Le donne del cinema
di Pedro Almodóvar,
di Pavel Belli Micati
TR-116
17.12.2024
Per rispondere alla domanda “Chi sono le donne del cinema di Almodóvar?”, bisognerebbe prima chiedersi “Cosa non sono le donne del cinema di Almodóvar”: il regista spagnolo classe ’49 - premio Oscar 2003 alla Miglior Sceneggiatura per Hable con ella (Parla con lei, 2002) - con il suo primo film in lingua inglese attualmente nelle sale, The Room Next Door (La stanza accanto, 2024), firma il suo ventiquattresimo lungo e presenta nuovamente al pubblico la sua estetica del femminile contemporaneo. Tilda Swinton e Julianne Moore interpretano Martha e Ingrid, due vecchie amiche che si ricongiungono dopo anni di lontananza per un affare scomodo: Ingrid è affetta da una malattia terminale, e chiede all’amica ritrovata una mano per togliersi la vita. Il film, che a settembre si è aggiudicato il Leone d’oro a Venezia, sfida ancora una volta le condizioni emotive e le reazioni sensibili a temi come il dolore e la morte che, nella filmografia del regista iberico, divengono sinonimi di una cosa sola: un amore tragico, a tratti patetico, per la vita.
Almodóvar, che vanta una ricca filmografia, si distingue nel panorama cinematografico spagnolo (e più precisamente europeo) come uno tra quei pochi registi che, invece di sperimentare continuamente tra nuove forme e contenuti, tornano spesso sulle proprie tematiche, aggiungendo e togliendo variazioni tra poetiche che sì, seguono un’evoluzione estetica, ma rimangono nella sostanza invariate; il leitmotiv più carico, tra questi, è il mondo interno delle donne, la psicologia descritta dei suoi plurali femminili, ora caricature esasperate della moderna classe medio-borghese come nella prima parte della carriera, ora personificazioni virtuose del dolore e della gloria che la vita produce e autorizza nei film più tardivi. Ma, che siano casalinghe povere, modelle, prostitute o facoltose ereditiere, poco importa nel cinema di Almodóvar: ciò che è nel linguaggio comune un demarcatore di genere, qui il femminile acquista una valenza plurale, e ancor prima di qualsiasi definizione diventa categoria sociale, caratteristica umana, denotazione sensibile e soprattutto, vena dichiaratamente ironica.
Sono le donne assetate di vendetta come la Pepi di Carmen Maura in Pepi, Luci, Bom y otra chicas del montón (Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio, 1980): una giovane soltera che, nella Madrid post-franchista, conduce una vita serena collezionando album di figurine. Mantenuta dai genitori, la ragazza arrotonda la paghetta coltivando piante di marijuana sul terrazzo di casa. Il padre, per incitarla a trovarsi un vero lavoro, le taglia i fondi; quando poi un poliziotto irrompe in casa sua, violentandola come prezzo da pagare per il silenzio in merito alla coltura illegale, Pepi (che pensava di vendere la verginità) mette a punto la sua vendetta. Durante i preparativi fa la conoscenza di Luci, la moglie frustrata del poliziotto che l’ha violentata. La nuova amicizia porta la neo-casalinga, frustrata per la mancanza d’attenzioni da parte del marito, a intraprendere un cammino di liberazione sessuale e un percorso di emancipazione identitaria. Luci, tramite Pepi, fa la conoscenza di Bom, una giovane punk amica della ragazza con cui inizia una relazione sessuale a filo tra desiderio e perversione.
Sin dal primo Almodóvar è immancabile la descrizione caricaturale di personaggi e di scenari che, invece di prendere ispirazione da modelli del cinema europeo, si rifà direttamente al teatro della tragicommedia iberica di Federico García Lorca. Il celebre drammaturgo andaluso, conosciuto più per la sua produzione poetica che non per la sua prosa teatrale, è una tra le maggiori ispirazioni del regista castigliano, e i suoi primi esperimenti risentono di tale influenza. In risposta alla programmatica barocca donchisciottesca che regolava la produzione letteraria di fine Seicento, García Lorca autorizzava a inizio Novecento un’analisi pasticciata del femminile che si ribellava alle descrizioni canoniche, e raccontava in copioni come Il linguaggio dei fiori, Mariana Pineda e Nozze di sangue, personificazioni dell’amore totalizzante e della perdita distruttrice - entrambi tropi d’origine cristiana e di approdo secolare - che sono entrate a pieno diritto nella tradizione culturale della Spagna liberata.
Il desiderio e la sottomissione, elementi che accompagneranno tutta l'opera del cineasta, tornano in Laberinto de pasiones (Labirinto di passioni, 1982), scellerato mosaico umano che intreccia le vite di nuovi tipi femminili, bizzarri e incredibili, che muovono i primi passi nella neonata monarchia parlamentare; così pure in Entre tinieblas (L’indiscreto fascino del peccato, 1983), dove Almodóvar firma una spietata satira contro il fervente puritanesimo cattolico da cui era reduce la Spagna franchista, dipingendo la vita tutt’altro che rigorosa di quattro monache di clausura. Già dagli anni Ottanta le sue storie assomigliano più a spettacoli finzionali che non a una realtà ispirata, e le protagoniste incarnano, invece che tipi umani, umanizzazioni simboliche di temi estemporanei. Ciò che è tema in Almodóvar (come la perversione) acquisisce ruolo di catarsi: come risultato in Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón, la violenza descritta non è mai esteticamente violenta e l’aggressività maschile è costantemente dissimulata; al contempo la rabbia e la frustrazione femminili diventano esse stesse dispositivo di evasione, tinte tramite cui le nuove eroine colorano un mondo bianco e nero che contrasta il loro sentire.
Così le ragazze del primo Almodóvar sono spesso estreme, a volte volgari, sempre iconoclaste: sfidano le convenzioni sociali, come Bom che pratica la boxe per tenersi in forma, e Luci e Pepi che ballano sul ring. La critica feroce ai costumi tradizionali cuciti sul femminile si amplia ed entra nelle mura domestiche in ¿Qué he hecho yo para merecer esto? (Che ho fatto io per meritarmi questo? 1984), dove Carmen Maura interpreta Gloria, una donna stanca della spesa da fare, delle minestre da preparare, e dei panni da lavare. La pobrecita casalinga deve mandare avanti la baracca in cui lei, suo marito e i figli Toni e Miguel, vivono: un piccolo appartamento nelle nuove case popolari della periferia madrilena. “Come ti trovi con la famiglia del tassista qui accanto?”, chiede il romanziere Lucas a Cristal, dirimpettaia di Gloria che fa l’attrice e anche la prostituta. “Bene. Lei è un po’ isterica, però povera Crista, fa una vita!”, risponde la ragazza apprensiva. La quotidianità alienante della domesticità conduce Gloria alla dipendenza. La donna dapprima inala i fumi tossici di solventi, detersivi e colle, poi passa alle anfetamine che cerca di acquistare senza la prescrizione.
“Le medicine che mi chiede sono droghe”, dice la farmacista a Gloria, che ribatte: “Allora sono una drogata!”. Almodóvar declina la dipendenza, in Gloria, come risultato di un ruolo in cui è costretta, condizione peggiorata dalla propria insipienza: “Mamma, tu sai quali furono le innovazioni introdotte nell’agricoltura nel diciottesimo secolo?” chiede Toni che, quando non studia, spaccia eroina. “A me lo chiedi? Capirai, lo sai che sono analfabeta. Quando torna domandalo a tuo padre!”. “Anche il vecchio è analfabeta”, ribatte il ragazzino. “Ma sul taxi si imparano tante cose!”, chiude la donna, frustrata dalla monotonia della sua esistenza e invidiosa del lavoro del marito, che oltre a meritargli lo status di provider gli fa vivere esperienze fuori dalle costrizioni familiari. Donne senza soldi ma piene di obblighi: pure la nonna feticcio, interpretata dalla storica Chus Lampreave, è sprovvista di strumenti e colma di rimorsi: “È proprio una croce essere analfabeti!”, sospira, mentre lamenta il freddo che fa solo a Madrid e piange il calmo tepore del paesino natale da cui è lontana. Le donne di Almodóvar hanno sete, hanno fame, hanno freddo: nel cercare soddisfazione ai loro bisogni (che sono anche i loro desideri), si lanciano nel labirinto insaziabile della dipendenza, sublimazione del sogno frustrato.
