Il mondo dell'amore non vuole mostri,
recensione di Matteo Bonfiglioli
RV-01
30.11.2022
Bones and All, “fino all’osso”, ma nella più scolastica delle traduzioni potremmo dire: “ossa e tutto il resto”. Questa traduzione letterale del titolo dell’ultima opera di Luca Guadagnino dovrebbe dirci qualcosa sulla sua capacità di unire essenzialità narrativa e opulenza espressiva, tratti scheletrici e sostanziali del vivere e modi barocchi, iperbolici, di narrarli. “Tutto il resto”, la carne umana, è ciò di cui Maren (la talentuosa Taylor Russell) si nutre per restare in vita: il tratto divisivo tra lei e la società, ma anche tra il teen drama scolastico dell’inizio e l’horror-romance dello sviluppo. Quell’istinto di sopravvivenza predatorio che la emancipa dalle mura domestiche e combacia con l’amore che la legherà a Lee (Timothée Chalamet), giovane cannibale post-punk solitario e nomade.
In questa storia la passione come nutrimento necessario, la scoperta dell’eros come fuga dal conosciuto, l’unione con l’altro come dominante esistenziale delineano una riflessione che guarda ancora una volta all’amore come qualcosa di elettivo e formativo. L’eco dei racconti amorosi di Ivory e ancor prima di Forster rimane intatto, anche se quasi assottigliato nella resa narrativa. Passione e ordine, eros e forma sono ancora in lotta, ma qui Guadagnino innesta i toni classici del romance in una cornice emarginata post-urbana che, irradiata di toni new wave crepuscolari, stacca l’individuo dalla civiltà. L’amore rimane una fuga dal nido, una profanazione dei tragitti preimpostati dalla società, ma in Bones and All la scoperta dell’altro e quindi di sé avviene attraverso una rappresentazione iperbolica e orrorifica del desiderio.
Come in molta della filmografia di François Ozon (Sitcom, Amanti criminali, Estate ‘85), la prima esperienza amorosa è anche prima esperienza di morte. Esercitare l’amore, mantenere vivo il proprio corpo insieme a quello dell’amato, non può prescindere dall’annientamento di qualsiasi altro corpo. Doloroso, eremitico, dilaniante, l’amore con Lee svelerà a Maren la natura cannibale del mondo, lasciandola tra desiderio e paura, meló e slasher movie. Ossa e tutto il resto, scheletro e carne, morte e ciò che ci consente di restare vivi: Bones and All parla della sostanza indistricabile di cui è fatto l’essere umano, della vertigine tra amore e predazione, tra sublime e perversione. Non è un caso se appare come un film scorticato, ferito, ellittico, sezionato in stile e racconto, freddo nel dipanare gli eventi e i generi (body-horror, splatter-pulp, teen drama e infine road movie). I due giovani e laconici protagonisti rimangono i controcampi di una desertificazione collettiva in cui la società è assente, compressa negli archetipi anni Ottanta del pigiama party, del supermarket, della pompa di benzina, della wilderness del midwest americano.
Come Elio (Chiamami col tuo nome), Fraser e Caitlin (We Are Who We Are), Maren fugge dalla sua “camera con vista”, ma si ritrova costretta a fare i conti con un mondo opaco e distante, prefabbricato e rarefatto, inquietante (come l’ottimo Mark Rylance), colto in zoom stranianti che lo avvicinano alla natura morta. “Il mondo dell’amore non vuole mostri” dirà un rigurgito del passato. Quegli stessi mostri che saranno magneticamente condotti a unirsi da una passione viscerale, vorace, cannibale appunto, la quale da una parte rischia di sublimare e irretire l’animalità in pura metafora e dall’altra orizzonta un racconto inedito, in cui orrore ed estasi trovano una definitiva, commovente sintesi.
Bones and All fugge e si nasconde come i suoi protagonisti, sfiorando più volte il rischio di apparire metaforico, sublimato, separato dal mondo. Ma con il procedere della narrazione capiamo come sia proprio questa distanza il tratto fondativo della passione più palpitante tra due esseri umani. È per questo che l’ultima opera di Guadagnino, pur non eguagliando il languore avvolgente di Chiamami col tuo nome e la compattezza narrativa di A Bigger Splash, rimane la sua operazione più ardita, virtuosamente incosciente e obliqua nel narrare l’amore e la morte al cinema.
