Un racconto di guerra,
recensione di Omar Franini
RV-78
21.11.2024
“Demolished.” Il suono isolato e alquanto automatizzato di questa parola ha contraddistinto l’intera durata di Occupied City (2023), il penultimo progetto cinematografico di Steve McQueen. Adattato dal libro Atlas of an Occupied City, Amsterdam 1940-1945 di Bianca Stiger (moglie di McQueen), il documentario si prestava ad essere per lo più un saggio artistico nel quale il cineasta britannico rendeva omaggio alla Capitale olandese (luogo in cui sta vivendo ormai da alcuni anni) e, nello stesso tempo, esplorava le atrocità dell’occupazione nazista durante la Seconda Guerra Mondiale. Per compiere questa operazione, McQueen operava una vera e propria mappatura della città, ponendo enfasi su svariati edifici e costruzioni architettoniche e raccontando storie legate alla resilienza e allo spirito di comunità delle persone che hanno vissuto quel preciso periodo storico. Le immagini mostrate dal regista all’interno di Occupied City erano però quelle dell'odierna Amsterdam e, alla fine di ogni”vignetta”, era possibile scoprire, proprio tramite la voce narrante che pronunciava la parola“demolished”, se gli attuali edifici mostrati nella pellicola corrispondessero a quelli del passato o se fosse stato necessario edificarne altri. La “demolizione” letterale non viene mai mostrata dal regista, ma solo immaginata tramite la parola.
In Blitz - il nuovo lungometraggio di Steve McQueen che sarà disponibile su Apple TV+ a partire da domani, 22 novembre - avviene esattamente il contrario: la demolizione diviene il punto focale del film e, più in particolare, della sua ouverture.
Londra, settembre 1940. La città inglese è divenuta l’epicentro degli attacchi aerei nazisti, ed è appena iniziato il “blitz”, un termine, derivante dalla parola tedesca blitzkrieg (guerra lampo), coniato dalla stampa britannica dell’epoca per sottolineare il periodo di forte assedio, dove più di un milione di persone furono costrette ad evacuare dalla Capitale per rifugiarsi nelle campagne circostanti. Con un inizio in medias res, McQueen catapulta lo spettatore in prima persona all’interno degli orrori della guerra; gli edifici sono stati abbattuti, incendi vari si trovano ad ogni vicolo e ci sono pochi soccorsi. Un paio di giovani pompieri cercano di fare il possibile per controllare il fuoco e cercare di salvare l’insalvabile, ignari dell’imminente disgrazia, l’ennesimo bombardamento aereo.
Invece di mostrare l’impatto e la catastrofe imminente, lo schermo rivela dei glitch continui in bianco e nero, a cui si contrappone un’immagine con dei fiori, chiara raffigurazione nostalgica di tempi più rosei e, contemporanemente, simbolo di speranza per il futuro. A questa fa seguito una dolce sinfonia emessa da un pianoforte che introduce allo spettatore i protagonisti della storia: Rita (Saoirse Ronan) e suo figlio di nove anni George (Elliott Heffernan). I due saranno ben presto costretti a separarsi, poichè Rita ha preso la decisione di allontanare il figlio dalla città per metterlo al riparo.
Prima del lungometraggio di Steve McQueen, uno dei film più significativi riguardo al periodo storico del blitz era stato Hope and Glory ( Anni ‘40, 1987), un lavoro autobiografico firmato da John Boorman. È infatti estremamente affascinante notare come la pellicola sia stata omaggiata più volte da McQueen, non soltanto per la scelta di adottare un punto di vista fanciullesco sulla vicenda, ma anche per il cambio stilistico, tra bianco e nero e colore, presente in apertura e, infine, tramite la struggente sequenza della stazione ferroviaria, dove le figure materne (come era per la pellicola di Boorman) si disperano osservando il disappunto nei volti dei figli in partenza. Se però il lungometraggio di John Boorman fungeva come un memoir nel quale il cineasta attingeva dai propri ricordi, lo stesso non si può dire di Blitz, che non prende spunto da una particolare vicenda biografica bensì da una fotografia, trovata dallo stesso McQueen, di un bambino di colore ritratto con un'enorme valigia risalente al 1940. Il cineasta ha iniziato a chiedersi quale potesse essere la storia dietro a quel ragazzino e, sulla base di questo spunto, ha ideato l’elemento narrativo portante della pellicola: il giovane George si ribella durante il viaggio in treno e riesce a scappare con l’intento di ricongiungersi con Rita.