Il primo femminile di Almodóvar - stanco, frustrato, dipendente - è spesso e volentieri afflitto dalla maternità forzata e da matrimoni non desiderati: “Se nasco un’altra volta rimango zitella”, dice seccata Gloria, che rifiuta i ruoli che le vengono attribuiti. “Perché non mi adotti?” le chiede Vanessa, la bambina della vicina che odia sua figlia: “Nemmeno io sono una buona madre, credimi”, risponde Gloria. “Beh, allora ti adotto io!”, e così le figlie di Almodóvar, ripudiate dalle madri, fanno da madri a donne che ripudiano i propri figli. I ruoli si scambiano sempre, costantemente, così come il femminile di Matador (1986) si trasforma: all’inizio materno ostativo, diventa promessa di cura e infine condanna alla sottomissione maschile. Antonio Banderas è Ángel, giovane di buona famiglia che tenta, senza successo e senza motivo, di violentare Eva, una vicina che di notte incontra per strada. “Le donne bisogna trattarle come i tori, metterle alle corde senza che se ne accorgano”, gli insegna Diego, ex torero ora insegnante di corrida che dispensa consigli su come approcciare le femmine; dopo essersi costituito per il tentato stupro, Ángel, pieno di sensi di colpa, confessa alla polizia omicidi che non ha commesso.
Il mondo attorno a Ángel gli crede, perché un violentatore è pure un assassino, ma per María Cardenal, che prende le difese del ragazzo, i sospetti ricadono sul torero in pensione. Le donne di Almodóvar ai tori preferiscono i toreri, ma questi poi scappano, lasciandole sole con le loro corride. Condannate a uomini che amano, preferiscono comunque apparire ridicole pur di non rinunciare ai loro sentimenti, sfidando anche la morte. Se per gli uomini di Almodóvar uccidere è un delitto, per le donne diventa dovere, una forma di espiazione. E così María Cardenal è avvocata ma anche assassina, e nell’epilogo cerca di uccidere Eva, la fidanzata di Diego: “Non ti permetterò di vederlo, troia fottuta!”, urla la povera ragazza, prima di correre dalla polizia che però non le crede. Sofferenti, a pezzi, alle donne è negata pure l’attendibilità della loro confessione, come quando Gloria confessa l’omicidio accidentale del marito e il commissario la congeda sostenendo che è impossibile per una donna ammazzare il proprio uomo.
Il desiderio di vendetta rimane frustrato, quando non rimosso - come ne La ley del deseo (La legge del desiderio, 1987): Pablo, affermato regista, approfitta della fuga di Juan, che lo ama senza essere ricambiato, e comincia una relazione con Antonio, giovane uomo in esplorazione sessuale.Tina, attrice e sorella di Pablo, insegue il fratello come una domestica e bada pure alla piccola Ada, la figlia di una top model che non ne vuole sapere di crescerla. La situazione precipita quando la polizia rinviene sulla spiaggia di un paesino della costa andalusa il cadavere di Juan. Gli inquirenti vagliano l’ipotesi di omicidio e puntano il dito contro Pablo, il quale soffre un doppio senso di colpa: prima ha allontanato dalla sua vita Juan, accogliendo al suo posto Antonio, e poi ha permesso che l’uomo morisse, anche perché Antonio è, in realtà, una minaccia più pericolosa di un semplice amante alla ricerca di spasso. Di ritorno dall’obitorio, Pablo è coinvolto in un incidente e perde la memoria. Intanto Antonio, sempre più ossessionato da Pablo, inizia una relazione con Tina, e questo legame mette in pericolo le sorti di tutti i presenti. In sogno, Pablo riacquista la memoria: sua sorella Tina, nata come suo fratello, viveva una relazione incestuosa con il padre dei due; padre e figlio erano volati in Marocco dove lui l’aveva prima sottoposto al cambio di sesso e poi abbandonata per un ragazzo più giovane.
La Tina di Carmen Maura è fenomeno esterno di un rimosso interno e, come estensione al fratello, ne condivide tutte le sofferenze, con l’aggiunta però degli attributi femminili. Le donne sono costrette ad essere donne, ma pure gli uomini sono forzati a diventare donne, come prosegue La piel que habito (La pelle che abito, 2011): Antonio Banderas veste i panni di Robert, chirurgo di fama internazionale alle prese col brevetto di una pelle artificiale resistente al fuoco. L’uomo è segnato dall’incidente avvenuto anni addietro in cui perse la vita la donna amata, sua moglie Gal, e da cui non si è più ripresa la figlia Norma. Lo scienziato pazzo fa gli esperimenti su Vera, cavia che vive segregata da tempo nella villa di lusso in cui abita Robert. Vittima della mano che la nutre, personificazione della sindrome di Stoccolma, Vera cerca di ricordare il suo passato, non sa di essere fautrice della stessa condizione da cui vuole fuggire. Il passato nascosto, le verità taciute, diventano in Almodóvar inserti narrativi che producono azione e creano terrore. Le donne fanno così le valigie e scappano dal loro passato.
Ma il passato le raggiunge sempre e, una volta alle strette, le spinge sull’orlo del precipizio, sul quale si affacciano senza però gettarcisi: perché queste donne si raccontano come martiri, mai come vittime. Tina adora le parti drammatiche, piangere e disperarsi al telefono, mentre Vera apprezza le premure che il suo aguzzino le riserva. Per loro amare è un delitto, ma tutte sono disposte a pagarne l’alto prezzo. Vulnerabili e imperfette, si nascondono, scompaiono, si isolano sulla cima di alte torri, come la Pepa di Mujeres al borde de un ataque de nervios (Donne sull’orlo di una crisi di nervi, 1988): “Sono mesi che mi sono trasferita su questo attico. L’ho fatto perché il mondo stava cadendo a pezzi, e io volevo salvarlo, e salvarmi”, racconta nell’incipit l’attrice abbandonata che prepara la valigia ad Iván, l’amante che ha deciso di lasciarla. Nell’opera-gioiello che gli fa conquistare una candidatura agli Oscar e lo consacra nell’Olimpo, Almodóvar sonda l’infelicità femminile nelle sue tinte più alto-borghesi. “Si riposi, non fumi troppo e mangi bene”, questi sono i consigli che il medico dà a Pepa, che scopre di aspettare un figlio dall’uomo che l’ha appena piantata.
La donna, che nervosa aspetta una chiamata che non arriva, è intenzionata ad informare l’uomo della gravidanza. Una serie assurda di eventi però le fa mettere da parte il dolore per l’abbandono subito in vista di guai peggiori: la sua amica Candela, una poveretta più sprovveduta di lei, ha accolto in casa un terrorista con cui ha passato una notte di fuoco; l’uomo, ricercato dalle autorità, ha invitato il gruppo di dissidenti che le ha occupato casa. Questi poveri angeli amano in presenza dell’amore, e soffrono nell’assenza di esso, cifra indistinguibile dei tipi almodóvariani: anche se il regista ha affermato più volte di essere ateo, è la promessa religiosa dell’unione d’amore che lega le malcapitate ai loro destini infelici. Pepa manda giù sonniferi a iosa, preme ossessiva sul frullatore e con rabbia pigia i tasti del telefono, nella speranza illusoria che la voce di Iván risponda, consapevole che non lo farà. Così va sul terrazzo, dal quale desidera gettarsi proprio come Gloria, ma non lo fa e invece innaffia le piante, con cui condivide la medesima sete.
“Sono stanca di essere buona”, esplode furiosa Pepa che si prepara alla rivoluzione. “Adesso mi libero di tutto”, e dà fuoco ai regali dell’amante, compreso uno stupido fiore di plastica. Donne sulle torri, donne intrappolate dall’amore, incarcerate come galline in un pollaio: “La sua amica ha commesso un crimine”, la polizia accusa Candela di favoreggiamento al terrorismo. “Il suo unico crimine è stato quello di innamorarsi come un’idiota”, risponde impassibile Pepa. Il crimine delle eroine di Almodóvar è sempre l’amore; più precisamente, galeotto è l’innamoramento: come un procedimento poetico ma anche come sacrificio predestinato, questo innamorarsi porta alla pazzia sia Pepa, sia Lucía, la moglie di Iván fresca di manicomio che vuole vendicarsi per l’abbandono del marito. “Solo ammazzandolo riuscirò a dimenticarlo”, la donna folle confida a Pepa l’intenzione di commettere l’uxoricidio. Il marito adultero, nel frattempo, è in procinto di partire con la nuova amante – perché sì, le donne di Almodóvar scappano sempre da sole, ma gli uomini viaggiano accompagnati.
