Una fiaba storta,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-74
08.11.2024
Ani Mikheeva (Mickey Madison), spogliarellista ventitreenne di Brighton Beach (Brooklyn) viene presentata dal suo capo a Vanja Zakharov (Mark Eydelshteyn), figlio viziato di un ricco oligarca russo. Il ragazzo la paga per passare del tempo con lui, sviluppando un legame romantico che culmina in un matrimonio a Las Vegas. Ma le cose si complicano quando Ani scopre che Vanja desidera ottenere la green card, e i potenti genitori di lui arrivano in America per mettere fine alla loro unione.
Raccontare la trama di Anora è semplice come raccontare una fiaba. In effetti, quello di Sean Baker è un cinema di storie semplici, che mira a una purezza di forma ed intreccio ormai sempre meno presente nel cinema indipendente americano, risucchiato nell’ultimo quinquennio dalla deriva estetico-retorica di case di produzione come la A24.
Un cinema che ha il coraggio di affondare le proprie radici nel passato senza doversi presentare con sopra un’etichetta, che crede fermamente nel racconto e che fa dell’estetica non uno specchietto per le allodole, ma la porta d’accesso per il cuore pulsante della pellicola. Un cinema classico e contemporaneo che, non ostentando né la propria classicità né la propria contemporaneità, usa le pieghe dell’emozione per far arrivare allo spettatore temi e discorsi che innervano il presente.
Anora conquista sin dalle prime immagini, immergendo lo spettatore in un’abbacinante atmosfera dal sapore di neon e musica techno. Siamo in uno strip-club, delle spogliarelliste stanno allietando i ricchi ospiti del locale. Una carrellata le fa sfilare una dopo l’altra fino a soffermarsi sulla protagonista, inquadrandola imponente dal basso verso l’alto. Sin dall’incipit, appare chiara la vicinanza dello sguardo di Baker alla sua protagonista e al mondo che le appartiene. La camera del regista è come un’emanazione della volontà di Ani, si muove in sintonia con lei, fluttua negli ambienti al neon con la naturalezza di chi è padrone del mondo che lo circonda.
Siamo apparentemente distanti dalla condizione disagiante che caratterizzava i personaggi di The Florida Project (Un sogno chiamato Florida, 2017), ma è solo un abbaglio, un inganno. In realtà, il mondo in cui si muove la protagonista è un castello di illusioni, di immagini riflesse, di luci brillanti che celano ombre e di ombre che celano improvvise e inaspettate luci. Un universo che si manifesta nella sua perfezione, ma che fa ricadere le scorie della sua entropia sulle classi sociali più deboli e che non lascia spazio né per sognare, né per illudersi di poter fuggire.
Anora illude, depista, cambia continuamente direzione. Quando ci si aspetta il dramma, arriva la slapstick comedy, quando è presente la quiete, arriva l’esplosione. Quando una sequenza sembra conclusa, interviene sempre un’altra azione, uno stacco, un primo piano, in grado di alterare e donare alle immagini un’altra prospettiva.
La direzione degli attori è pressoché perfetta. Nonostante i diversi background del cast, Sean Baker è in grado di armonizzare diversi stili di recitazione nello medesimo film senza che essi stonino. Mikey Madison ha la spontaneità e la naturalezza di un’attrice non professionista e il Vanja interpretato da Mark Eydelshteyn funziona sia nella sua veste comica che in quella drammatica.
Nei ruoli degli scagnozzi della famiglia Zacharov è singolare la scelta di affiancare a caratteristi come Vache Tovmasyan e Karren Karagulian l’attore russo Yuri Borisov, noto in Europa per il suo ruolo in Hytti nro 6 (Scompartimento N° 6, 2021). Sul suo personaggio - che sembra un’emanazione di quello del film di Juho Kuosmanen - Baker ricama forse la più significativa delle illusioni presenti nella pellicola. Il suo progressivo prendere piede nella trama viene reso alla perfezione grazie, soprattutto, al montaggio.
Sean Baker (che è anche montatore del film) calibra con estrema precisione sguardi, gesti e spazi. Aumenta il ritmo e, all’improvviso, lo rallenta. Allude, ma non esplicita, si concentra su dettagli all’apparenza secondari eppure fondamentali. Gioca abilmente con l’alternanza dei primi piani ed è attento a porre sullo stesso livello Ani e i suoi improbabili aguzzini, tutti accomunati dall’essere in balia di un capriccio dei potenti.
Lo sguardo che Baker rivolge verso i vinti, verso gli umili, è empatico ma mai pietistico. Il suo è un occhio che non giudica e non regala morali, è semmai più interessato a mostrare genuinamente l’andamento naturale delle relazioni fra i personaggi. Nessun passaggio e nessun dialogo di Anora è forzato. Il flusso del film si dipana, i personaggi prendono forma e si definiscono scena dopo scena fino a che la commedia di carattere non cede definitivamente il posto al dramma.
Un paesaggio estremamente florido diventa spoglio e invernale. Le stanze di una villa che era sinonimo di libertà ora diventano un non-luogo. La palette cromatica si spegne, i toni si fanno più bruni e più sporchi, la camera si ferma. Forse ci può essere spazio per un briciolo di umanità e di tenerezza. Ani è seduta a cavalcioni su un uomo, come nella prima scena, ma tutto è cambiato. È in una scomoda auto, l’uomo non è un miliardario bensì un gopnik, non è più padrona del mondo che le sta intorno, non ha più niente. La camera di Baker la inquadra in tutta la sua fragilità. Ani esplode in un pianto che si protrae fino ai titoli di coda. L’illusione è finita.
