La rinascita di un autore,
recensione di Antonio Orrico
RV-32
09.10.2023
Siamo negli Stati Uniti nel 1955. I visitatori della piccola cittadina di Asteroid City, una località sperduta e desertica del Nevada, si accingono a osservare l’attrazione principale del paese: un asteroide schiantatosi al suolo diversi anni prima. In quest’arido paesaggio si incroceranno le storie di alcuni personaggi eccentrici, tra cui un fotoreporter di guerra, una star del cinema insoddisfatta della propria carriera e un gruppo di studenti arrivati in paese per un convegno d’astronomia insieme ai propri genitori.
Solitamente, per tutti gli autori può arrivare a un certo punto della carriera un momento di stasi e di perdita d’identità. Un momento in cui si giunge a un tale grado di sovrabbondanza (sia essa narrativa che estetica) che occorre, inevitabilmente, tornare alle origini e ripartire dagli elementi essenziali del proprio cinema, da tutto ciò che ha fondato quello stesso autore e il proprio stile, in modo da ritrovare coordinate personali e autentiche. Per Wes Anderson, The French Dispatch ha rappresentato uno spartiacque nel flusso di una carriera più che rinomata. Il film, infatti, rappresentava l’apoteosi di tutte le suggestioni del suo cinema, un intreccio di stilemi e di riferimenti che aveva come obiettivo, da un lato, quello di rendere partecipe lo spettatore di tutto ciò che aveva formato il Wes Anderson autore, e dall’altro, in contemporanea, celebrare una sorta di requiem per la visione artistica del regista, uno smarcamento deciso anche nei confronti di chi, per anni, lo aveva dipinto come artefice di un cinema “tutta forma e poca sostanza”.
Asteroid City è ciò che accade dopo The French Dispatch. Ne è la diretta conseguenza. Dopo la messa in crisi della sua stessa identità e il suo “funerale”, Wes Anderson si ritrova a raccogliere i cocci, a ripartire dalla base, dal grado zero del suo cinema, ovvero quello della creazione dei racconti, della narrazione di storie. Il focus di Anderson si sposta dalla formalizzazione della visualità alla formalizzazione del racconto stesso, alla creazione di storie all’interno di altre storie, di diorami all’interno dei quali gli attori diventano a loro volta meta-narratori. Non è un caso in questo senso la decisione di sfruttare uno scenario e un’ambientazione tipici del western – con tanto di inquadrature simulate del classico orizzonte di “fordiana” memoria – il quale nella sua stratificazione di senso simboleggia anche l’origine del cinema americano, nonché la sua definitiva (ri)nascita.
Asteroid City diventa allora una sorta di matrioska in cui le storie si incrociano e si intersecano a tal punto da indagare in profondità la struttura del testo filmico. L’opera è una commedia meta-testuale molto fine e intelligente, nella quale Anderson si assicura il piacere di spiegare al pubblico e mettere in scena qualsiasi cosa, perfino la divisione del film in atti o la scelta dei tempi dell’intervallo. Per la prima volta, il regista riflette sulle forme del racconto (in primis teatrale e successivamente audiovisivo), sulle sue figure cardine (da Bryan Cranston che diventa narratore intra-diegetico a Jason Schwartzman e Tom Hanks che rappresentano figure speculari), in un gioco in cui la simmetria non si ferma solamente alla rappresentazione estetica, ma prosegue in modo radicale anche dal punto di vista narrativo.
Il punto d’interesse di Wes Anderson diventa, dunque, lo stesso prodotto mediale e la sua struttura profonda. Ciò che diventa il cuore del racconto in Asteroid City è la rappresentazione del suo compiersi, tramite un processo metonimico che tratta i suoi personaggi come semplici contenitori, riducendoli a suppellettili utili solamente per esemplificare delle categorie. Ne deriva che il vero punto focale del film è il processo creativo che porta poi a creare l’atto cinematografico. Proprio in virtù di questi motivi, l’impianto narrativo di Asteroid City risulta scarno rispetto a quello che sorreggeva The French Dispatch, ridotto all’osso, in un gioco di scatole cinesi in cui ogni storia ne contiene un’altra. Un gioco che parla di accumulazioni, di meta-rappresentazioni che si interfacciano su piani e linguaggi diversi tra loro (cinema e teatro) e dove ogni capitolo del film diventa riduzione e particolarizzazione di quello precedente.
Queste segmentazioni si riflettono anche sull’andamento della storia stessa. Tutti i protagonisti del film, da Scarlett Johansson a Tom Hanks, vivono inglobati, come fossero prigionieri di un mondo al di fuori del tempo e dello spazio. In questo luogo sospeso l’unico modo per sfuggire a una realtà statica e inossidabile appare quello di creare storie, soddisfare la voglia di raccontare e interrogarsi sulla capacità e sulla possibilità da parte dell’arte di diventare veicolo di tale desiderio.
Ciò che Asteroid City racconta, dunque, è un Wes Anderson che ritrova definitivamente se stesso attorno a un mondo fatto di nulla, che raccoglie le macerie seminate nel film precedente e si ri-organizza, azionando la macchina del proprio cinema in un modo molto più complesso di quanto possa sembrare. Infatti, dietro l’apparente cerebralità del film e dietro il formalismo simmetrico che gli viene solitamente contestato, il regista nasconde un meccanismo di riappropriazione delle forme del racconto a lui care, un meccanismo che deve necessariamente ripartire dalla sua fine per non restare impantanato nella stasi estetica, formale e narrativa di cui il suo autore aveva dato prova negli ultimi film.