Donne che preparano le valigie, ma per chi? Donne in preda al delirio, che rinsaviscono solo quando incontrano donne ancor più deliranti di loro. Pepa seda la furia omicida di Lucía, salvando dalla morte Iván che, come un cane bastonato, le chiede perdono: “Mi sono comportato male con te, non sai quanto mi dispiace”, la prega a singhiozzi, ma a Pepa le scuse arrivano tardi. Anche se l’uomo rinuncia alla partenza con l’amante, Pepa rinuncia in ultima istanza all’uomo, decidendo di non rivelargli la gravidanza, alza i tacchi e se ne va.
Madri sole e abbandonate continuano in Tacones lejanos (Tacchi a spillo, 1991), dove Marisa Paredes è Becky del Páramo, famosa cantante e parodia di un materno anaffettivo di cui patisce i traumi la figlia Becky. Donne costrette a camminare su tacchi alti, e capelli di donne che si impigliano tra i pendientes: nel dramma che decreta l’approdo meta-noir del regista al suo cinema, Rebecca e Becky sono il contraltare peripatetico allo storico duo Liv Ullmann/Ingrid Bergman in Höstsonaten (Sinfonia d’autunno, 1978), analisi sul rapporto madre-figlia e disamina sulla dicotomia successo di carriera-insuccessi d’amore in cui le due si proiettano.
La colpa di Becky è l’inadempienza ai compiti materni, la pena da scontare è la gelosia filiale che autorizza i crimini di passione. “Ho passato la vita ad imitarti”, dice una Rebecca vendicativa alla madre, una donna che, dopo aver vissuto una vita in Messico, torna a Madrid e ruba alla figlia il marito. Il femminile di Almodóvar, parodia dei tipi occidentali, caricatura di descrizioni secolari, intrattiene un rapporto del tutto paradossale con la legge. Se le agnizioni finali riuniscono madri e figlie sulla comune virtù della confessione, come pure in Volver (Volver - Tornare, 2006), la giustizia segue invece copioni irrazionali: spesso trasposta in simpatiche macchiette del buono e del cattivo poliziotto che, quando si trova di fronte al crimine femminile, finisce per essere colluso. Rebecca, gelosa del marito intenzionato a lasciarla per la madre, lo uccide. La giovane donna confessa l’omicidio, ma al commissario convince più la confessione ultima della madre che, in fin di vita, si riappacifica con la figlia disperata d’amore. Non è così facile essere colpevoli, servono prove schiaccianti. Anche la colpa, queste povere donne, devono meritarsela, nel cinema di Almodóvar.
“Il dolore rende le donne egoiste, perché le assorbe totalmente”, dice la make-up artist a domicilio e protagonista omonima di Kika (Kika - Un corpo in prestito, 1993), che viene aggredita e violentata da Pablo: porno attore con precedenti, l’uomo è evaso dalla prigione e fa visita alla sorella Juana, che lavora come domestica per Ramón, il fidanzato di Kika. A stupro avvenuto, lui fugge lanciandosi dalla finestra. Donne violentate e donne imbavagliate emergono in questa parabola che cela una sottile e ironica critica alla pornografizzazione del dolore, in una cronaca dove la televisione entra e influenza la storia. Sullo sfondo di una Madrid disegnata, Andrea, conduttrice di un programma d’informazione trash che prospera sulle peggiori vicende della cronaca nera, si mette alla ricerca dell’uomo di cui si sono perse le tracce. Il desiderio dell’esclusiva sulla confessione del reo mette la donna in serio pericolo e sconvolge le esistenze quiete di Ramón e suo padre Nicholas, vecchio romanziere in crisi che nasconde una brutta verità al figlio. Questi legami familiari, questi rapporti di sangue, torneranno ad animare il nucleo narrativo della produzione successiva del regista.
In La flor de mi secreto (Il fiore del mio segreto, 1995) la condizione domestica è ripresa e ampliata, qui condensata nella migliore interpretazione di Marisa Paredes. Il copione metaletterario viviseziona il dolore della scrittura e analizza la condizione che il femminile affronta nelle attese del quotidiano. Paredes è Leo, scrittrice di romanzetti rosa con le ambizioni di grande romanziere: alla macchina da scrivere indossa gli stivali del suo uomo Paco, militare impegnato con la NATO nel conflitto in Bosnia; la donna, che aspetta una chiamata dall’amato, cerca lavoro presso un giornale, chiede al direttore di scrivere nella sezione di letteratura, si prende cura della madre anziana e si preoccupa per la sorella solitaria, mentre soffre l’attesa di un ritorno ideale. In equilibrio precario tra il dolore dell’assenza e la vita presente, Leo, come le altre ragazze, piange e ascolta musica strappalacrime, ingoia tranquillanti in dosi massicce e non accetta la realtà. E la realtà - come succede nella vita ma soprattutto com’è descritta nel finale de La flor de mi secreto - è che anche l’amore finisce: “Ma com’è la vita, così crudele, così paradossale, e a volte così giusta”, conclude una Leo rinsavita, pronta a voltare finalmente pagina.
Le donne di Almodóvar non sono antieroine, anche se il suo cinema è postmoderno. Nella definizione presa in prestito dall’epica, gli eroi condividono un senso del tragico che infonde ciascuna tappa del loro cammino, su un intreccio spesso così confuso e a tratti patetico da risultare più vero che mai. Gli antieroi rinunciano alle autocelebrazioni, rifiutano le profusioni metafisiche e ridono in faccia a ogni forma di straniamento; le eroine di Almodóvar vivono solo nell’apologia di sé, sognano mondi illusori e si aggrappano con gravità a qualsiasi cosa incontrino nel loro destino, anche se banale, soprattutto se tremenda: sono così delusional e self-aware insieme che la dimensione dove la loro tragedia si consuma non esiste mai esclusivamente nel sogno o nella realtà: sta in uno spazio semicosciente tra i due piani. Un po’ come nello stato comatoso, tema presente sia in Kika sia ne La flor de mi secreto e che torna in Hable con ella: due uomini che stringono amicizia prendendosi cura dei rispettivi amori, due donne cadute in coma a seguito di gravi incidenti: la torera Lydia spezzata in due dalla bestia durante una corrida; la ballerina Alicia coinvolta in uno scontro automobilistico.
“Le donne bisogna tenerle in considerazione, parlare con loro, avere un pensierino di tanto in tanto, accarezzarle spesso, ricordarle che esistono, che sono vive, e che per noi contano, questa è l’unica terapia!” confida Benigno a Marco, che non sa come prendersi cura dell’amata che non parla né si muove. In Almodóvar, il coma diventa lo spazio liminale tra una sofferenza attiva e una tregua passiva, assume carattere positivo in quanto, nel suo cinema, i vivi non vivono mai davvero e i morti non muoiono mai sul serio. Questo binario morte/vita è ripreso ne La mala educación (2004), dove la storia di un amore infantile si lega alla composizione narrativa e ne influenza gli esiti: l’autentica Zahara, interpretata da Ignacio, che è Ángel, diventa metafora del riscatto di un amore proibito e vendetta di un trauma subito: l’evento generativo riposa nel passato ma affonda le radici fin dentro il presente, minacciando il futuro di un film difficile da realizzare. Il passato genera un trauma che incide sulle identità plurali; queste trasformano le storie individuali dei personaggi e, sulla parodia di Colazione da Tiffany, sia vittime che carnefici non riescono a riconoscersi nei rispettivi ruoli.
I vivi non vivono e i morti non muoiono: in Volver i vivi cercano di sopravvivere, pedinati da fantasmi che tornano improvvisamente nelle loro vite. Nell’arido paesino in cui vivono Raimunda e la figlia Paula, l’usanza del posto è che i vivi comprino lo spazio di terreno al cimitero e, in attesa dell’ora finale, lo curino, spolverando le lapidi ed estirpando le erbacce. Torna l’opposizione tra il femminile subalterno al maschile nei rapporti gerarchici regolati dalla vita domestica: qui gli uomini guardano la partita, perdono il lavoro e molestano le figlie delle donne che amano. Quando Paula reagisce alle molestie del patrigno uccidendolo, sua madre la copre e nasconde il cadavere dell’uomo in un surgelatore, raccontando in paese che Paco l’ha lasciata. Perché in Almodóvar la morte dell’amato o la sua fuga si equivalgono, sempre. Nel frattempo, nella vita di Soledad (sorella di Raimunda) torna Irene, madre delle due donne, scomparsa da tempo e creduta morta. Le ragioni della fuga dell’anziana e quelle sull’occultamento della donna sono molto simili, e piano piano la verità torna a galla.
