La condizione umana è una pianta gelata,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-39
19.11.2023
In uno sconfinato paesaggio innevato una figura avanza faticosamente. Siamo in un villaggio nell’est dell’Anatolia, è inverno, il secondo semestre scolastico sta per iniziare. La figura ha un nome e una professione. Si chiama Samet ed è ormai da quattro anni e mezzo che insegna arte nella scuola del paese. Fra pochi mesi scade il suo obbligo di mandato e ha un punteggio sufficiente per chiedere finalmente il trasferimento a ovest, forse a Istanbul. Il suo coinquilino, Kenan, insegna nel villaggio da sette anni, ma non ha alcuna intenzione di trasferirsi. Al contrario, cerca una donna con cui poter mettere su famiglia. Nella loro vita si affacciano due figure femminili. La prima è Sevim, giovane alunna per la quale Samet ripone un paternalistico sentimento d’affetto, l’altra è Nuray, insegnante d’inglese di una scuola della vicina città, molto attiva nel sociale, che è tornata a vivere nel luogo natale dopo la perdita di una gamba a seguito di un attentato terroristico.
È intorno a questi quattro personaggi che si struttura il nono lungometraggio di Nuri Bilge Ceylan, About Dry Grasses, premiato al Festival di Cannes per la miglior interpretazione femminile e presentato in anteprima in Italia a Roma nel corso della 29° edizione del Medfilm Festival. Giunto nella fase matura della sua carriera, il regista turco sembra aver trovato la formula drammaturgica perfetta per tenere insieme i diversi elementi che nutrono il suo cinema sin dagli esordi. Perché se c’è una sensazione che più di tutte rimane, terminate le tre ore e venti di visione del film, è quella di aver assistito a un’opera estremamente stratificata, esistenzialista ma allo stesso tempo politica, ambigua nonostante la marea di parole che la compongono, ermetica ma non per questo incapace di dialogare con lo spettatore. Di aver assistito, in sintesi, a un film in grado di racchiudere dentro pochi personaggi, poche situazioni narrative e pochi luoghi, un universo di significati.
Significati mai offerti allo spettatore sul piatto d’argento dei dialoghi, numerosi, precisi eppure sempre evasivi, né tantomeno del piano visivo, che più che mai in About Dry Grasses si fa rigido e stratificato, ma che vanno colti nei non detti, nei vuoti, negli stacchi di montaggio, nella profondità di un’immagine che rispecchia l’insondabile profondità dell’anima dei personaggi.
Uomini egoisti e narcisisti, incapaci di riconoscere gli inganni ai quali si sottopongono. Sempre tesi verso un “altro” dalla loro condizione attuale, sia esso collocato nel passato o nel futuro, che li condanna a un presente di frustrazione e meschinità. Uomini intrappolati nel loro personaggio, che parlano, ma che usano le parole come scudo per non esprimere ciò che non si rendono nemmeno conto di essere. Il protagonista di About Dry Grasses è, del resto, un’evoluzione del giovane Sinan protagonista di L’albero dei frutti selvatici (2018). Samet è un insegnante che è stato mandato in quell’est tanto temuto nel film del 2018, che vive l’esperienza come una reclusione e che non vede l’ora di andarsene. Un intellettuale impigrito, pessimista, che delega utopisticamente a una bambina la speranza per il futuro e guarda con scetticismo ogni forma di organizzazione sociale. Un individualista che si barrica dietro alle parole per giustificare la propria inabilità e che non si fa problemi a compiere del male per soddisfare il proprio ego. Di contrasto, i personaggi femminili di Sevim e di Nuray mettono il protagonista di fronte alle aporie del suo modo di interpretare la vita. La prima, infatti, tradisce la sua speranza in lei denunciando lui e Kenan al preside per comportamenti inopportuni, la seconda gli dimostra che si può essere sempre in grado di agire in qualsiasi luogo e in qualsiasi condizione.
