La fine della trilogia di Roma criminale,
recensione di Davide Merola
RV-45
18.12.2023
Manuel (Gianmarco Franchini) ha sedici anni e si prende cura del padre, un anziano malato dal passato criminale conosciuto come Daytona (Toni Servillo). A insaputa del padre, il ragazzo viene ricattato da un carabiniere corrotto (Adriano Giannini) e gettato in una storia di festini e politica più grande di lui. Nel tentativo di sfuggire al ricatto, Manuel si rivolge a due vecchie conoscenze del padre, anche loro ex criminali, Polniuman e il Cammello (Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino).
Così inizia Adagio, il film con il quale Stefano Sollima torna al suo genere prediletto, chiudendo un’ideale trilogia su “Roma Criminale” dopo A.C.A.B. e Suburra. Stavolta la storia narrata vira leggermente dalla tradizione italiana, raccogliendo la lezione “americana” imparata nei suoi precedenti lavori: Soldado e Senza rimorso. In questa nuova crime story dal forte impatto Sollima ci porta infatti tra le strade di una Roma quasi apocalittica, una Capitale al collasso colpita da un indomabile incendio e da continui blackout. Adagio è un film sulla fine del mondo e sulla fine, in generale.
È strano come nonostante l’ambientazione e i personaggi vadano incontro a un’imminente chiusura, questi vengano rappresentati da un titolo che può riferirsi al movimento musicale o all’avverbio che indica la lentezza, scontrandosi così anche con il linguaggio action di deriva statunitense. L’azione di Adagio non sta tanto nei momenti “fisici” quanto in una svolta drammaturgica intimista che rende la storia del film una storia di padri e figli, donando in questo modo alla Città Eterna un sentimentalismo lontano dai luoghi e dai monumenti che l’hanno caratterizzata in altre occasioni al cinema. Lo scontro finale nella stazione di Tiburtina ne è un esempio.
E così i luoghi diventano le persone. In Adagio, le case che abitano Daytona, Polniuman e Cammello sono una cupa personificazione di set quasi teatrali, infestati da fantasmi redivivi, ciechi e con la testa altrove: Servillo, Mastandrea e Favino sono un trio di star che in quanto tali hanno il compito di rendere iconiche le loro presenze (e qui si intravede molto dei tecnicismi d’oltreoceano importati da Sollima). Magnifico e allo stesso tempo spaventoso il glabro Romeo “Cammello” di Favino, malato terminale con la pellaccia dura come un John Wick; sagace e bastardo il Daytona di Servillo che assomiglia a Bruce Willis in Slevin - Patto criminale; molto saggio Mastandrea col suo Polniuman che fa il verso a un Daredevil che per fortuna non ha i super-sensi per combattere. Anche Vasco, il carabiniere interpretato da Giannini è un altro redivivo.
Il titolo Adagio mostra dunque l’assoluta competenza di Sollima nel districarsi in un genere di cui sa dosare il ritmo: fermarsi, dilatare, accelerare, come in una partitura musicale. La lentezza dettata dall’avverbio in realtà non esiste, così come non esistono limiti per Sollima che con questo film del tutto compiuto si conferma un autore maturo e importante.
La fine della trilogia di Roma criminale,
recensione di Davide Merola
RV-45
18.12.2023
Manuel (Gianmarco Franchini) ha sedici anni e si prende cura del padre, un anziano malato dal passato criminale conosciuto come Daytona (Toni Servillo). A insaputa del padre, il ragazzo viene ricattato da un carabiniere corrotto (Adriano Giannini) e gettato in una storia di festini e politica più grande di lui. Nel tentativo di sfuggire al ricatto, Manuel si rivolge a due vecchie conoscenze del padre, anche loro ex criminali, Polniuman e il Cammello (Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino).
Così inizia Adagio, il film con il quale Stefano Sollima torna al suo genere prediletto, chiudendo un’ideale trilogia su “Roma Criminale” dopo A.C.A.B. e Suburra. Stavolta la storia narrata vira leggermente dalla tradizione italiana, raccogliendo la lezione “americana” imparata nei suoi precedenti lavori: Soldado e Senza rimorso. In questa nuova crime story dal forte impatto Sollima ci porta infatti tra le strade di una Roma quasi apocalittica, una Capitale al collasso colpita da un indomabile incendio e da continui blackout. Adagio è un film sulla fine del mondo e sulla fine, in generale.
È strano come nonostante l’ambientazione e i personaggi vadano incontro a un’imminente chiusura, questi vengano rappresentati da un titolo che può riferirsi al movimento musicale o all’avverbio che indica la lentezza, scontrandosi così anche con il linguaggio action di deriva statunitense. L’azione di Adagio non sta tanto nei momenti “fisici” quanto in una svolta drammaturgica intimista che rende la storia del film una storia di padri e figli, donando in questo modo alla Città Eterna un sentimentalismo lontano dai luoghi e dai monumenti che l’hanno caratterizzata in altre occasioni al cinema. Lo scontro finale nella stazione di Tiburtina ne è un esempio.
E così i luoghi diventano le persone. In Adagio, le case che abitano Daytona, Polniuman e Cammello sono una cupa personificazione di set quasi teatrali, infestati da fantasmi redivivi, ciechi e con la testa altrove: Servillo, Mastandrea e Favino sono un trio di star che in quanto tali hanno il compito di rendere iconiche le loro presenze (e qui si intravede molto dei tecnicismi d’oltreoceano importati da Sollima). Magnifico e allo stesso tempo spaventoso il glabro Romeo “Cammello” di Favino, malato terminale con la pellaccia dura come un John Wick; sagace e bastardo il Daytona di Servillo che assomiglia a Bruce Willis in Slevin - Patto criminale; molto saggio Mastandrea col suo Polniuman che fa il verso a un Daredevil che per fortuna non ha i super-sensi per combattere. Anche Vasco, il carabiniere interpretato da Giannini è un altro redivivo.
Il titolo Adagio mostra dunque l’assoluta competenza di Sollima nel districarsi in un genere di cui sa dosare il ritmo: fermarsi, dilatare, accelerare, come in una partitura musicale. La lentezza dettata dall’avverbio in realtà non esiste, così come non esistono limiti per Sollima che con questo film del tutto compiuto si conferma un autore maturo e importante.