Donne che seppelliscono uomini, donne che riparano ai loro danni, donne che commettono omicidi e donne che spariscono. Donne ammalate che in extremis rinunciano a cure salvifiche, preferendo l’estrema unzione; come Agustina, cugina di Raimunda e Paula che, malata terminale, non parte per gli Stati Uniti perché vuole morire nel luogo in cui è nata. Madri che optano per il silenzio e figlie che non lo comprendono, tranne quando diventano madri a loro volta, perché anche se sentono l’urgenza di parlare, di confessarsi i peccati, è proprio nel silenzio che mostrano tutta la loro comprensione. Raimunda, senza soldi e senza uomo, prende in gestione il bar sotto casa e una sera canta per la troupe cinematografica che festeggia la fine delle riprese: “Tengo miedo del encuentro con el pasado que vuelve a enfrentarse con mi vida”, grida la donna con le lacrime agli occhi, crede di aver visto il fantasma della madre; dall’altra parte, Irene si nasconde dalla figlia perché terrorizzata dalla rabbia che Raimunda serba per il suo abbandono.
Donne che parlano davanti a un caffè, donne che si confessano l’amore disperato per terroristi e stupratori, donne che si dicono la verità, donne che non possono mentire le une alle altre: Penélope Cruz torna nei panni di Elena, una povera segretaria d’ufficio con il sogno di diventare attrice, ne Los abrazos rotos (Gli abbracci spezzati, 2008). Qui troviamo chiavi nascoste, cassetti chiusi a chiave che nascondono lettere scritte e mai spedite, sigillate e mai aperte, ricevute e mai lette. Lettere che sono confessioni di voci che non ci sono più. La cecità corticale di un regista serve da metafora alla cecità maschile che non legge la disperazione femminile, perché non vede le migliaia di frammenti in cui le donne si rompono, cercando di ricomporsi, come le fotografie di un amore passato che nessuno ricorda più. Ne Los Abrazos Rotos le donne parlano ma hanno paura che gli uomini parlino. La paura della verità diventa impossibilità di proseguire la storia, chiudere la narrazione, finire il film.
Donne che vivono nella promessa di uomini che non sanno stare da soli, e donne che si sentono sole senza uomini; come Vera Cruz, una sorta di Orlando iberico, unica superstite del dramma de La piel que habito; ma anche come Julieta (2016), scrittrice che rinnega la propria maternità perché il dolore per la perdita dell’amato è più grande di qualsiasi gioia che il frutto del loro amore, Antía, può portare. Julieta parla in una lunga lettera, uno scritto-confessione a cui dà voce, una verità che il suo pubblico ascolta, esposto su tutte le ragioni irragionevoli che portano le madri ad abbandonare i loro figli, a torturarsi, a sentirsi libere e al contempo intrappolate. Come in Dolor y Gloria (2019), un Almodóvar più maturo racconta con minor ironia le sue donne, perché i suoi intrecci prediligono una maggior introspezione nel dolore. E così le figlie fanno da madri a donne che hanno perso i loro uomini, e diventano i loro surrogati, le loro dipendenze: madri tossicodipendenti e figlie come droghe.
Ci sono poi le madri che partoriscono figlie che i padri non riconoscono; come Janis e Ana in Madres Paralelas (2021), che danno alla luce nello stesso giorno Cecilia e Anita. Le neonate, tenute in osservazione, vengono scambiate. Passano gli anni, Janis apprende dell’equivoco tramite un test del DNA e poco dopo ritrova Ana, che le rivela della morte prematura della piccola Anita. Divorata dalla colpa, Janis accoglie la povera donna in casa e la invita a prendersi cura di Cecilia, sua figlia di diritto. Madri sfortunate e madri negate; ma anche madri che diventano amanti attraverso l’amore che nutrono per le figlie, e nuovi amori minacciati dal ritorno di vecchi amanti che rivendicano la loro paternità. Madri che, senza uomini, diventano padri per le loro figlie, come la Martha di Tilda Swinton in The Room Next Door, e sua figlia Michelle che le rimprovera per la sua assenza. Martha ha lavorato tutta la vita come corrispondente di guerra e, giunta la notizia di una malattia incurabile, cerca la vecchia amica Ingrid, anche lei scrittrice, di biografie romanzate però. Donne che hanno pochissimo tempo e non vogliono sprecarlo, e che si tengono la mano, mentre vanno incontro alla fine del mondo.
“Questo mondo è assurdo e disumano, e non credo cambierà molto presto”, realizza sconsolata Ingrid che ha accompagnato Martha in vacanza, un viaggio dove la donna si toglierà la vita per vincere un cancro che lentamente la divora. L’ultimo Almodóvar racconta di vecchie amiche in fin di vita che si ritrovano e si raccontano tutto quello che è successo loro, tessendovi una denuncia all’accanimento terapeutico e difendendo la libertà individuale di scegliere per la non vita. Di donne romanziere e donne giornaliste, che devono rimanere sincere e oneste anche quando vivono l’inferno. Donne che non sono stoiche, ma nemmeno si autocommiserano perché, se c’è una cosa che Almodóvar ha sempre odiato, è proprio l’autocommiserazione. Donne che affrontano la morte in guerra ma anche nella vita; che decidono di morire in luoghi sconosciuti perché il passato non fa bene alla verità, e la verità, in The Room Next Door, è contenuta in una pillola, sigillata in una lettera e riposta in un cassetto – con la chiave stavolta inserita. Donne che restano al fianco di altre donne e amiche che rimangono nella stanza accanto.
Sono donne che conoscono la nuda e cruda verità, cercano a tutti i costi di negarla, evadono in un mondo finzionale dove il loro sentire regola i loro successi e il non-sentire degli altri decreta la loro disfatta. La donna Rosita di García Lorca sapeva tutto, sin dall’inizio, eppure alla verità ha preferito la sua menzogna. Così come anche la Blanche di Tennessee Williams, omaggiata in Todo sobre mi madre (Tutto su mia madre, 1999). E comunque, queste donne non rinunciano a ciò che il destino tiene in serbo per loro, non si negano le illusioni (e le brucianti delusioni) che accompagnano il loro sentire. È un senso che va oltre ogni cosa perché, proprio come ha affermato Almodóvar a proposito di Mujeres al borde de un ataque de nervios, è “l’emozione sentimentale il miglior veicolo per raccontare qualunque storia.” E così, in The Room Next Door, come ha scritto Beatrice Gangi, è sul binomio presenza/assenza che il sentimento produce la narrazione, rendendo un tableau interiore in dialogo continuo tra ciò che c’è stato e ciò che non può tornare. Perché, se le ragazze di Almodóvar vivono alla presenza della passione, brillano di più nella sua assenza.
Le ragazze di Almodóvar sono sempre sull’orlo della rivoluzione, ma non la fanno, perché alla promessa di un nuovo ordine preferiscono la sopraffazione a quello vecchio. Alla fine, i loro bisogni sono puri desideri, e i desideri diventano realtà solo nei sogni: tutte sognano la rivoluzione, desiderano farla e rompere l’unità, superarsi e ottenere la gloria; ma poi si svegliano e si accorgono che niente di ciò che sognano è possibile, i loro desideri rimangono irrealizzati. Cosa rimane? Resta la realtà, che è la vita. Perché la rivoluzione è francese, è laica, è un’utopia secolare; mentre il martirio è parabola cristiana, simbolo di una resa incondizionata, tragica ma anche comica davanti all’onnipotenza della vita.
Per essere delle vere rivoluzionarie, le donne di Almodóvar dovrebbero immolarsi, ardere come Giovanna d’Arco e risorgere dalle proprie ceneri come nuovi uomini. Rimangono invece ragazze sull’orlo di una rivoluzione; ma va bene così perché le loro sconfitte sono autentiche e, come conclude Agrado in Todo sobre mi madre, nel suo celebre monologo sull’individuazione femminile, “Costa molto essere autentica, signora mia, e in questa cosa non si deve essere tirchie, perché una è più autentica quanto più assomiglia all’idea che ha di sé”.