Quello di Nuri Bilge Ceylan è un cinema in grado di scandagliare la condizione umana con precisione chirurgica, che si tiene sempre a una distanza perfetta dai personaggi tale da coinvolgere lo spettatore sia emotivamente sia intellettualmente. Un cinema mai superficiale nell’indagare le relazioni fra i personaggi, il contrasto fra sé e rappresentazione di sé, fra uomo e ambiente in cui si trova ad agire. About Dry Grasses prosegue su questa traiettoria e costruisce un mosaico di situazioni che portano lo spettatore a interrogarsi su ciò che autenticamente muove i personaggi, a cosa sono dovute le loro azioni e le loro parole. Offre allo stesso tempo la possibilità di empatizzare con il protagonista e di prenderne le distanze, di provare pietà per lui senza però arrivare ad assolverlo.
Ciò è dovuto, oltre che all’abilità degli attori e alla meticolosità della sceneggiatura, alla capacità del regista di legare dialoghi e immagini senza mai dare l’impressione che le une prendano il sopravvento sulle altre. Il cinema di Ceylan, del resto, discende direttamente dai grandi autori russi come Cechov e Dostoevskij. Se del primo ha appreso la lezione di non far mai dire ai propri personaggi ciò che pensano realmente, dal secondo ha appreso la capacità di costruire personalità in continuo mutamento, attraversate da diverse tensioni che trovano sfoghi inaspettati e imprevedibili. Quello del regista turco è però anche un cinema che discende da maestri come Tarkovskij, Kiarostami ed Angelopoulos e quindi intimamente legato alle possibilità drammaturgiche ed estetiche offerte dall’immagine.
In About Dry Grasses Ceylan è ancora una volta capace di sintetizzare i suoi riferimenti culturali. Il risultato è quindi un’opera che mostra fieramente il proprio ardente marchio autoriale e che non rinuncia a intrattenere un rapporto dialettico con la contemporaneità, analizzandola e restituendola sullo schermo in tutta la sua drammatica complessità, senza mai pretendere di dare giudizi e risposte. Quelli, al massimo, spettano allo spettatore.
La condizione umana è una pianta gelata,
recensione di Arturo Garavaglia
RV-39
19.11.2023
In uno sconfinato paesaggio innevato una figura avanza faticosamente. Siamo in un villaggio nell’est dell’Anatolia, è inverno, il secondo semestre scolastico sta per iniziare. La figura ha un nome e una professione. Si chiama Samet ed è ormai da quattro anni e mezzo che insegna arte nella scuola del paese. Fra pochi mesi scade il suo obbligo di mandato e ha un punteggio sufficiente per chiedere finalmente il trasferimento a ovest, forse a Istanbul. Il suo coinquilino, Kenan, insegna nel villaggio da sette anni, ma non ha alcuna intenzione di trasferirsi. Al contrario, cerca una donna con cui poter mettere su famiglia. Nella loro vita si affacciano due figure femminili. La prima è Sevim, giovane alunna per la quale Samet ripone un paternalistico sentimento d’affetto, l’altra è Nuray, insegnante d’inglese di una scuola della vicina città, molto attiva nel sociale, che è tornata a vivere nel luogo natale dopo la perdita di una gamba a seguito di un attentato terroristico.
È intorno a questi quattro personaggi che si struttura il nono lungometraggio di Nuri Bilge Ceylan, About Dry Grasses, premiato al Festival di Cannes per la miglior interpretazione femminile e presentato in anteprima in Italia a Roma nel corso della 29° edizione del Medfilm Festival. Giunto nella fase matura della sua carriera, il regista turco sembra aver trovato la formula drammaturgica perfetta per tenere insieme i diversi elementi che nutrono il suo cinema sin dagli esordi. Perché se c’è una sensazione che più di tutte rimane, terminate le tre ore e venti di visione del film, è quella di aver assistito a un’opera estremamente stratificata, esistenzialista ma allo stesso tempo politica, ambigua nonostante la marea di parole che la compongono, ermetica ma non per questo incapace di dialogare con lo spettatore. Di aver assistito, in sintesi, a un film in grado di racchiudere dentro pochi personaggi, poche situazioni narrative e pochi luoghi, un universo di significati.
