Quando la paranoia diventa moda,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-16
06.05.2023
Joaquin Phoenix è Beau, un uomo di mezza età nella cui mente si riuniscono tutte le paranoie di questo mondo. La colpa primigenia, ovviamente, è un rapporto insano con la propria madre. Beau perde l’aereo e non può andarla a trovare nel giorno in cui si commemora la morte di suo padre. Subito dopo, però, Beau apprende della sua scioccante dipartita. Crolla psicologicamente, esce di casa, ha un incidente e da lì in avanti viene travolto da una serie di avvenimenti che lo conducono, nonostante tutto, a ricongiungersi con la madre, col suo spirito o l’immagine di lei che ha conservato negli anni.
Rappresentare la paranoia con immagini in movimento: in tanti ci hanno provato, alterne sono state le fortune.
Tenta l’operazione anche Ari Aster, forte del successo di pubblico e di critica dei suoi due film passati e di una libertà produttiva senza precedenti concessagli da A24. Dopo due lungometraggi horror Aster torna a quel grottesco che aveva caratterizzato i cortometraggi di inizio carriera e che sembrava emergere, sottilmente, anche in Midsommar. Purtroppo, però, Beau ha paura si presenta come un pastiche di scene e situazioni da cortometraggio tenute insieme da un unico comune denominatore, Beau e le sue paranoie, il quale tuttavia non riesce a donare loro continuità e ritmo. Un accumulo che, spalmato sulla lunga durata del film, finisce per indebolire le singole scene. Inoltre – come in molte delle ultime produzioni targate A24 – in Beau ha paura si percepisce una certa fascinazione per la ricerca continua di quel sensazionalismo a tutti i costi che tanto lascia perplesso il Nanni Moretti de Il sol dell’avvenire.
Se nei due precedenti film di Ari Aster si avvertiva la sua capacità di rielaborare situazioni e stili altrui infondendo in essi originali innesti, in Beau ha paura a mancare è la cosa più importante: le nuove suggestioni. Il regista sembra prendere un registro preesistente, applicargli sopra un filtro riciclato e offrirlo al pubblico accompagnato dal cartello: “In questo momento devi esclamare: What the fuck!”. Questo procedimento si ripete, senza grandi variazioni, in ogni sequenza che compone il film. La materia dell'opera di Aster non sembra quindi viva e capace di intrattenere un rapporto dialettico con i modelli di riferimento. Al contrario, essa risulta sclerotizzata e autoreferenziale. Non mancano certo momenti inquietanti e scene in grado di suscitare più di una risata, ma non se ne percepisce l’autenticità.
Si ha, invece, la sensazione di essere di fronte a un continuo accumulo di dejavu. Terminato il film, appare quindi inevitabile domandarsi che cosa ci ricordino tutti i tasselli che compongono il puzzle. Ci si chiede a quale dei molti personaggi disagiati ed esclusi che ha interpretato Joaquin Phoenix, Beau somigli di più. Si prova a riflettere su quanto visto cercando di dargli un’interpretazione, ma lo si fa sotto ricatto, come se la rielaborazione dovesse per forza colmare ciò che non è riuscito a essere percepito istintivamente dallo spettatore. Una volta attribuito un senso a tutto ciò a cui si è assistito – perché a mancare nel film non è il senso, ma la capacità di esso di darsi istintivamente prima che intellettualmente – ci si domanda se ne sia valsa la pena. La risposta, date le inflazionate premesse su cui poggia il film e le banali conclusioni a cui arriva, non può che essere negativa.
Se il perturbante è qualcosa di estremamente familiare che ci appare in qualche modo distorto, tutto ciò che è presente in Beau ha paura appare, a fasi alterne, o troppo distorto per risultare in qualche modo familiare, o troppo familiare per risultare distorto e quindi causare in noi perturbamento.Tutto ciò porta, inevitabilmente, ad avere come prodotto finale un film irrisolto, che denuncia però la tendenza di un certo nuovo cinema americano, di cui Aster è uno dei più seguiti registi e A24 la casa di produzione portabandiera, di arroccarsi su soggetti e sceneggiature banali puntando tutto sulla continua ricerca di un effetto sorpresa e di un’immagine ben confezionata ma priva di profondità. Una tendenza che sta portando molti potenziali autori verso l’omologazione.