Dedicato a Marisa Paredes (3 aprile 1946 - 17 dicembre 2024)
Le donne del cinema
di Pedro Almodóvar,
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TR-116
17.12.2024
Per rispondere alla domanda “Chi sono le donne del cinema di Almodóvar?”, bisognerebbe prima chiedersi “Cosa non sono le donne del cinema di Almodóvar”: il regista spagnolo classe ’49 - premio Oscar 2003 alla Miglior Sceneggiatura per Hable con ella (Parla con lei, 2002) - con il suo primo film in lingua inglese attualmente nelle sale, The Room Next Door (La stanza accanto, 2024), firma il suo ventiquattresimo lungo e presenta nuovamente al pubblico la sua estetica del femminile contemporaneo. Tilda Swinton e Julianne Moore interpretano Martha e Ingrid, due vecchie amiche che si ricongiungono dopo anni di lontananza per un affare scomodo: Ingrid è affetta da una malattia terminale, e chiede all’amica ritrovata una mano per togliersi la vita. Il film, che a settembre si è aggiudicato il Leone d’oro a Venezia, sfida ancora una volta le condizioni emotive e le reazioni sensibili a temi come il dolore e la morte che, nella filmografia del regista iberico, divengono sinonimi di una cosa sola: un amore tragico, a tratti patetico, per la vita.
Almodóvar, che vanta una ricca filmografia, si distingue nel panorama cinematografico spagnolo (e più precisamente europeo) come uno tra quei pochi registi che, invece di sperimentare continuamente tra nuove forme e contenuti, tornano spesso sulle proprie tematiche, aggiungendo e togliendo variazioni tra poetiche che sì, seguono un’evoluzione estetica, ma rimangono nella sostanza invariate; il leitmotiv più carico, tra questi, è il mondo interno delle donne, la psicologia descritta dei suoi plurali femminili, ora caricature esasperate della moderna classe medio-borghese come nella prima parte della carriera, ora personificazioni virtuose del dolore e della gloria che la vita produce e autorizza nei film più tardivi. Ma, che siano casalinghe povere, modelle, prostitute o facoltose ereditiere, poco importa nel cinema di Almodóvar: ciò che è nel linguaggio comune un demarcatore di genere, qui il femminile acquista una valenza plurale, e ancor prima di qualsiasi definizione diventa categoria sociale, caratteristica umana, denotazione sensibile e soprattutto, vena dichiaratamente ironica.
Sono le donne assetate di vendetta come la Pepi di Carmen Maura in Pepi, Luci, Bom y otra chicas del montón (Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio, 1980): una giovane soltera che, nella Madrid post-franchista, conduce una vita serena collezionando album di figurine. Mantenuta dai genitori, la ragazza arrotonda la paghetta coltivando piante di marijuana sul terrazzo di casa. Il padre, per incitarla a trovarsi un vero lavoro, le taglia i fondi; quando poi un poliziotto irrompe in casa sua, violentandola come prezzo da pagare per il silenzio in merito alla coltura illegale, Pepi (che pensava di vendere la verginità) mette a punto la sua vendetta. Durante i preparativi fa la conoscenza di Luci, la moglie frustrata del poliziotto che l’ha violentata. La nuova amicizia porta la neo-casalinga, frustrata per la mancanza d’attenzioni da parte del marito, a intraprendere un cammino di liberazione sessuale e un percorso di emancipazione identitaria. Luci, tramite Pepi, fa la conoscenza di Bom, una giovane punk amica della ragazza con cui inizia una relazione sessuale a filo tra desiderio e perversione.
Sin dal primo Almodóvar è immancabile la descrizione caricaturale di personaggi e di scenari che, invece di prendere ispirazione da modelli del cinema europeo, si rifà direttamente al teatro della tragicommedia iberica di Federico García Lorca. Il celebre drammaturgo andaluso, conosciuto più per la sua produzione poetica che non per la sua prosa teatrale, è una tra le maggiori ispirazioni del regista castigliano, e i suoi primi esperimenti risentono di tale influenza. In risposta alla programmatica barocca donchisciottesca che regolava la produzione letteraria di fine Seicento, García Lorca autorizzava a inizio Novecento un’analisi pasticciata del femminile che si ribellava alle descrizioni canoniche, e raccontava in copioni come Il linguaggio dei fiori, Mariana Pineda e Nozze di sangue, personificazioni dell’amore totalizzante e della perdita distruttrice - entrambi tropi d’origine cristiana e di approdo secolare - che sono entrate a pieno diritto nella tradizione culturale della Spagna liberata.
Il desiderio e la sottomissione, elementi che accompagneranno tutta l'opera del cineasta, tornano in Laberinto de pasiones (Labirinto di passioni, 1982), scellerato mosaico umano che intreccia le vite di nuovi tipi femminili, bizzarri e incredibili, che muovono i primi passi nella neonata monarchia parlamentare; così pure in Entre tinieblas (L’indiscreto fascino del peccato, 1983), dove Almodóvar firma una spietata satira contro il fervente puritanesimo cattolico da cui era reduce la Spagna franchista, dipingendo la vita tutt’altro che rigorosa di quattro monache di clausura. Già dagli anni Ottanta le sue storie assomigliano più a spettacoli finzionali che non a una realtà ispirata, e le protagoniste incarnano, invece che tipi umani, umanizzazioni simboliche di temi estemporanei. Ciò che è tema in Almodóvar (come la perversione) acquisisce ruolo di catarsi: come risultato in Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón, la violenza descritta non è mai esteticamente violenta e l’aggressività maschile è costantemente dissimulata; al contempo la rabbia e la frustrazione femminili diventano esse stesse dispositivo di evasione, tinte tramite cui le nuove eroine colorano un mondo bianco e nero che contrasta il loro sentire.
Così le ragazze del primo Almodóvar sono spesso estreme, a volte volgari, sempre iconoclaste: sfidano le convenzioni sociali, come Bom che pratica la boxe per tenersi in forma, e Luci e Pepi che ballano sul ring. La critica feroce ai costumi tradizionali cuciti sul femminile si amplia ed entra nelle mura domestiche in ¿Qué he hecho yo para merecer esto? (Che ho fatto io per meritarmi questo? 1984), dove Carmen Maura interpreta Gloria, una donna stanca della spesa da fare, delle minestre da preparare, e dei panni da lavare. La pobrecita casalinga deve mandare avanti la baracca in cui lei, suo marito e i figli Toni e Miguel, vivono: un piccolo appartamento nelle nuove case popolari della periferia madrilena. “Come ti trovi con la famiglia del tassista qui accanto?”, chiede il romanziere Lucas a Cristal, dirimpettaia di Gloria che fa l’attrice e anche la prostituta. “Bene. Lei è un po’ isterica, però povera Crista, fa una vita!”, risponde la ragazza apprensiva. La quotidianità alienante della domesticità conduce Gloria alla dipendenza. La donna dapprima inala i fumi tossici di solventi, detersivi e colle, poi passa alle anfetamine che cerca di acquistare senza la prescrizione.
“Le medicine che mi chiede sono droghe”, dice la farmacista a Gloria, che ribatte: “Allora sono una drogata!”. Almodóvar declina la dipendenza, in Gloria, come risultato di un ruolo in cui è costretta, condizione peggiorata dalla propria insipienza: “Mamma, tu sai quali furono le innovazioni introdotte nell’agricoltura nel diciottesimo secolo?” chiede Toni che, quando non studia, spaccia eroina. “A me lo chiedi? Capirai, lo sai che sono analfabeta. Quando torna domandalo a tuo padre!”. “Anche il vecchio è analfabeta”, ribatte il ragazzino. “Ma sul taxi si imparano tante cose!”, chiude la donna, frustrata dalla monotonia della sua esistenza e invidiosa del lavoro del marito, che oltre a meritargli lo status di provider gli fa vivere esperienze fuori dalle costrizioni familiari. Donne senza soldi ma piene di obblighi: pure la nonna feticcio, interpretata dalla storica Chus Lampreave, è sprovvista di strumenti e colma di rimorsi: “È proprio una croce essere analfabeti!”, sospira, mentre lamenta il freddo che fa solo a Madrid e piange il calmo tepore del paesino natale da cui è lontana. Le donne di Almodóvar hanno sete, hanno fame, hanno freddo: nel cercare soddisfazione ai loro bisogni (che sono anche i loro desideri), si lanciano nel labirinto insaziabile della dipendenza, sublimazione del sogno frustrato.