Il personaggio dovrà così affrontare una vera e propria odissea, non solo per via del clima ostile determinato dalla guerra, ma soprattutto perché verrà esposto alla dura realtà razziale dell’epoca. Fino a quel momento George - che non ha mai avuto l’opportunità di conoscere il padre, ingiustamente deportato anni prima dopo essere stato accusato di un attacco a due uomini bianchi - è rimasto quasi “immune” da questa problematica grazie alla protezione della madre e del nonno Gerald (Paul Weller).
Tramite un approccio che richiama il realismo inglese di Charles Dickens, l’opera evita abilmente di straripare nel melodramma concentrandosi sulla minuziosa ricostruzione dell’epoca storica, dei luoghi della città e dello spirito delle persone che hanno vissuto lì, in quel preciso momento. McQueen e il direttore della fotografia Yorick Le Saux mostrano infatti di prediligere, per lo più, lunghi piani sequenza, come se la camera stessa volesse riflettere lo sguardo spaesato e curioso del protagonista alla scoperta di nuovi luoghi. Durante questo “viaggio”, George incontrerà diverse figure che lo metteranno di fronte alla dura realtà del periodo. Tra questi incontri spicca quello con una banda di criminali che ruba gioielli dai corpi delle persone decedute durante i raid e rovista negli edifici abbandonati, una dinamica interna che rievoca fortemente le atmosfere del romanzo Oliver Twist, soprattutto grazie alla presenza di Stephen Graham nei panni di Albert, una versione maggiormente grottesca di Fagin, antagonista di spicco dell’opera di Dickens.
L’influenza negativa e traumatica di determinate esperienze viene però bilanciata da incontri più benevoli, come quello con la guardia nigeriana Ife (Benjamin Clémentine), che si prenderà cura del giovane nel corso della prima sera e lo porterà con sé durante i suoi controlli di routine. Inoltre, tramite le loro conversazioni, George inizierà ad acquisire una maggiore consapevolezza della propria identità culturale. Il personaggio di Ife, come quello di Rita, permette al regista di analizzare lo stato di una Nazione, esemplificativa in questo senso è proprio la sequenza dove Ife quieta una lite razziale all’interno di un rifugio antiaereo, ricordando come quel tipo di odio sia l’esemplificazione di ciò che Hitler sta cercando di portare avanti. Con il personaggio della madre, McQueen mostra invece il senso di sopravvivenza e di unione della popolazione; Rita, che come altre donne inglesi, deve lavorare nelle fabbriche metallurgiche impiegate nella produzione delle munizioni, “combatte in prima linea” insieme alle sue colleghe per ottenere migliori condizioni nei rifugi e spingere il governo ad aiutare maggiormente la popolazione.
Anche se funge come un buon espediente per raccontare una storia intima e ampliare il discorso su grande scala, la scelta di seguire il duplice punto di vista madre/figlio, risulta dannosa per la narrazione, forse una maggiore durata avrebbe sicuramente giovato, soprattutto perché alcune sottotrame risultano superflue, come quella che riguarda una possibile svolta romantica tra Rita e il poliziotto Jack (Harris Dickinson), le cui interazioni sono per lo più sguardi in lontananza, oppure la già citata direzione dickensiana intrapresa con l’entrata in scena della banda criminale, le cui brevi sequenze stonano con il resto dell’opera.