Quando la paranoia diventa moda,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-16
06.05.2023
Joaquin Phoenix è Beau, un uomo di mezza età nella cui mente si riuniscono tutte le paranoie di questo mondo. La colpa primigenia, ovviamente, è un rapporto insano con la propria madre. Beau perde l’aereo e non può andarla a trovare nel giorno in cui si commemora la morte di suo padre. Subito dopo, però, Beau apprende della sua scioccante dipartita. Crolla psicologicamente, esce di casa, ha un incidente e da lì in avanti viene travolto da una serie di avvenimenti che lo conducono, nonostante tutto, a ricongiungersi con la madre, col suo spirito o l’immagine di lei che ha conservato negli anni.
Rappresentare la paranoia con immagini in movimento: in tanti ci hanno provato, alterne sono state le fortune.
Tenta l’operazione anche Ari Aster, forte del successo di pubblico e di critica dei suoi due film passati e di una libertà produttiva senza precedenti concessagli da A24. Dopo due lungometraggi horror Aster torna a quel grottesco che aveva caratterizzato i cortometraggi di inizio carriera e che sembrava emergere, sottilmente, anche in Midsommar. Purtroppo, però, Beau ha paura si presenta come un pastiche di scene e situazioni da cortometraggio tenute insieme da un unico comune denominatore, Beau e le sue paranoie, il quale tuttavia non riesce a donare loro continuità e ritmo. Un accumulo che, spalmato sulla lunga durata del film, finisce per indebolire le singole scene. Inoltre – come in molte delle ultime produzioni targate A24 – in Beau ha paura si percepisce una certa fascinazione per la ricerca continua di quel sensazionalismo a tutti i costi che tanto lascia perplesso il Nanni Moretti de Il sol dell’avvenire.
Se nei due precedenti film di Ari Aster si avvertiva la sua capacità di rielaborare situazioni e stili altrui infondendo in essi originali innesti, in Beau ha paura a mancare è la cosa più importante: le nuove suggestioni. Il regista sembra prendere un registro preesistente, applicargli sopra un filtro riciclato e offrirlo al pubblico accompagnato dal cartello: “In questo momento devi esclamare: What the fuck!”. Questo procedimento si ripete, senza grandi variazioni, in ogni sequenza che compone il film. La materia dell'opera di Aster non sembra quindi viva e capace di intrattenere un rapporto dialettico con i modelli di riferimento. Al contrario, essa risulta sclerotizzata e autoreferenziale. Non mancano certo momenti inquietanti e scene in grado di suscitare più di una risata, ma non se ne percepisce l’autenticità.
Si ha, invece, la sensazione di essere di fronte a un continuo accumulo di dejavu. Terminato il film, appare quindi inevitabile domandarsi che cosa ci ricordino tutti i tasselli che compongono il puzzle. Ci si chiede a quale dei molti personaggi disagiati ed esclusi che ha interpretato Joaquin Phoenix, Beau somigli di più. Si prova a riflettere su quanto visto cercando di dargli un’interpretazione, ma lo si fa sotto ricatto, come se la rielaborazione dovesse per forza colmare ciò che non è riuscito a essere percepito istintivamente dallo spettatore. Una volta attribuito un senso a tutto ciò a cui si è assistito – perché a mancare nel film non è il senso, ma la capacità di esso di darsi istintivamente prima che intellettualmente – ci si domanda se ne sia valsa la pena. La risposta, date le inflazionate premesse su cui poggia il film e le banali conclusioni a cui arriva, non può che essere negativa.
Se il perturbante è qualcosa di estremamente familiare che ci appare in qualche modo distorto, tutto ciò che è presente in Beau ha paura appare, a fasi alterne, o troppo distorto per risultare in qualche modo familiare, o troppo familiare per risultare distorto e quindi causare in noi perturbamento.Tutto ciò porta, inevitabilmente, ad avere come prodotto finale un film irrisolto, che denuncia però la tendenza di un certo nuovo cinema americano, di cui Aster è uno dei più seguiti registi e A24 la casa di produzione portabandiera, di arroccarsi su soggetti e sceneggiature banali puntando tutto sulla continua ricerca di un effetto sorpresa e di un’immagine ben confezionata ma priva di profondità. Una tendenza che sta portando molti potenziali autori verso l’omologazione.