Il primo femminile di Almodóvar - stanco, frustrato, dipendente - è spesso e volentieri afflitto dalla maternità forzata e da matrimoni non desiderati: “Se nasco un’altra volta rimango zitella”, dice seccata Gloria, che rifiuta i ruoli che le vengono attribuiti. “Perché non mi adotti?” le chiede Vanessa, la bambina della vicina che odia sua figlia: “Nemmeno io sono una buona madre, credimi”, risponde Gloria. “Beh, allora ti adotto io!”, e così le figlie di Almodóvar, ripudiate dalle madri, fanno da madri a donne che ripudiano i propri figli. I ruoli si scambiano sempre, costantemente, così come il femminile di Matador (1986) si trasforma: all’inizio materno ostativo, diventa promessa di cura e infine condanna alla sottomissione maschile. Antonio Banderas è Ángel, giovane di buona famiglia che tenta, senza successo e senza motivo, di violentare Eva, una vicina che di notte incontra per strada. “Le donne bisogna trattarle come i tori, metterle alle corde senza che se ne accorgano”, gli insegna Diego, ex torero ora insegnante di corrida che dispensa consigli su come approcciare le femmine; dopo essersi costituito per il tentato stupro, Ángel, pieno di sensi di colpa, confessa alla polizia omicidi che non ha commesso.
Il mondo attorno a Ángel gli crede, perché un violentatore è pure un assassino, ma per María Cardenal, che prende le difese del ragazzo, i sospetti ricadono sul torero in pensione. Le donne di Almodóvar ai tori preferiscono i toreri, ma questi poi scappano, lasciandole sole con le loro corride. Condannate a uomini che amano, preferiscono comunque apparire ridicole pur di non rinunciare ai loro sentimenti, sfidando anche la morte. Se per gli uomini di Almodóvar uccidere è un delitto, per le donne diventa dovere, una forma di espiazione. E così María Cardenal è avvocata ma anche assassina, e nell’epilogo cerca di uccidere Eva, la fidanzata di Diego: “Non ti permetterò di vederlo, troia fottuta!”, urla la povera ragazza, prima di correre dalla polizia che però non le crede. Sofferenti, a pezzi, alle donne è negata pure l’attendibilità della loro confessione, come quando Gloria confessa l’omicidio accidentale del marito e il commissario la congeda sostenendo che è impossibile per una donna ammazzare il proprio uomo.
Il desiderio di vendetta rimane frustrato, quando non rimosso - come ne La ley del deseo (La legge del desiderio, 1987): Pablo, affermato regista, approfitta della fuga di Juan, che lo ama senza essere ricambiato, e comincia una relazione con Antonio, giovane uomo in esplorazione sessuale.Tina, attrice e sorella di Pablo, insegue il fratello come una domestica e bada pure alla piccola Ada, la figlia di una top model che non ne vuole sapere di crescerla. La situazione precipita quando la polizia rinviene sulla spiaggia di un paesino della costa andalusa il cadavere di Juan. Gli inquirenti vagliano l’ipotesi di omicidio e puntano il dito contro Pablo, il quale soffre un doppio senso di colpa: prima ha allontanato dalla sua vita Juan, accogliendo al suo posto Antonio, e poi ha permesso che l’uomo morisse, anche perché Antonio è, in realtà, una minaccia più pericolosa di un semplice amante alla ricerca di spasso. Di ritorno dall’obitorio, Pablo è coinvolto in un incidente e perde la memoria. Intanto Antonio, sempre più ossessionato da Pablo, inizia una relazione con Tina, e questo legame mette in pericolo le sorti di tutti i presenti. In sogno, Pablo riacquista la memoria: sua sorella Tina, nata come suo fratello, viveva una relazione incestuosa con il padre dei due; padre e figlio erano volati in Marocco dove lui l’aveva prima sottoposto al cambio di sesso e poi abbandonata per un ragazzo più giovane.
La Tina di Carmen Maura è fenomeno esterno di un rimosso interno e, come estensione al fratello, ne condivide tutte le sofferenze, con l’aggiunta però degli attributi femminili. Le donne sono costrette ad essere donne, ma pure gli uomini sono forzati a diventare donne, come prosegue La piel que habito (La pelle che abito, 2011): Antonio Banderas veste i panni di Robert, chirurgo di fama internazionale alle prese col brevetto di una pelle artificiale resistente al fuoco. L’uomo è segnato dall’incidente avvenuto anni addietro in cui perse la vita la donna amata, sua moglie Gal, e da cui non si è più ripresa la figlia Norma. Lo scienziato pazzo fa gli esperimenti su Vera, cavia che vive segregata da tempo nella villa di lusso in cui abita Robert. Vittima della mano che la nutre, personificazione della sindrome di Stoccolma, Vera cerca di ricordare il suo passato, non sa di essere fautrice della stessa condizione da cui vuole fuggire. Il passato nascosto, le verità taciute, diventano in Almodóvar inserti narrativi che producono azione e creano terrore. Le donne fanno così le valigie e scappano dal loro passato.
Ma il passato le raggiunge sempre e, una volta alle strette, le spinge sull’orlo del precipizio, sul quale si affacciano senza però gettarcisi: perché queste donne si raccontano come martiri, mai come vittime. Tina adora le parti drammatiche, piangere e disperarsi al telefono, mentre Vera apprezza le premure che il suo aguzzino le riserva. Per loro amare è un delitto, ma tutte sono disposte a pagarne l’alto prezzo. Vulnerabili e imperfette, si nascondono, scompaiono, si isolano sulla cima di alte torri, come la Pepa di Mujeres al borde de un ataque de nervios (Donne sull’orlo di una crisi di nervi, 1988): “Sono mesi che mi sono trasferita su questo attico. L’ho fatto perché il mondo stava cadendo a pezzi, e io volevo salvarlo, e salvarmi”, racconta nell’incipit l’attrice abbandonata che prepara la valigia ad Iván, l’amante che ha deciso di lasciarla. Nell’opera-gioiello che gli fa conquistare una candidatura agli Oscar e lo consacra nell’Olimpo, Almodóvar sonda l’infelicità femminile nelle sue tinte più alto-borghesi. “Si riposi, non fumi troppo e mangi bene”, questi sono i consigli che il medico dà a Pepa, che scopre di aspettare un figlio dall’uomo che l’ha appena piantata.
La donna, che nervosa aspetta una chiamata che non arriva, è intenzionata ad informare l’uomo della gravidanza. Una serie assurda di eventi però le fa mettere da parte il dolore per l’abbandono subito in vista di guai peggiori: la sua amica Candela, una poveretta più sprovveduta di lei, ha accolto in casa un terrorista con cui ha passato una notte di fuoco; l’uomo, ricercato dalle autorità, ha invitato il gruppo di dissidenti che le ha occupato casa. Questi poveri angeli amano in presenza dell’amore, e soffrono nell’assenza di esso, cifra indistinguibile dei tipi almodóvariani: anche se il regista ha affermato più volte di essere ateo, è la promessa religiosa dell’unione d’amore che lega le malcapitate ai loro destini infelici. Pepa manda giù sonniferi a iosa, preme ossessiva sul frullatore e con rabbia pigia i tasti del telefono, nella speranza illusoria che la voce di Iván risponda, consapevole che non lo farà. Così va sul terrazzo, dal quale desidera gettarsi proprio come Gloria, ma non lo fa e invece innaffia le piante, con cui condivide la medesima sete.
“Sono stanca di essere buona”, esplode furiosa Pepa che si prepara alla rivoluzione. “Adesso mi libero di tutto”, e dà fuoco ai regali dell’amante, compreso uno stupido fiore di plastica. Donne sulle torri, donne intrappolate dall’amore, incarcerate come galline in un pollaio: “La sua amica ha commesso un crimine”, la polizia accusa Candela di favoreggiamento al terrorismo. “Il suo unico crimine è stato quello di innamorarsi come un’idiota”, risponde impassibile Pepa. Il crimine delle eroine di Almodóvar è sempre l’amore; più precisamente, galeotto è l’innamoramento: come un procedimento poetico ma anche come sacrificio predestinato, questo innamorarsi porta alla pazzia sia Pepa, sia Lucía, la moglie di Iván fresca di manicomio che vuole vendicarsi per l’abbandono del marito. “Solo ammazzandolo riuscirò a dimenticarlo”, la donna folle confida a Pepa l’intenzione di commettere l’uxoricidio. Il marito adultero, nel frattempo, è in procinto di partire con la nuova amante – perché sì, le donne di Almodóvar scappano sempre da sole, ma gli uomini viaggiano accompagnati.
