La verità è una cosa smarrita,
recensione di Federico Mattioni
RV-35
26.10.2023
Sandra e Samuel sono una coppia di scrittori di mezza età. Lei ha collezionato successi con i suoi libri, mentre lui si è dedicato maggiormente all’insegnamento e vorrebbe ora donarsi maggiore spazio nel tentativo d’inseguire l’ennesimo sogno intrappolato nelle reti del matrimonio. Hanno un figlio di undici anni, Daniel, afflitto da cecità a seguito di un incidente nel bosco. Il quadretto familiare improvvisamente esplode mentre Daniel è a spasso per i boschi innevati delle Alpi francesi con il cane di famiglia. Suo padre Samuel è precipitato dalla finestra dell’ultimo piano dello chalet e battendo il capo ha istantaneamente perso la vita, macchiando il bianco neve con il rosso vivo del suo sangue. In casa, la sola Sandra. Le indagini partono ed entrano di soppiatto dentro le aule giudiziarie, in un lungo processo ricco di testimoni e testimonianze che sembrano non lasciare adito a dubbi. Eppure, quel che filtra dal modo in cui la regista francese Justine Triet affronta la sceneggiatura, scritta assieme ad Arthur Harari, è un grosso punto di domanda alternativo. Le indagini processuali, esaminate col bisturi, si alternano a ricordi innescati dai racconti di Sandra e Daniel. I propositi suicidi di Samuel si fanno spazio nelle ipotesi da trasformare in prove e non sembra esserci ombra di incertezza.
Attraverso un utilizzo sapiente dei flashback e per mezzo di dialoghi rivelatori, Triet ci mette di fronte alle prove di un matrimonio sfibrato. Le immagini si succedono a parole e voci. Barlumi di verità li possiamo vedere o udire in sede di processo, secondo il frutto di testimonianze approssimative. Tutto è approssimativo, non vi è certezza alcuna. Il dramma, strutturato inizialmente come un kammerspiel, prende presto la forma del dramma legale dalla linea thriller (ha qualcosa in comune con Suspect di Peter Yates e nel titolo sembra voler ricalcare Anatomia di un rapimento di Otto Preminger, tra i film più famigerati del genere processuale), che fa della misuratezza contestuale il suo strumento di assuefazione alla diatriba verbale e non verbosa. I dialoghi, nel batti e ribatti, si prendono il maggior spazio all’interno del film, rivitalizzando una narrazione asettica che sussulta qua e là principalmente grazie a due scene madri (il flashback del litigio tra moglie e marito e il supporto processuale da parte di Daniel, con tanto di dissociazione uditiva del racconto del ragazzo adolescente, nei ricordi di un cruciale dialogo avuto col padre).
Justine Triet mette da parte l’umorismo degli esordi per concentrarsi interamente sul confronto/scontro di una coppia che sta ancora insieme per inerzia. Si percepisce una certa competitività tra Sandra e Samuel, frutto di incomprensioni e figlia di un’intesa sessuale esauritasi precocemente. Esaurito e consumato prima del previsto, il rapporto. La complicità si è celata dietro la facciata, mentre a pagare nel cieco dolore, resta il figlio. Non vede ma sente. E comprende.
Al di là di alcune lungaggini processuali e di un montaggio che solo nelle scene decisive si ricorda di esistere per donare pathos alla storia, Anatomia di una caduta ci fa sentire inadeguati, messi di fronte a un conflitto tirato per le lunghe con il preciso intento di snervare le aspettative più retrive, associate all’ipotesi di poter avere tutto sotto controllo, con tanto di libretto d’istruzioni. La mente non offre punti di approdo. Non vi sono punti di riferimento dietro al dubbio che si protrae ben oltre lo stesso processo. Dopo la confessione-svolta, si ha la sensazione di liberarsi di un peso ma permane il dubbio. Un grande dubbio. Sin dai primissimi minuti, del resto, osservando il comportamento di Sandra (sempre la stessa Sandra Huller, nel buono e nel risaputo), si sospetta fortemente della sua credibilità. Non ha un vero e proprio alibi e in casa era presente soltanto lei al momento della caduta del marito. Eppure, analizzando la cosa anatomicamente, dissezionandola nelle sue componenti più e meno probanti, si finisce per compatirla. Non sembra mentirci eppure non sembra neanche essere del tutto sincera. La verità, per giunta, non sta neanche nel mezzo. Si è persa, da qualche parte. Non acquisisce più importanza. La volontà di suicidio è troppo forte. Fa desistere qualsiasi altra ipotesi. All’atto finale, quasi nessuno sembra crederci, mentre tutti s’impegnano, comunque, a dare per appurata la sentenza. Una sensazione di disagio, un disturbo quasi fassbinderiano, memore di certi film di Fleischmann. In questo senso, Triet, come se fosse stata enormemente influenzata dalla presenza di Sandra Huller, finisce per privilegiare un taglio registico tedesco, quasi glaciale nella sua struttura. Forse per cogliere al meglio l’essenza del significato stesso del film occorre riallacciarsi al prologo, nel quale Sandra è intervistata da una giornalista, con la quale divaga. L’intero film è la rappresentazione di uno scarto oltre la verità. Basta un passo e si è fuori. Ma fuori sempre e comunque, da tutta la verità. Nessuno sembra essere disposto a concederla.
