Se anche le Barbie vogliono morire,
recensione di Matteo Bonfiglioli
RV-23
22.07.2023
Il film Barbie è come una Barbie: “capace di tenere insieme logica e sentimenti allo stesso tempo”, formalmente perfetto, tiro a segno per le critiche più ovvie, omogeneamente nullo sotto il suo abbigliamento cromaticamente roboante, liscio, snello e lineare, a portata di consumatore, esportabile, maneggevole, anti-erotico, universale, plasticoso, industrializzato, transmediale, ludico e spensieratamente evasivo. Replicabile, reclinabile, ballabile, ma soprattutto toccabile, altamente oggettuale, perché in fondo si parla di una cosa, un giocattolo, che nelle sequenze più virtuose (quelle a Barbieland) è raccontato da un linguaggio squisitamente glitter-pubblicitario che punta sulle affordances della materia, la toccabilità, la visione aptica di accessori, onde e fondali.
Così come il film cammina sulle spalle di un enorme franchise, affermandosi come culto già prima dell’uscita nelle sale, zeppe di pubblico in look barbiecore, la pubblicità finisce per contagiare il racconto, lo plasma con le sue regole visive, lo rende basilarmente godibile, desiderabile, accenna a un tiepidissimo istinto auto-riflessivo ma finisce per sterilizzare il tutto in un abnorme e malcelato branded content della Mattel.
Gerwig, che sceneggia col compagno Baumbach, delinea un metaforico trattato sull’eterosessualità in salsa zoolanderiana-demenzial-musicale, lambisce il vuoto, ci danza sopra e riesce a dare ritmo ad una comicità prettamente SNLiana, una satira timidamente abrasiva ma divertente che già basterebbe come riflessione femminista e invece si fa annacquare da estemporanee, seriose tirate moraleggianti (il monologo di Laura Dern in Marriage Story batte dieci a zero quello di America Ferrera) che mal si accordano con il bonario indebolimento rappresentativo dei tratti più tossici della mascolinità, ridotti a innocue e facilmente debellabili barzellette trumpiane.
Sono proprio i Ken con la loro ridicola Kenergy narcisista patologica (esilarante l’archivio gestuale testosteronico, degno di Silly Boy di Lynks, tra cavalli e patriarcato), ad accaparrarsi quasi tutta la vis comica del racconto, relegando le Barbie a pure eroine senza ombra, e permettendo a Gosling (auto-ironico, divertente e divertito semi-antagonista) di regalare l’interpretazione più riuscita del lungometraggio. Perché la Barbie di Robbie è mero vettore narrativo, ennesimo corpo perfetto da minacciare come una Sharon Tate qualunque, decorazione difficilmente caratterizzabile, stereotipo a rigor di trama, copia in serie di un sottosopra pastello che invece che compenetrare il mondo reale, come nel caso di Woody e Buzz di Toy Story, gli siede comodamente accanto.
Tutto ciò, rende il Barbie di Gerwig il film meno drammatico, meno sfumato, meno ambiguo, meno conflittuale e più spensieratamente evasivo e divertente mai fatto sulle Barbie, e la storia creativa di Gerwig regista, che riporta sullo schermo in chiave stilizzata lo stesso conflitto madre-figlia Ladybirdiano per poi dimenticarsene, fa pensare ad altro; un problema che però, riguarda più il pubblico - mai come in questo caso aprioristica fanbase - che la regista. Sarebbe stato bello che Barbie - sia il film, che la protagonista - si imbrattasse di più col mondo reale, che giocasse di più sulla dislocazione di un icona intonsa nel degrado dell’oggi, invece che sfiorarlo solamente. Sono gli oggetti a condizionare la vita, o è la vita a plasmare gli oggetti? Non ci è permesso di sapere la risposta, perché in fondo, si tratta di un lungo trip mentale, un’elucubrazione che parte dalla coscienza della mortalità, e approda alla necessità di essere mortale, passando per ammiccanti tappe di commozione gerontofila. In questo senso, mentre Barbie “sceglie di morire”, Barbie il film sceglie di morire dalla voglia di ballare, restituendo tutta la ludica devozione artistica degli autori al soggetto.
Perché se Piccole Donne era spezzettato e altalenato come se a raccontarlo fosse un lettore avvezzo, allo stesso modo, Barbie è giocato, ancora una volta narrato dalla parte di chi fruisce, gioca, posiziona, divarica, getta, agita e rasa a zero; un gingillo blockbuster nelle mani di divertite e intellettuali autorialità di valore nel panorama statunitense. Alla fine sono tutti assolti, perché non c’è mai stato colpevole, ambiguità o qualsivoglia prospettiva sghemba a decentrare, anche solo di un millimetro, la fissità della bambola nella sua confezione regalo, se non qualche pur simpaticissima presa in giro dello stato delle cose.
Ecco perché come ogni oggetto di culto, Barbie è anche un oggetto dimenticabile in soffitta. Perché, come già affermato, il film Barbie è proprio come una Barbie: un contenitore vuoto, neutro, riempibile a piacimento dei nostri desideri, superficie adatta per idealizzazioni, aspirazioni, invidie, critiche e proiezioni infantili, dietro la finitezza dell’aggeggio che è. Più che un film manifesto, un film locandina.