Il mondo dell'amore non vuole mostri,
recensione di Matteo Bonfiglioli
RV-01
30.11.2022
Bones and All, “fino all’osso”, ma nella più scolastica delle traduzioni potremmo dire: “ossa e tutto il resto”. Questa traduzione letterale del titolo dell’ultima opera di Luca Guadagnino dovrebbe dirci qualcosa sulla sua capacità di unire essenzialità narrativa e opulenza espressiva, tratti scheletrici e sostanziali del vivere e modi barocchi, iperbolici, di narrarli. “Tutto il resto”, la carne umana, è ciò di cui Maren (la talentuosa Taylor Russell) si nutre per restare in vita: il tratto divisivo tra lei e la società, ma anche tra il teen drama scolastico dell’inizio e l’horror-romance dello sviluppo. Quell’istinto di sopravvivenza predatorio che la emancipa dalle mura domestiche e combacia con l’amore che la legherà a Lee (Timothée Chalamet), giovane cannibale post-punk solitario e nomade.
In questa storia la passione come nutrimento necessario, la scoperta dell’eros come fuga dal conosciuto, l’unione con l’altro come dominante esistenziale delineano una riflessione che guarda ancora una volta all’amore come qualcosa di elettivo e formativo. L’eco dei racconti amorosi di Ivory e ancor prima di Forster rimane intatto, anche se quasi assottigliato nella resa narrativa. Passione e ordine, eros e forma sono ancora in lotta, ma qui Guadagnino innesta i toni classici del romance in una cornice emarginata post-urbana che, irradiata di toni new wave crepuscolari, stacca l’individuo dalla civiltà. L’amore rimane una fuga dal nido, una profanazione dei tragitti preimpostati dalla società, ma in Bones and All la scoperta dell’altro e quindi di sé avviene attraverso una rappresentazione iperbolica e orrorifica del desiderio.
Come in molta della filmografia di François Ozon (Sitcom, Amanti criminali, Estate ‘85), la prima esperienza amorosa è anche prima esperienza di morte. Esercitare l’amore, mantenere vivo il proprio corpo insieme a quello dell’amato, non può prescindere dall’annientamento di qualsiasi altro corpo. Doloroso, eremitico, dilaniante, l’amore con Lee svelerà a Maren la natura cannibale del mondo, lasciandola tra desiderio e paura, meló e slasher movie. Ossa e tutto il resto, scheletro e carne, morte e ciò che ci consente di restare vivi: Bones and All parla della sostanza indistricabile di cui è fatto l’essere umano, della vertigine tra amore e predazione, tra sublime e perversione. Non è un caso se appare come un film scorticato, ferito, ellittico, sezionato in stile e racconto, freddo nel dipanare gli eventi e i generi (body-horror, splatter-pulp, teen drama e infine road movie). I due giovani e laconici protagonisti rimangono i controcampi di una desertificazione collettiva in cui la società è assente, compressa negli archetipi anni Ottanta del pigiama party, del supermarket, della pompa di benzina, della wilderness del midwest americano.
Come Elio (Chiamami col tuo nome), Fraser e Caitlin (We Are Who We Are), Maren fugge dalla sua “camera con vista”, ma si ritrova costretta a fare i conti con un mondo opaco e distante, prefabbricato e rarefatto, inquietante (come l’ottimo Mark Rylance), colto in zoom stranianti che lo avvicinano alla natura morta. “Il mondo dell’amore non vuole mostri” dirà un rigurgito del passato. Quegli stessi mostri che saranno magneticamente condotti a unirsi da una passione viscerale, vorace, cannibale appunto, la quale da una parte rischia di sublimare e irretire l’animalità in pura metafora e dall’altra orizzonta un racconto inedito, in cui orrore ed estasi trovano una definitiva, commovente sintesi.
Bones and All fugge e si nasconde come i suoi protagonisti, sfiorando più volte il rischio di apparire metaforico, sublimato, separato dal mondo. Ma con il procedere della narrazione capiamo come sia proprio questa distanza il tratto fondativo della passione più palpitante tra due esseri umani. È per questo che l’ultima opera di Guadagnino, pur non eguagliando il languore avvolgente di Chiamami col tuo nome e la compattezza narrativa di A Bigger Splash, rimane la sua operazione più ardita, virtuosamente incosciente e obliqua nel narrare l’amore e la morte al cinema.