Una fiaba storta,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-74
08.11.2024
Ani Mikheeva (Mickey Madison), spogliarellista ventitreenne di Brighton Beach (Brooklyn) viene presentata dal suo capo a Vanja Zakharov (Mark Eydelshteyn), figlio viziato di un ricco oligarca russo. Il ragazzo la paga per passare del tempo con lui, sviluppando un legame romantico che culmina in un matrimonio a Las Vegas. Ma le cose si complicano quando Ani scopre che Vanja desidera ottenere la green card, e i potenti genitori di lui arrivano in America per mettere fine alla loro unione.
Raccontare la trama di Anora è semplice come raccontare una fiaba. In effetti, quello di Sean Baker è un cinema di storie semplici, che mira a una purezza di forma ed intreccio ormai sempre meno presente nel cinema indipendente americano, risucchiato nell’ultimo quinquennio dalla deriva estetico-retorica di case di produzione come la A24.
Un cinema che ha il coraggio di affondare le proprie radici nel passato senza doversi presentare con sopra un’etichetta, che crede fermamente nel racconto e che fa dell’estetica non uno specchietto per le allodole, ma la porta d’accesso per il cuore pulsante della pellicola. Un cinema classico e contemporaneo che, non ostentando né la propria classicità né la propria contemporaneità, usa le pieghe dell’emozione per far arrivare allo spettatore temi e discorsi che innervano il presente.
Anora conquista sin dalle prime immagini, immergendo lo spettatore in un’abbacinante atmosfera dal sapore di neon e musica techno. Siamo in uno strip-club, delle spogliarelliste stanno allietando i ricchi ospiti del locale. Una carrellata le fa sfilare una dopo l’altra fino a soffermarsi sulla protagonista, inquadrandola imponente dal basso verso l’alto. Sin dall’incipit, appare chiara la vicinanza dello sguardo di Baker alla sua protagonista e al mondo che le appartiene. La camera del regista è come un’emanazione della volontà di Ani, si muove in sintonia con lei, fluttua negli ambienti al neon con la naturalezza di chi è padrone del mondo che lo circonda.
Siamo apparentemente distanti dalla condizione disagiante che caratterizzava i personaggi di The Florida Project (Un sogno chiamato Florida, 2017), ma è solo un abbaglio, un inganno. In realtà, il mondo in cui si muove la protagonista è un castello di illusioni, di immagini riflesse, di luci brillanti che celano ombre e di ombre che celano improvvise e inaspettate luci. Un universo che si manifesta nella sua perfezione, ma che fa ricadere le scorie della sua entropia sulle classi sociali più deboli e che non lascia spazio né per sognare, né per illudersi di poter fuggire.
Anora illude, depista, cambia continuamente direzione. Quando ci si aspetta il dramma, arriva la slapstick comedy, quando è presente la quiete, arriva l’esplosione. Quando una sequenza sembra conclusa, interviene sempre un’altra azione, uno stacco, un primo piano, in grado di alterare e donare alle immagini un’altra prospettiva.
La direzione degli attori è pressoché perfetta. Nonostante i diversi background del cast, Sean Baker è in grado di armonizzare diversi stili di recitazione nello medesimo film senza che essi stonino. Mikey Madison ha la spontaneità e la naturalezza di un’attrice non professionista e il Vanja interpretato da Mark Eydelshteyn funziona sia nella sua veste comica che in quella drammatica.
Nei ruoli degli scagnozzi della famiglia Zacharov è singolare la scelta di affiancare a caratteristi come Vache Tovmasyan e Karren Karagulian l’attore russo Yuri Borisov, noto in Europa per il suo ruolo in Hytti nro 6 (Scompartimento N° 6, 2021). Sul suo personaggio - che sembra un’emanazione di quello del film di Juho Kuosmanen - Baker ricama forse la più significativa delle illusioni presenti nella pellicola. Il suo progressivo prendere piede nella trama viene reso alla perfezione grazie, soprattutto, al montaggio.
Sean Baker (che è anche montatore del film) calibra con estrema precisione sguardi, gesti e spazi. Aumenta il ritmo e, all’improvviso, lo rallenta. Allude, ma non esplicita, si concentra su dettagli all’apparenza secondari eppure fondamentali. Gioca abilmente con l’alternanza dei primi piani ed è attento a porre sullo stesso livello Ani e i suoi improbabili aguzzini, tutti accomunati dall’essere in balia di un capriccio dei potenti.
Lo sguardo che Baker rivolge verso i vinti, verso gli umili, è empatico ma mai pietistico. Il suo è un occhio che non giudica e non regala morali, è semmai più interessato a mostrare genuinamente l’andamento naturale delle relazioni fra i personaggi. Nessun passaggio e nessun dialogo di Anora è forzato. Il flusso del film si dipana, i personaggi prendono forma e si definiscono scena dopo scena fino a che la commedia di carattere non cede definitivamente il posto al dramma.
Un paesaggio estremamente florido diventa spoglio e invernale. Le stanze di una villa che era sinonimo di libertà ora diventano un non-luogo. La palette cromatica si spegne, i toni si fanno più bruni e più sporchi, la camera si ferma. Forse ci può essere spazio per un briciolo di umanità e di tenerezza. Ani è seduta a cavalcioni su un uomo, come nella prima scena, ma tutto è cambiato. È in una scomoda auto, l’uomo non è un miliardario bensì un gopnik, non è più padrona del mondo che le sta intorno, non ha più niente. La camera di Baker la inquadra in tutta la sua fragilità. Ani esplode in un pianto che si protrae fino ai titoli di coda. L’illusione è finita.