La verità è una cosa smarrita,
recensione di Federico Mattioni
RV-35
26.10.2023
Sandra e Samuel sono una coppia di scrittori di mezza età. Lei ha collezionato successi con i suoi libri, mentre lui si è dedicato maggiormente all’insegnamento e vorrebbe ora donarsi maggiore spazio nel tentativo d’inseguire l’ennesimo sogno intrappolato nelle reti del matrimonio. Hanno un figlio di undici anni, Daniel, afflitto da cecità a seguito di un incidente nel bosco. Il quadretto familiare improvvisamente esplode mentre Daniel è a spasso per i boschi innevati delle Alpi francesi con il cane di famiglia. Suo padre Samuel è precipitato dalla finestra dell’ultimo piano dello chalet e battendo il capo ha istantaneamente perso la vita, macchiando il bianco neve con il rosso vivo del suo sangue. In casa, la sola Sandra. Le indagini partono ed entrano di soppiatto dentro le aule giudiziarie, in un lungo processo ricco di testimoni e testimonianze che sembrano non lasciare adito a dubbi. Eppure, quel che filtra dal modo in cui la regista francese Justine Triet affronta la sceneggiatura, scritta assieme ad Arthur Harari, è un grosso punto di domanda alternativo. Le indagini processuali, esaminate col bisturi, si alternano a ricordi innescati dai racconti di Sandra e Daniel. I propositi suicidi di Samuel si fanno spazio nelle ipotesi da trasformare in prove e non sembra esserci ombra di incertezza.
Attraverso un utilizzo sapiente dei flashback e per mezzo di dialoghi rivelatori, Triet ci mette di fronte alle prove di un matrimonio sfibrato. Le immagini si succedono a parole e voci. Barlumi di verità li possiamo vedere o udire in sede di processo, secondo il frutto di testimonianze approssimative. Tutto è approssimativo, non vi è certezza alcuna. Il dramma, strutturato inizialmente come un kammerspiel, prende presto la forma del dramma legale dalla linea thriller (ha qualcosa in comune con Suspect di Peter Yates e nel titolo sembra voler ricalcare Anatomia di un rapimento di Otto Preminger, tra i film più famigerati del genere processuale), che fa della misuratezza contestuale il suo strumento di assuefazione alla diatriba verbale e non verbosa. I dialoghi, nel batti e ribatti, si prendono il maggior spazio all’interno del film, rivitalizzando una narrazione asettica che sussulta qua e là principalmente grazie a due scene madri (il flashback del litigio tra moglie e marito e il supporto processuale da parte di Daniel, con tanto di dissociazione uditiva del racconto del ragazzo adolescente, nei ricordi di un cruciale dialogo avuto col padre).
Justine Triet mette da parte l’umorismo degli esordi per concentrarsi interamente sul confronto/scontro di una coppia che sta ancora insieme per inerzia. Si percepisce una certa competitività tra Sandra e Samuel, frutto di incomprensioni e figlia di un’intesa sessuale esauritasi precocemente. Esaurito e consumato prima del previsto, il rapporto. La complicità si è celata dietro la facciata, mentre a pagare nel cieco dolore, resta il figlio. Non vede ma sente. E comprende.
Al di là di alcune lungaggini processuali e di un montaggio che solo nelle scene decisive si ricorda di esistere per donare pathos alla storia, Anatomia di una caduta ci fa sentire inadeguati, messi di fronte a un conflitto tirato per le lunghe con il preciso intento di snervare le aspettative più retrive, associate all’ipotesi di poter avere tutto sotto controllo, con tanto di libretto d’istruzioni. La mente non offre punti di approdo. Non vi sono punti di riferimento dietro al dubbio che si protrae ben oltre lo stesso processo. Dopo la confessione-svolta, si ha la sensazione di liberarsi di un peso ma permane il dubbio. Un grande dubbio. Sin dai primissimi minuti, del resto, osservando il comportamento di Sandra (sempre la stessa Sandra Huller, nel buono e nel risaputo), si sospetta fortemente della sua credibilità. Non ha un vero e proprio alibi e in casa era presente soltanto lei al momento della caduta del marito. Eppure, analizzando la cosa anatomicamente, dissezionandola nelle sue componenti più e meno probanti, si finisce per compatirla. Non sembra mentirci eppure non sembra neanche essere del tutto sincera. La verità, per giunta, non sta neanche nel mezzo. Si è persa, da qualche parte. Non acquisisce più importanza. La volontà di suicidio è troppo forte. Fa desistere qualsiasi altra ipotesi. All’atto finale, quasi nessuno sembra crederci, mentre tutti s’impegnano, comunque, a dare per appurata la sentenza. Una sensazione di disagio, un disturbo quasi fassbinderiano, memore di certi film di Fleischmann. In questo senso, Triet, come se fosse stata enormemente influenzata dalla presenza di Sandra Huller, finisce per privilegiare un taglio registico tedesco, quasi glaciale nella sua struttura. Forse per cogliere al meglio l’essenza del significato stesso del film occorre riallacciarsi al prologo, nel quale Sandra è intervistata da una giornalista, con la quale divaga. L’intero film è la rappresentazione di uno scarto oltre la verità. Basta un passo e si è fuori. Ma fuori sempre e comunque, da tutta la verità. Nessuno sembra essere disposto a concederla.