La rinascita di un autore,
recensione di Antonio Orrico
RV-32
09.10.2023
Siamo negli Stati Uniti nel 1955. I visitatori della piccola cittadina di Asteroid City, una località sperduta e desertica del Nevada, si accingono a osservare l’attrazione principale del paese: un asteroide schiantatosi al suolo diversi anni prima. In quest’arido paesaggio si incroceranno le storie di alcuni personaggi eccentrici, tra cui un fotoreporter di guerra, una star del cinema insoddisfatta della propria carriera e un gruppo di studenti arrivati in paese per un convegno d’astronomia insieme ai propri genitori.
Solitamente, per tutti gli autori può arrivare a un certo punto della carriera un momento di stasi e di perdita d’identità. Un momento in cui si giunge a un tale grado di sovrabbondanza (sia essa narrativa che estetica) che occorre, inevitabilmente, tornare alle origini e ripartire dagli elementi essenziali del proprio cinema, da tutto ciò che ha fondato quello stesso autore e il proprio stile, in modo da ritrovare coordinate personali e autentiche. Per Wes Anderson, The French Dispatch ha rappresentato uno spartiacque nel flusso di una carriera più che rinomata. Il film, infatti, rappresentava l’apoteosi di tutte le suggestioni del suo cinema, un intreccio di stilemi e di riferimenti che aveva come obiettivo, da un lato, quello di rendere partecipe lo spettatore di tutto ciò che aveva formato il Wes Anderson autore, e dall’altro, in contemporanea, celebrare una sorta di requiem per la visione artistica del regista, uno smarcamento deciso anche nei confronti di chi, per anni, lo aveva dipinto come artefice di un cinema “tutta forma e poca sostanza”.
Asteroid City è ciò che accade dopo The French Dispatch. Ne è la diretta conseguenza. Dopo la messa in crisi della sua stessa identità e il suo “funerale”, Wes Anderson si ritrova a raccogliere i cocci, a ripartire dalla base, dal grado zero del suo cinema, ovvero quello della creazione dei racconti, della narrazione di storie. Il focus di Anderson si sposta dalla formalizzazione della visualità alla formalizzazione del racconto stesso, alla creazione di storie all’interno di altre storie, di diorami all’interno dei quali gli attori diventano a loro volta meta-narratori. Non è un caso in questo senso la decisione di sfruttare uno scenario e un’ambientazione tipici del western – con tanto di inquadrature simulate del classico orizzonte di “fordiana” memoria – il quale nella sua stratificazione di senso simboleggia anche l’origine del cinema americano, nonché la sua definitiva (ri)nascita.
Asteroid City diventa allora una sorta di matrioska in cui le storie si incrociano e si intersecano a tal punto da indagare in profondità la struttura del testo filmico. L’opera è una commedia meta-testuale molto fine e intelligente, nella quale Anderson si assicura il piacere di spiegare al pubblico e mettere in scena qualsiasi cosa, perfino la divisione del film in atti o la scelta dei tempi dell’intervallo. Per la prima volta, il regista riflette sulle forme del racconto (in primis teatrale e successivamente audiovisivo), sulle sue figure cardine (da Bryan Cranston che diventa narratore intra-diegetico a Jason Schwartzman e Tom Hanks che rappresentano figure speculari), in un gioco in cui la simmetria non si ferma solamente alla rappresentazione estetica, ma prosegue in modo radicale anche dal punto di vista narrativo.
Il punto d’interesse di Wes Anderson diventa, dunque, lo stesso prodotto mediale e la sua struttura profonda. Ciò che diventa il cuore del racconto in Asteroid City è la rappresentazione del suo compiersi, tramite un processo metonimico che tratta i suoi personaggi come semplici contenitori, riducendoli a suppellettili utili solamente per esemplificare delle categorie. Ne deriva che il vero punto focale del film è il processo creativo che porta poi a creare l’atto cinematografico. Proprio in virtù di questi motivi, l’impianto narrativo di Asteroid City risulta scarno rispetto a quello che sorreggeva The French Dispatch, ridotto all’osso, in un gioco di scatole cinesi in cui ogni storia ne contiene un’altra. Un gioco che parla di accumulazioni, di meta-rappresentazioni che si interfacciano su piani e linguaggi diversi tra loro (cinema e teatro) e dove ogni capitolo del film diventa riduzione e particolarizzazione di quello precedente.
Queste segmentazioni si riflettono anche sull’andamento della storia stessa. Tutti i protagonisti del film, da Scarlett Johansson a Tom Hanks, vivono inglobati, come fossero prigionieri di un mondo al di fuori del tempo e dello spazio. In questo luogo sospeso l’unico modo per sfuggire a una realtà statica e inossidabile appare quello di creare storie, soddisfare la voglia di raccontare e interrogarsi sulla capacità e sulla possibilità da parte dell’arte di diventare veicolo di tale desiderio.
Ciò che Asteroid City racconta, dunque, è un Wes Anderson che ritrova definitivamente se stesso attorno a un mondo fatto di nulla, che raccoglie le macerie seminate nel film precedente e si ri-organizza, azionando la macchina del proprio cinema in un modo molto più complesso di quanto possa sembrare. Infatti, dietro l’apparente cerebralità del film e dietro il formalismo simmetrico che gli viene solitamente contestato, il regista nasconde un meccanismo di riappropriazione delle forme del racconto a lui care, un meccanismo che deve necessariamente ripartire dalla sua fine per non restare impantanato nella stasi estetica, formale e narrativa di cui il suo autore aveva dato prova negli ultimi film.