo.
Il casting di Zendaya, inoltre, è forse il primo tentativo da parte di un autore di riflettere simbolicamente sul ruolo di star che l’attrice ricopre sin dall’adolescenza. Il mancato ricorso al doppio cast per una storia che si svolge nell’arco di diversi anni concorre nel suggerirci proprio questa chiave di lettura. Tashi/Zendaya è sempre al centro del gioco, in una posizione di vertice, dall’adolescenza fino all’età adulta, nonostante il ruolo che ricopre - sia in Challengers che nei film da lei interpretati - muti nel corso del tempo. È difficile non vedere nella demiurgica figura di Tashi una proiezione del ruolo del regista. Ciò che infatti la donna pretende, e fa mettere in atto ai due uomini, è una performance che dia vita a uno spettacolo, una richiesta che può essere analoga a quella posta da un regista ai suoi attori.
Nelle ultime battute del film, si rimane sempre più coinvolti dalla sfida fra Art e Patrick. Ora che tutte le carte sono state disvelate, lo scontro si fa sempre più intenso e il pubblico è chiamato a rimanere, come gli spettatori interni del match, con il fiato sospeso. La performance ricercata e plasmata dalla regista-Tashi dà come frutto uno show mozzafiato, dal quale è impossibile non farsi coinvolgere. Un fuori campo assoluto ci nega la possibilità di sapere chi sarà il vincitore della partita. A venirci mostrato, invece, è il pubblico in delirio. Perché ciò che conta - sembra volerci dire Guadagnino - è solo lo spettacolo.
I tre lati del desiderio,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-57
24.04.2024
Il triangolo amoroso è da sempre una delle forme di racconto più utilizzate da registi che si mettono alla prova con film romantici. Non tutti, però, riescono a tracciare le linee di questo genere con la stessa precisione di Luca Guadagnino, regista palermitano giunto ormai al suo ottavo lungometraggio e sempre più immerso nel panorama cinematografico statunitense e nelle sue dinamiche produttive. Il suo Challengers, infatti, doveva essere presentato come film di apertura all’80° Mostra del Cinema di Venezia, ma, a causa dello sciopero dei sindacati degli attori, si è trovato, suo malgrado, vittima di un ingorgo nei listini di distribuzione delle major.
L’uscita della pellicola al di fuori dei circuiti festivalieri non deve però farci commettere l’errore di considerare il nuovo lavoro di Guadagnino come un divertissement d’autore, un’opera minore o di transizione in attesa di film più impegnativi. Al contrario, Challengers risulta essere uno dei suoi lungometraggi più maturi, in cui il regista riesce a far convivere, sullo stesso piano, la raffinatezza stilistica che da sempre contraddistingue la sua filmografia con un’accuratezza nella scrittura dei personaggi e nella gestione dei ritmi del racconto talmente precisa da superare le sue opere più acclamate.
In un campo da tennis di provincia i tennisti Art (Mike Faist) e Patrick (Josh O’Connor) giocano una partita senza esclusione di colpi. Ad osservarli, al centro della tribuna, spicca una donna, Tashi (Zendaya), che partecipa con tutto il suo corpo alla gara. Una serie di flashback ci riporta indietro negli anni, mostrandoci come si è arrivati a quella partita e illustrandoci le cause che spingono i tre personaggi - che si conoscono fin dall’adolescenza - ad essere così tanto coinvolti da un match di così basso profilo.
Raccontare la sinossi di Challengers è semplice, così come lo è individuare quelli che sono i vertici che compongono il triangolo su cui si innesta la narrazione. A stupire, invece, è la perfezione con la quale il suo autore traccia le linee che collegano i protagonisti, descrivendo le loro ambizioni e le loro psicologie, marcando i punti di forza e di debolezza e sottolineando le aree di tensione e quelle di distensione. A sostenere il ritmo del racconto imbastito da Guadagnino assieme allo sceneggiatore Justin Kuritzkes concorrono il montaggio curato da Marco Costa, alla seconda collaborazione con il regista dopo Bones and All (2022), e la colonna sonora composta da Trent Reznor e Atticus Ross, anch’essi già coinvolti nel suo precedente film.