Donne che preparano le valigie, ma per chi? Donne in preda al delirio, che rinsaviscono solo quando incontrano donne ancor più deliranti di loro. Pepa seda la furia omicida di Lucía, salvando dalla morte Iván che, come un cane bastonato, le chiede perdono: “Mi sono comportato male con te, non sai quanto mi dispiace”, la prega a singhiozzi, ma a Pepa le scuse arrivano tardi. Anche se l’uomo rinuncia alla partenza con l’amante, Pepa rinuncia in ultima istanza all’uomo, decidendo di non rivelargli la gravidanza, alza i tacchi e se ne va.
Madri sole e abbandonate continuano in Tacones lejanos (Tacchi a spillo, 1991), dove Marisa Paredes è Becky del Páramo, famosa cantante e parodia di un materno anaffettivo di cui patisce i traumi la figlia Becky. Donne costrette a camminare su tacchi alti, e capelli di donne che si impigliano tra i pendientes: nel dramma che decreta l’approdo meta-noir del regista al suo cinema, Rebecca e Becky sono il contraltare peripatetico allo storico duo Liv Ullmann/Ingrid Bergman in Höstsonaten (Sinfonia d’autunno, 1978), analisi sul rapporto madre-figlia e disamina sulla dicotomia successo di carriera-insuccessi d’amore in cui le due si proiettano.
La colpa di Becky è l’inadempienza ai compiti materni, la pena da scontare è la gelosia filiale che autorizza i crimini di passione. “Ho passato la vita ad imitarti”, dice una Rebecca vendicativa alla madre, una donna che, dopo aver vissuto una vita in Messico, torna a Madrid e ruba alla figlia il marito. Il femminile di Almodóvar, parodia dei tipi occidentali, caricatura di descrizioni secolari, intrattiene un rapporto del tutto paradossale con la legge. Se le agnizioni finali riuniscono madri e figlie sulla comune virtù della confessione, come pure in Volver (Volver - Tornare, 2006), la giustizia segue invece copioni irrazionali: spesso trasposta in simpatiche macchiette del buono e del cattivo poliziotto che, quando si trova di fronte al crimine femminile, finisce per essere colluso. Rebecca, gelosa del marito intenzionato a lasciarla per la madre, lo uccide. La giovane donna confessa l’omicidio, ma al commissario convince più la confessione ultima della madre che, in fin di vita, si riappacifica con la figlia disperata d’amore. Non è così facile essere colpevoli, servono prove schiaccianti. Anche la colpa, queste povere donne, devono meritarsela, nel cinema di Almodóvar.
“Il dolore rende le donne egoiste, perché le assorbe totalmente”, dice la make-up artist a domicilio e protagonista omonima di Kika (Kika - Un corpo in prestito, 1993), che viene aggredita e violentata da Pablo: porno attore con precedenti, l’uomo è evaso dalla prigione e fa visita alla sorella Juana, che lavora come domestica per Ramón, il fidanzato di Kika. A stupro avvenuto, lui fugge lanciandosi dalla finestra. Donne violentate e donne imbavagliate emergono in questa parabola che cela una sottile e ironica critica alla pornografizzazione del dolore, in una cronaca dove la televisione entra e influenza la storia. Sullo sfondo di una Madrid disegnata, Andrea, conduttrice di un programma d’informazione trash che prospera sulle peggiori vicende della cronaca nera, si mette alla ricerca dell’uomo di cui si sono perse le tracce. Il desiderio dell’esclusiva sulla confessione del reo mette la donna in serio pericolo e sconvolge le esistenze quiete di Ramón e suo padre Nicholas, vecchio romanziere in crisi che nasconde una brutta verità al figlio. Questi legami familiari, questi rapporti di sangue, torneranno ad animare il nucleo narrativo della produzione successiva del regista.
In La flor de mi secreto (Il fiore del mio segreto, 1995) la condizione domestica è ripresa e ampliata, qui condensata nella migliore interpretazione di Marisa Paredes. Il copione metaletterario viviseziona il dolore della scrittura e analizza la condizione che il femminile affronta nelle attese del quotidiano. Paredes è Leo, scrittrice di romanzetti rosa con le ambizioni di grande romanziere: alla macchina da scrivere indossa gli stivali del suo uomo Paco, militare impegnato con la NATO nel conflitto in Bosnia; la donna, che aspetta una chiamata dall’amato, cerca lavoro presso un giornale, chiede al direttore di scrivere nella sezione di letteratura, si prende cura della madre anziana e si preoccupa per la sorella solitaria, mentre soffre l’attesa di un ritorno ideale. In equilibrio precario tra il dolore dell’assenza e la vita presente, Leo, come le altre ragazze, piange e ascolta musica strappalacrime, ingoia tranquillanti in dosi massicce e non accetta la realtà. E la realtà - come succede nella vita ma soprattutto com’è descritta nel finale de La flor de mi secreto - è che anche l’amore finisce: “Ma com’è la vita, così crudele, così paradossale, e a volte così giusta”, conclude una Leo rinsavita, pronta a voltare finalmente pagina.
Le donne di Almodóvar non sono antieroine, anche se il suo cinema è postmoderno. Nella definizione presa in prestito dall’epica, gli eroi condividono un senso del tragico che infonde ciascuna tappa del loro cammino, su un intreccio spesso così confuso e a tratti patetico da risultare più vero che mai. Gli antieroi rinunciano alle autocelebrazioni, rifiutano le profusioni metafisiche e ridono in faccia a ogni forma di straniamento; le eroine di Almodóvar vivono solo nell’apologia di sé, sognano mondi illusori e si aggrappano con gravità a qualsiasi cosa incontrino nel loro destino, anche se banale, soprattutto se tremenda: sono così delusional e self-aware insieme che la dimensione dove la loro tragedia si consuma non esiste mai esclusivamente nel sogno o nella realtà: sta in uno spazio semicosciente tra i due piani. Un po’ come nello stato comatoso, tema presente sia in Kika sia ne La flor de mi secreto e che torna in Hable con ella: due uomini che stringono amicizia prendendosi cura dei rispettivi amori, due donne cadute in coma a seguito di gravi incidenti: la torera Lydia spezzata in due dalla bestia durante una corrida; la ballerina Alicia coinvolta in uno scontro automobilistico.
“Le donne bisogna tenerle in considerazione, parlare con loro, avere un pensierino di tanto in tanto, accarezzarle spesso, ricordarle che esistono, che sono vive, e che per noi contano, questa è l’unica terapia!” confida Benigno a Marco, che non sa come prendersi cura dell’amata che non parla né si muove. In Almodóvar, il coma diventa lo spazio liminale tra una sofferenza attiva e una tregua passiva, assume carattere positivo in quanto, nel suo cinema, i vivi non vivono mai davvero e i morti non muoiono mai sul serio. Questo binario morte/vita è ripreso ne La mala educación (2004), dove la storia di un amore infantile si lega alla composizione narrativa e ne influenza gli esiti: l’autentica Zahara, interpretata da Ignacio, che è Ángel, diventa metafora del riscatto di un amore proibito e vendetta di un trauma subito: l’evento generativo riposa nel passato ma affonda le radici fin dentro il presente, minacciando il futuro di un film difficile da realizzare. Il passato genera un trauma che incide sulle identità plurali; queste trasformano le storie individuali dei personaggi e, sulla parodia di Colazione da Tiffany, sia vittime che carnefici non riescono a riconoscersi nei rispettivi ruoli.
I vivi non vivono e i morti non muoiono: in Volver i vivi cercano di sopravvivere, pedinati da fantasmi che tornano improvvisamente nelle loro vite. Nell’arido paesino in cui vivono Raimunda e la figlia Paula, l’usanza del posto è che i vivi comprino lo spazio di terreno al cimitero e, in attesa dell’ora finale, lo curino, spolverando le lapidi ed estirpando le erbacce. Torna l’opposizione tra il femminile subalterno al maschile nei rapporti gerarchici regolati dalla vita domestica: qui gli uomini guardano la partita, perdono il lavoro e molestano le figlie delle donne che amano. Quando Paula reagisce alle molestie del patrigno uccidendolo, sua madre la copre e nasconde il cadavere dell’uomo in un surgelatore, raccontando in paese che Paco l’ha lasciata. Perché in Almodóvar la morte dell’amato o la sua fuga si equivalgono, sempre. Nel frattempo, nella vita di Soledad (sorella di Raimunda) torna Irene, madre delle due donne, scomparsa da tempo e creduta morta. Le ragioni della fuga dell’anziana e quelle sull’occultamento della donna sono molto simili, e piano piano la verità torna a galla.