Significati mai offerti allo spettatore sul piatto d’argento dei dialoghi, numerosi, precisi eppure sempre evasivi, né tantomeno del piano visivo, che più che mai in About Dry Grasses si fa rigido e stratificato, ma che vanno colti nei non detti, nei vuoti, negli stacchi di montaggio, nella profondità di un’immagine che rispecchia l’insondabile profondità dell’anima dei personaggi.
Uomini egoisti e narcisisti, incapaci di riconoscere gli inganni ai quali si sottopongono. Sempre tesi verso un “altro” dalla loro condizione attuale, sia esso collocato nel passato o nel futuro, che li condanna a un presente di frustrazione e meschinità. Uomini intrappolati nel loro personaggio, che parlano, ma che usano le parole come scudo per non esprimere ciò che non si rendono nemmeno conto di essere. Il protagonista di About Dry Grasses è, del resto, un’evoluzione del giovane Sinan protagonista di L’albero dei frutti selvatici (2018). Samet è un insegnante che è stato mandato in quell’est tanto temuto nel film del 2018, che vive l’esperienza come una reclusione e che non vede l’ora di andarsene. Un intellettuale impigrito, pessimista, che delega utopisticamente a una bambina la speranza per il futuro e guarda con scetticismo ogni forma di organizzazione sociale. Un individualista che si barrica dietro alle parole per giustificare la propria inabilità e che non si fa problemi a compiere del male per soddisfare il proprio ego. Di contrasto, i personaggi femminili di Sevim e di Nuray mettono il protagonista di fronte alle aporie del suo modo di interpretare la vita. La prima, infatti, tradisce la sua speranza in lei denunciando lui e Kenan al preside per comportamenti inopportuni, la seconda gli dimostra che si può essere sempre in grado di agire in qualsiasi luogo e in qualsiasi condizione.
Quello di Nuri Bilge Ceylan è un cinema in grado di scandagliare la condizione umana con precisione chirurgica, che si tiene sempre a una distanza perfetta dai personaggi tale da coinvolgere lo spettatore sia emotivamente sia intellettualmente. Un cinema mai superficiale nell’indagare le relazioni fra i personaggi, il contrasto fra sé e rappresentazione di sé, fra uomo e ambiente in cui si trova ad agire. About Dry Grasses prosegue su questa traiettoria e costruisce un mosaico di situazioni che portano lo spettatore a interrogarsi su ciò che autenticamente muove i personaggi, a cosa sono dovute le loro azioni e le loro parole. Offre allo stesso tempo la possibilità di empatizzare con il protagonista e di prenderne le distanze, di provare pietà per lui senza però arrivare ad assolverlo.
Ciò è dovuto, oltre che all’abilità degli attori e alla meticolosità della sceneggiatura, alla capacità del regista di legare dialoghi e immagini senza mai dare l’impressione che le une prendano il sopravvento sulle altre. Il cinema di Ceylan, del resto, discende direttamente dai grandi autori russi come Cechov e Dostoevskij. Se del primo ha appreso la lezione di non far mai dire ai propri personaggi ciò che pensano realmente, dal secondo ha appreso la capacità di costruire personalità in continuo mutamento, attraversate da diverse tensioni che trovano sfoghi inaspettati e imprevedibili. Quello del regista turco è però anche un cinema che discende da maestri come Tarkovskij, Kiarostami ed Angelopoulos e quindi intimamente legato alle possibilità drammaturgiche ed estetiche offerte dall’immagine.
In About Dry Grasses Ceylan è ancora una volta capace di sintetizzare i suoi riferimenti culturali. Il risultato è quindi un’opera che mostra fieramente il proprio ardente marchio autoriale e che non rinuncia a intrattenere un rapporto dialettico con la contemporaneità, analizzandola e restituendola sullo schermo in tutta la sua drammatica complessità, senza mai pretendere di dare giudizi e risposte. Quelli, al massimo, spettano allo spettatore.