Un altro problema fondamentale di Blitz è la mancanza di scene tra Rita e George; a parte l’inizio e qualche flashback, il loro rapporto non risulta approfondito come dovrebbe,il che è un vero dispiacere poichè Heffernan e Ronan mostrano una chimica davvero promettente. Dal canto loro, i due attori riescono comunque a regalare delle interpretazioni piuttosto convincenti; il primo, nonostante sia al suo debutto cinematografico, mostra un grande potenziale, soprattutto per il modo in cui esprime, in maniera silenziosa, le varie fasi emotive del viaggio intrapreso dall suo personaggio, mentre l’attrice di origini irlandesi si districa in un ruolo che segna di fatto l’addio a quel tipo di personaggi che l’hanno consacrata - come le giovani e ostinate eroine di Lady Bird (2017) o Little Women (Piccole Donne, 2019) - incarnando alla perfezione una madre amorevole pronta a tutto pur di aiutare chi le sta attorno.
I difetti a livello narrativo di Blitz sono piuttosto vistosi, ma la visione artistica di McQueen rimane come sempre impeccabile e rispetta gli alti standard imposti dalle sue opere passate: dalla colonna sonora di Hans Zimmer, che assume una funzione piuttosto atmosferica attraverso l’evocazione dei rumori della città in guerra, alla minuziosa ricostruzione scenografica dei rifugi e dei quartieri londinesi durante il Secondo Conflitto Mondiale.
L’andamento convenzionale del film porta ad uno scontato lieto fine, McQueen è consapevole di questo e sfrutta l’immagine finale dei due protagonisti per allargare il suo messaggio, metaforicamente e non, inquadrando una città semi distrutta. Un’immagine dalla forte potenza visiva, che parte proprio dal rapporto personale tra due individui per mostrare la collettività di una Nazione: perché quello che rimane sono le macerie di un mondo da ricostruire, e i racconti di chi ha saputo preservare il ricordo di ciò che è stato durante le ore più buie.
Un racconto di guerra,
recensione di Omar Franini
RV-78
21.11.2024
“Demolished.” Il suono isolato e alquanto automatizzato di questa parola ha contraddistinto l’intera durata di Occupied City (2023), il penultimo progetto cinematografico di Steve McQueen. Adattato dal libro Atlas of an Occupied City, Amsterdam 1940-1945 di Bianca Stiger (moglie di McQueen), il documentario si prestava ad essere per lo più un saggio artistico nel quale il cineasta britannico rendeva omaggio alla Capitale olandese (luogo in cui sta vivendo ormai da alcuni anni) e, nello stesso tempo, esplorava le atrocità dell’occupazione nazista durante la Seconda Guerra Mondiale. Per compiere questa operazione, McQueen operava una vera e propria mappatura della città, ponendo enfasi su svariati edifici e costruzioni architettoniche e raccontando storie legate alla resilienza e allo spirito di comunità delle persone che hanno vissuto quel preciso periodo storico. Le immagini mostrate dal regista all’interno di Occupied City erano però quelle dell'odierna Amsterdam e, alla fine di ogni”vignetta”, era possibile scoprire, proprio tramite la voce narrante che pronunciava la parola“demolished”, se gli attuali edifici mostrati nella pellicola corrispondessero a quelli del passato o se fosse stato necessario edificarne altri. La “demolizione” letterale non viene mai mostrata dal regista, ma solo immaginata tramite la parola.
In Blitz - il nuovo lungometraggio di Steve McQueen che sarà disponibile su Apple TV+ a partire da domani, 22 novembre - avviene esattamente il contrario: la demolizione diviene il punto focale del film e, più in particolare, della sua ouverture.