Se anche le Barbie vogliono morire,
recensione di Matteo Bonfiglioli
RV-23
22.07.2023
Il film Barbie è come una Barbie: “capace di tenere insieme logica e sentimenti allo stesso tempo”, formalmente perfetto, tiro a segno per le critiche più ovvie, omogeneamente nullo sotto il suo abbigliamento cromaticamente roboante, liscio, snello e lineare, a portata di consumatore, esportabile, maneggevole, anti-erotico, universale, plasticoso, industrializzato, transmediale, ludico e spensieratamente evasivo. Replicabile, reclinabile, ballabile, ma soprattutto toccabile, altamente oggettuale, perché in fondo si parla di una cosa, un giocattolo, che nelle sequenze più virtuose (quelle a Barbieland) è raccontato da un linguaggio squisitamente glitter-pubblicitario che punta sulle affordances della materia, la toccabilità, la visione aptica di accessori, onde e fondali.
Così come il film cammina sulle spalle di un enorme franchise, affermandosi come culto già prima dell’uscita nelle sale, zeppe di pubblico in look barbiecore, la pubblicità finisce per contagiare il racconto, lo plasma con le sue regole visive, lo rende basilarmente godibile, desiderabile, accenna a un tiepidissimo istinto auto-riflessivo ma finisce per sterilizzare il tutto in un abnorme e malcelato branded content della Mattel.
Gerwig, che sceneggia col compagno Baumbach, delinea un metaforico trattato sull’eterosessualità in salsa zoolanderiana-demenzial-musicale, lambisce il vuoto, ci danza sopra e riesce a dare ritmo ad una comicità prettamente SNLiana, una satira timidamente abrasiva ma divertente che già basterebbe come riflessione femminista e invece si fa annacquare da estemporanee, seriose tirate moraleggianti (il monologo di Laura Dern in Marriage Story batte dieci a zero quello di America Ferrera) che mal si accordano con il bonario indebolimento rappresentativo dei tratti più tossici della mascolinità, ridotti a innocue e facilmente debellabili barzellette trumpiane.
Sono proprio i Ken con la loro ridicola Kenergy narcisista patologica (esilarante l’archivio gestuale testosteronico, degno di Silly Boy di Lynks, tra cavalli e patriarcato), ad accaparrarsi quasi tutta la vis comica del racconto, relegando le Barbie a pure eroine senza ombra, e permettendo a Gosling (auto-ironico, divertente e divertito semi-antagonista) di regalare l’interpretazione più riuscita del lungometraggio. Perché la Barbie di Robbie è mero vettore narrativo, ennesimo corpo perfetto da minacciare come una Sharon Tate qualunque, decorazione difficilmente caratterizzabile, stereotipo a rigor di trama, copia in serie di un sottosopra pastello che invece che compenetrare il mondo reale, come nel caso di Woody e Buzz di Toy Story, gli siede comodamente accanto.
Tutto ciò, rende il Barbie di Gerwig il film meno drammatico, meno sfumato, meno ambiguo, meno conflittuale e più spensieratamente evasivo e divertente mai fatto sulle Barbie, e la storia creativa di Gerwig regista, che riporta sullo schermo in chiave stilizzata lo stesso conflitto madre-figlia Ladybirdiano per poi dimenticarsene, fa pensare ad altro; un problema che però, riguarda più il pubblico - mai come in questo caso aprioristica fanbase - che la regista. Sarebbe stato bello che Barbie - sia il film, che la protagonista - si imbrattasse di più col mondo reale, che giocasse di più sulla dislocazione di un icona intonsa nel degrado dell’oggi, invece che sfiorarlo solamente. Sono gli oggetti a condizionare la vita, o è la vita a plasmare gli oggetti? Non ci è permesso di sapere la risposta, perché in fondo, si tratta di un lungo trip mentale, un’elucubrazione che parte dalla coscienza della mortalità, e approda alla necessità di essere mortale, passando per ammiccanti tappe di commozione gerontofila. In questo senso, mentre Barbie “sceglie di morire”, Barbie il film sceglie di morire dalla voglia di ballare, restituendo tutta la ludica devozione artistica degli autori al soggetto.
Perché se Piccole Donne era spezzettato e altalenato come se a raccontarlo fosse un lettore avvezzo, allo stesso modo, Barbie è giocato, ancora una volta narrato dalla parte di chi fruisce, gioca, posiziona, divarica, getta, agita e rasa a zero; un gingillo blockbuster nelle mani di divertite e intellettuali autorialità di valore nel panorama statunitense. Alla fine sono tutti assolti, perché non c’è mai stato colpevole, ambiguità o qualsivoglia prospettiva sghemba a decentrare, anche solo di un millimetro, la fissità della bambola nella sua confezione regalo, se non qualche pur simpaticissima presa in giro dello stato delle cose.
Ecco perché come ogni oggetto di culto, Barbie è anche un oggetto dimenticabile in soffitta. Perché, come già affermato, il film Barbie è proprio come una Barbie: un contenitore vuoto, neutro, riempibile a piacimento dei nostri desideri, superficie adatta per idealizzazioni, aspirazioni, invidie, critiche e proiezioni infantili, dietro la finitezza dell’aggeggio che è. Più che un film manifesto, un film locandina.