Donne che seppelliscono uomini, donne che riparano ai loro danni, donne che commettono omicidi e donne che spariscono. Donne ammalate che in extremis rinunciano a cure salvifiche, preferendo l’estrema unzione; come Agustina, cugina di Raimunda e Paula che, malata terminale, non parte per gli Stati Uniti perché vuole morire nel luogo in cui è nata. Madri che optano per il silenzio e figlie che non lo comprendono, tranne quando diventano madri a loro volta, perché anche se sentono l’urgenza di parlare, di confessarsi i peccati, è proprio nel silenzio che mostrano tutta la loro comprensione. Raimunda, senza soldi e senza uomo, prende in gestione il bar sotto casa e una sera canta per la troupe cinematografica che festeggia la fine delle riprese: “Tengo miedo del encuentro con el pasado que vuelve a enfrentarse con mi vida”, grida la donna con le lacrime agli occhi, crede di aver visto il fantasma della madre; dall’altra parte, Irene si nasconde dalla figlia perché terrorizzata dalla rabbia che Raimunda serba per il suo abbandono.
Donne che parlano davanti a un caffè, donne che si confessano l’amore disperato per terroristi e stupratori, donne che si dicono la verità, donne che non possono mentire le une alle altre: Penélope Cruz torna nei panni di Elena, una povera segretaria d’ufficio con il sogno di diventare attrice, ne Los abrazos rotos (Gli abbracci spezzati, 2008). Qui troviamo chiavi nascoste, cassetti chiusi a chiave che nascondono lettere scritte e mai spedite, sigillate e mai aperte, ricevute e mai lette. Lettere che sono confessioni di voci che non ci sono più. La cecità corticale di un regista serve da metafora alla cecità maschile che non legge la disperazione femminile, perché non vede le migliaia di frammenti in cui le donne si rompono, cercando di ricomporsi, come le fotografie di un amore passato che nessuno ricorda più. Ne Los Abrazos Rotos le donne parlano ma hanno paura che gli uomini parlino. La paura della verità diventa impossibilità di proseguire la storia, chiudere la narrazione, finire il film.
Donne che vivono nella promessa di uomini che non sanno stare da soli, e donne che si sentono sole senza uomini; come Vera Cruz, una sorta di Orlando iberico, unica superstite del dramma de La piel que habito; ma anche come Julieta (2016), scrittrice che rinnega la propria maternità perché il dolore per la perdita dell’amato è più grande di qualsiasi gioia che il frutto del loro amore, Antía, può portare. Julieta parla in una lunga lettera, uno scritto-confessione a cui dà voce, una verità che il suo pubblico ascolta, esposto su tutte le ragioni irragionevoli che portano le madri ad abbandonare i loro figli, a torturarsi, a sentirsi libere e al contempo intrappolate. Come in Dolor y Gloria (2019), un Almodóvar più maturo racconta con minor ironia le sue donne, perché i suoi intrecci prediligono una maggior introspezione nel dolore. E così le figlie fanno da madri a donne che hanno perso i loro uomini, e diventano i loro surrogati, le loro dipendenze: madri tossicodipendenti e figlie come droghe.
Ci sono poi le madri che partoriscono figlie che i padri non riconoscono; come Janis e Ana in Madres Paralelas (2021), che danno alla luce nello stesso giorno Cecilia e Anita. Le neonate, tenute in osservazione, vengono scambiate. Passano gli anni, Janis apprende dell’equivoco tramite un test del DNA e poco dopo ritrova Ana, che le rivela della morte prematura della piccola Anita. Divorata dalla colpa, Janis accoglie la povera donna in casa e la invita a prendersi cura di Cecilia, sua figlia di diritto. Madri sfortunate e madri negate; ma anche madri che diventano amanti attraverso l’amore che nutrono per le figlie, e nuovi amori minacciati dal ritorno di vecchi amanti che rivendicano la loro paternità. Madri che, senza uomini, diventano padri per le loro figlie, come la Martha di Tilda Swinton in The Room Next Door, e sua figlia Michelle che le rimprovera per la sua assenza. Martha ha lavorato tutta la vita come corrispondente di guerra e, giunta la notizia di una malattia incurabile, cerca la vecchia amica Ingrid, anche lei scrittrice, di biografie romanzate però. Donne che hanno pochissimo tempo e non vogliono sprecarlo, e che si tengono la mano, mentre vanno incontro alla fine del mondo.
“Questo mondo è assurdo e disumano, e non credo cambierà molto presto”, realizza sconsolata Ingrid che ha accompagnato Martha in vacanza, un viaggio dove la donna si toglierà la vita per vincere un cancro che lentamente la divora. L’ultimo Almodóvar racconta di vecchie amiche in fin di vita che si ritrovano e si raccontano tutto quello che è successo loro, tessendovi una denuncia all’accanimento terapeutico e difendendo la libertà individuale di scegliere per la non vita. Di donne romanziere e donne giornaliste, che devono rimanere sincere e oneste anche quando vivono l’inferno. Donne che non sono stoiche, ma nemmeno si autocommiserano perché, se c’è una cosa che Almodóvar ha sempre odiato, è proprio l’autocommiserazione. Donne che affrontano la morte in guerra ma anche nella vita; che decidono di morire in luoghi sconosciuti perché il passato non fa bene alla verità, e la verità, in The Room Next Door, è contenuta in una pillola, sigillata in una lettera e riposta in un cassetto – con la chiave stavolta inserita. Donne che restano al fianco di altre donne e amiche che rimangono nella stanza accanto.
Sono donne che conoscono la nuda e cruda verità, cercano a tutti i costi di negarla, evadono in un mondo finzionale dove il loro sentire regola i loro successi e il non-sentire degli altri decreta la loro disfatta. La donna Rosita di García Lorca sapeva tutto, sin dall’inizio, eppure alla verità ha preferito la sua menzogna. Così come anche la Blanche di Tennessee Williams, omaggiata in Todo sobre mi madre (Tutto su mia madre, 1999). E comunque, queste donne non rinunciano a ciò che il destino tiene in serbo per loro, non si negano le illusioni (e le brucianti delusioni) che accompagnano il loro sentire. È un senso che va oltre ogni cosa perché, proprio come ha affermato Almodóvar a proposito di Mujeres al borde de un ataque de nervios, è “l’emozione sentimentale il miglior veicolo per raccontare qualunque storia.” E così, in The Room Next Door, come ha scritto Beatrice Gangi, è sul binomio presenza/assenza che il sentimento produce la narrazione, rendendo un tableau interiore in dialogo continuo tra ciò che c’è stato e ciò che non può tornare. Perché, se le ragazze di Almodóvar vivono alla presenza della passione, brillano di più nella sua assenza.
Le ragazze di Almodóvar sono sempre sull’orlo della rivoluzione, ma non la fanno, perché alla promessa di un nuovo ordine preferiscono la sopraffazione a quello vecchio. Alla fine, i loro bisogni sono puri desideri, e i desideri diventano realtà solo nei sogni: tutte sognano la rivoluzione, desiderano farla e rompere l’unità, superarsi e ottenere la gloria; ma poi si svegliano e si accorgono che niente di ciò che sognano è possibile, i loro desideri rimangono irrealizzati. Cosa rimane? Resta la realtà, che è la vita. Perché la rivoluzione è francese, è laica, è un’utopia secolare; mentre il martirio è parabola cristiana, simbolo di una resa incondizionata, tragica ma anche comica davanti all’onnipotenza della vita.
Per essere delle vere rivoluzionarie, le donne di Almodóvar dovrebbero immolarsi, ardere come Giovanna d’Arco e risorgere dalle proprie ceneri come nuovi uomini. Rimangono invece ragazze sull’orlo di una rivoluzione; ma va bene così perché le loro sconfitte sono autentiche e, come conclude Agrado in Todo sobre mi madre, nel suo celebre monologo sull’individuazione femminile, “Costa molto essere autentica, signora mia, e in questa cosa non si deve essere tirchie, perché una è più autentica quanto più assomiglia all’idea che ha di sé”.
Dedicato a Marisa Paredes (3 aprile 1946 - 17 dicembre 2024)