Londra, settembre 1940. La città inglese è divenuta l’epicentro degli attacchi aerei nazisti, ed è appena iniziato il “blitz”, un termine, derivante dalla parola tedesca blitzkrieg (guerra lampo), coniato dalla stampa britannica dell’epoca per sottolineare il periodo di forte assedio, dove più di un milione di persone furono costrette ad evacuare dalla Capitale per rifugiarsi nelle campagne circostanti. Con un inizio in medias res, McQueen catapulta lo spettatore in prima persona all’interno degli orrori della guerra; gli edifici sono stati abbattuti, incendi vari si trovano ad ogni vicolo e ci sono pochi soccorsi. Un paio di giovani pompieri cercano di fare il possibile per controllare il fuoco e cercare di salvare l’insalvabile, ignari dell’imminente disgrazia, l’ennesimo bombardamento aereo.
Invece di mostrare l’impatto e la catastrofe imminente, lo schermo rivela dei glitch continui in bianco e nero, a cui si contrappone un’immagine con dei fiori, chiara raffigurazione nostalgica di tempi più rosei e, contemporanemente, simbolo di speranza per il futuro. A questa fa seguito una dolce sinfonia emessa da un pianoforte che introduce allo spettatore i protagonisti della storia: Rita (Saoirse Ronan) e suo figlio di nove anni George (Elliott Heffernan). I due saranno ben presto costretti a separarsi, poichè Rita ha preso la decisione di allontanare il figlio dalla città per metterlo al riparo.
Prima del lungometraggio di Steve McQueen, uno dei film più significativi riguardo al periodo storico del blitz era stato Hope and Glory ( Anni ‘40, 1987), un lavoro autobiografico firmato da John Boorman. È infatti estremamente affascinante notare come la pellicola sia stata omaggiata più volte da McQueen, non soltanto per la scelta di adottare un punto di vista fanciullesco sulla vicenda, ma anche per il cambio stilistico, tra bianco e nero e colore, presente in apertura e, infine, tramite la struggente sequenza della stazione ferroviaria, dove le figure materne (come era per la pellicola di Boorman) si disperano osservando il disappunto nei volti dei figli in partenza. Se però il lungometraggio di John Boorman fungeva come un memoir nel quale il cineasta attingeva dai propri ricordi, lo stesso non si può dire di Blitz, che non prende spunto da una particolare vicenda biografica bensì da una fotografia, trovata dallo stesso McQueen, di un bambino di colore ritratto con un'enorme valigia risalente al 1940. Il cineasta ha iniziato a chiedersi quale potesse essere la storia dietro a quel ragazzino e, sulla base di questo spunto, ha ideato l’elemento narrativo portante della pellicola: il giovane George si ribella durante il viaggio in treno e riesce a scappare con l’intento di ricongiungersi con Rita.
Il personaggio dovrà così affrontare una vera e propria odissea, non solo per via del clima ostile determinato dalla guerra, ma soprattutto perché verrà esposto alla dura realtà razziale dell’epoca. Fino a quel momento George - che non ha mai avuto l’opportunità di conoscere il padre, ingiustamente deportato anni prima dopo essere stato accusato di un attacco a due uomini bianchi - è rimasto quasi “immune” da questa problematica grazie alla protezione della madre e del nonno Gerald (Paul Weller).
Tramite un approccio che richiama il realismo inglese di Charles Dickens, l’opera evita abilmente di straripare nel melodramma concentrandosi sulla minuziosa ricostruzione dell’epoca storica, dei luoghi della città e dello spirito delle persone che hanno vissuto lì, in quel preciso momento. McQueen e il direttore della fotografia Yorick Le Saux mostrano infatti di prediligere, per lo più, lunghi piani sequenza, come se la camera stessa volesse riflettere lo sguardo spaesato e curioso del protagonista alla scoperta di nuovi luoghi. Durante questo “viaggio”, George incontrerà diverse figure che lo metteranno di fronte alla dura realtà del periodo. Tra questi incontri spicca quello con una banda di criminali che ruba gioielli dai corpi delle persone decedute durante i raid e rovista negli edifici abbandonati, una dinamica interna che rievoca fortemente le atmosfere del romanzo Oliver Twist, soprattutto grazie alla presenza di Stephen Graham nei panni di Albert, una versione maggiormente grottesca di Fagin, antagonista di spicco dell’opera di Dickens.