A nobilitare maggiormente il lavoro svolto in fase di montaggio sono le sequenze che riguardano proprio le partite di tennis, caratterizzate da un ritmo e da una varietà che donano dinamismo ad uno sport che non siamo mai stati abituati a vedere tramite questa prospettiva. La regia di Guadagnino moltiplica e frammenta i punti di osservazione sperimentando tutti i modi possibili per riprendere i vari aspetti di una partita di tennis.
Fra le diverse e ardite soluzioni formali, particolarmente interessanti sono le immagini che mostrano la pallina dirigersi in direzione della macchina da presa, e quindi dello spettatore.
A questo ingegnoso espediente visivo ne corrisponde uno narrativo: Guadagnino, infatti, imposta la scansione degli episodi delle vite dei due tennisti mantenendosi in un equilibrio perfetto, come se queste fossero una pallina che, nel corso di una partita, viene rimbalzata da una parte all’altra della rete. Chi riceve questa pallina, però, siamo noi spettatori: sempre chiamati a rinnovare il giudizio sui personaggi, i cui connotati si modificano e stratificano dopo ogni colpo. Un rapido susseguirsi di soggettive che, nelle fasi finali del film, sembra sancire la nostra impossibilità di immedesimarci completamente in uno dei due contendenti senza dover fare precedentemente i conti con l’altro.
In Challengers, chi è privato di una soggettiva è il terzo vertice del triangolo, il lato che congiunge e dà forma alla figura: Tashi. Il personaggio interpretato da Zendaya è il perno attorno a cui ruotano i due personaggi maschili. Non a caso, Tashi viene collocata in diverse sequenze - alcune già destinate a diventare iconiche - nel mezzo dell’immagine. Altre volte invece, un’inquadratura che mostra il personaggio viene posizionata al centro di due inquadrature dedicate ad Art e Patrick. Tutto passa attraverso di lei, tanto che i suoi stessi movimenti durante la partita di tennis sembrano, in diversi istanti, dettare il ritmo del montaggio. Non abbiamo bisogno di una sua soggettiva, poiché quasi tutto ciò che vediamo nel film è un’attualizzazione, un’esecuzione del suo sguardo.
Il casting di Zendaya, inoltre, è forse il primo tentativo da parte di un autore di riflettere simbolicamente sul ruolo di star che l’attrice ricopre sin dall’adolescenza. Il mancato ricorso al doppio cast per una storia che si svolge nell’arco di diversi anni concorre nel suggerirci proprio questa chiave di lettura. Tashi/Zendaya è sempre al centro del gioco, in una posizione di vertice, dall’adolescenza fino all’età adulta, nonostante il ruolo che ricopre - sia in Challengers che nei film da lei interpretati - muti nel corso del tempo. È difficile non vedere nella demiurgica figura di Tashi una proiezione del ruolo del regista. Ciò che infatti la donna pretende, e fa mettere in atto ai due uomini, è una performance che dia vita a uno spettacolo, una richiesta che può essere analoga a quella posta da un regista ai suoi attori.
Nelle ultime battute del film, si rimane sempre più coinvolti dalla sfida fra Art e Patrick. Ora che tutte le carte sono state disvelate, lo scontro si fa sempre più intenso e il pubblico è chiamato a rimanere, come gli spettatori interni del match, con il fiato sospeso. La performance ricercata e plasmata dalla regista-Tashi dà come frutto uno show mozzafiato, dal quale è impossibile non farsi coinvolgere. Un fuori campo assoluto ci nega la possibilità di sapere chi sarà il vincitore della partita. A venirci mostrato, invece, è il pubblico in delirio. Perché ciò che conta - sembra volerci dire Guadagnino - è solo lo spettacolo.