L’influenza negativa e traumatica di determinate esperienze viene però bilanciata da incontri più benevoli, come quello con la guardia nigeriana Ife (Benjamin Clémentine), che si prenderà cura del giovane nel corso della prima sera e lo porterà con sé durante i suoi controlli di routine. Inoltre, tramite le loro conversazioni, George inizierà ad acquisire una maggiore consapevolezza della propria identità culturale. Il personaggio di Ife, come quello di Rita, permette al regista di analizzare lo stato di una Nazione, esemplificativa in questo senso è proprio la sequenza dove Ife quieta una lite razziale all’interno di un rifugio antiaereo, ricordando come quel tipo di odio sia l’esemplificazione di ciò che Hitler sta cercando di portare avanti. Con il personaggio della madre, McQueen mostra invece il senso di sopravvivenza e di unione della popolazione; Rita, che come altre donne inglesi, deve lavorare nelle fabbriche metallurgiche impiegate nella produzione delle munizioni, “combatte in prima linea” insieme alle sue colleghe per ottenere migliori condizioni nei rifugi e spingere il governo ad aiutare maggiormente la popolazione.
Anche se funge come un buon espediente per raccontare una storia intima e ampliare il discorso su grande scala, la scelta di seguire il duplice punto di vista madre/figlio, risulta dannosa per la narrazione, forse una maggiore durata avrebbe sicuramente giovato, soprattutto perché alcune sottotrame risultano superflue, come quella che riguarda una possibile svolta romantica tra Rita e il poliziotto Jack (Harris Dickinson), le cui interazioni sono per lo più sguardi in lontananza, oppure la già citata direzione dickensiana intrapresa con l’entrata in scena della banda criminale, le cui brevi sequenze stonano con il resto dell’opera.
Un altro problema fondamentale di Blitz è la mancanza di scene tra Rita e George; a parte l’inizio e qualche flashback, il loro rapporto non risulta approfondito come dovrebbe,il che è un vero dispiacere poichè Heffernan e Ronan mostrano una chimica davvero promettente. Dal canto loro, i due attori riescono comunque a regalare delle interpretazioni piuttosto convincenti; il primo, nonostante sia al suo debutto cinematografico, mostra un grande potenziale, soprattutto per il modo in cui esprime, in maniera silenziosa, le varie fasi emotive del viaggio intrapreso dall suo personaggio, mentre l’attrice di origini irlandesi si districa in un ruolo che segna di fatto l’addio a quel tipo di personaggi che l’hanno consacrata - come le giovani e ostinate eroine di Lady Bird (2017) o Little Women (Piccole Donne, 2019) - incarnando alla perfezione una madre amorevole pronta a tutto pur di aiutare chi le sta attorno.
I difetti a livello narrativo di Blitz sono piuttosto vistosi, ma la visione artistica di McQueen rimane come sempre impeccabile e rispetta gli alti standard imposti dalle sue opere passate: dalla colonna sonora di Hans Zimmer, che assume una funzione piuttosto atmosferica attraverso l’evocazione dei rumori della città in guerra, alla minuziosa ricostruzione scenografica dei rifugi e dei quartieri londinesi durante il Secondo Conflitto Mondiale.
L’andamento convenzionale del film porta ad uno scontato lieto fine, McQueen è consapevole di questo e sfrutta l’immagine finale dei due protagonisti per allargare il suo messaggio, metaforicamente e non, inquadrando una città semi distrutta. Un’immagine dalla forte potenza visiva, che parte proprio dal rapporto personale tra due individui per mostrare la collettività di una Nazione: perché quello che rimane sono le macerie di un mondo da ricostruire, e i racconti di chi ha saputo preservare il ricordo di ciò che è stato durante le ore più buie.