NC-175
28.11.2023
Sempre più spesso stiamo assistendo alla comparsa, sulla scena cinematografica, di personalità provenienti da altri mondi artistici paralleli a quelli della Settima Arte. Proprio su questa direttrice si muove anche Quentin Dupieux, tra i registi più bizzarri e poliedrici degli ultimi anni, soprattutto in relazione a quanto espresso all’interno dei suoi film. Basti solo pensare, per comprendere al meglio la particolarità di questo autore, al suo prodotto più famoso, ovvero quel Rubber (2010) che, alla sua uscita, destò molto scalpore per via della vicenda assolutamente surreale e stravagante che lo caratterizzava.
Da un certo punto di vista, il cinema di Mr. Oizo - il suo pseudonimo, usato soprattutto in ambito musicale, e che mette in evidenza un’attitudine eclettica - potrebbe essere facilmente ricollegabile a quello stupore che, oltre cento anni fa, un altro francese introdusse all’interno della Settima Arte. Il legame tra Dupieux e Georges Méliès si può apprezzare nell’estrema fiducia che entrambi nutrono nella magia del cinema, e che li presenta come due illusionisti, con l’obiettivo di restituire allo spettatore quel “sense of wonder” che solo un’arte “a tutto tondo” come quella cinematografica può proporre.
Ecco perché il regista di Fumer Fait Tousseur (2022) si muove su un territorio quasi sempre straniante per lo spettatore, in grado di trascendere i limiti della ragionevolezza e di sfociare, piuttosto, in una materia che travalica la realtà di tutti i giorni.
Il cinema di Dupieux si potrebbe definire facilmente stravagante. Un cinema formato da quarte pareti che saltano, da personaggi che non agiscono seguendo una vera e propria logica perché parti integranti di un universo che la sua logica l’ha già persa a priori. Ciò che rende unico il suo stile è la commistione tra questo senso dell’assurdo e un pessimismo latente. Sfruttando un’indagine accurata sul meta-cinema, Dupieux opta per immobilizzare i suoi protagonisti in un ambiente beckettiano, dove il paradosso prende vita nel momento in cui realtà e finzione coincidono e diventano un tutt’uno.
Gli esempi forse più tangibili di questo caos “ordinato” all’interno del mondo surreale del regista sono quelli di Wrong (2012) e di Au Poste! (2018). In ambedue i film, delle commedie dell’assurdo mirate a mostrare l’orrore del quotidiano, Dupieux si colloca giusto a metà tra il voler rassicurare lo spettatore - anche a questo servono una palette cromatica così tanto pastellata da essere accostabile a Wes Anderson nel caso di Wrong, e un'ambientazione apparentemente statica come il commissariato nel caso di Au Poste! - e il volerlo scuotere, innestando in lui un senso di disagio che traspare attraverso il filo conduttore della sua filmografia: ovvero l’omologazione.
Quest’ultima è la vera chiave di volta per comprendere la visione del mondo che Dupieux ha e che propaga nel corso di tutta la sua opera. Un’omologazione che ha molto spesso una forma cinematografica riconoscibilissima in ogni film, in cui il francese utilizza refrain al limite dell’ossessivo (i punti macchina di Wrong che si ripetono in modo ciclico, il sistema di narrazione a scatole cinesi di Réalité (2014), le scenografie pseudo-teatrali che si rimodellano in corso d’opera in Au Poste!) per evidenziare un’attitudine pessimista nei confronti di una realtà che si sta fondendo sempre più con il surreale e che travolge, di fatto, i protagonisti di ciascun film, costretti a subirne gli effetti in modo passivo e del tutto incredulo inizialmente, salvo poi cedervi e arrendersi progressivamente.
Tutti i partecipanti principali del cinema di Dupieux sono uomini inizialmente inamovibili, affascinati dalla moralità sia delle proprie azioni che delle immagini stesse. Dupieux li porta al limite, crea un cinema situazionale in cui si giunge ad un momento in cui quella stessa moralità delle immagini collassa e decade - di cui l’esempio cardine è una scena di Wrong Cops (2013), nel momento in cui il poliziotto comincia a flirtare con la sua vicina - affidandosi al corso degli eventi e dividendoli in singoli take apparentemente slegati tra loro. Così, Dupieux fornisce più volte la sensazione di essere alle prese con delle candid camera organizzate ad hoc.
Il più delle volte, Dupieux parte da premesse che, successivamente, si scoprono ricreate appositamente per scompaginare e spezzettare anche i presunti paraocchi dei suoi protagonisti, costretti a calarsi in panni specifici e impossibilitati a discostarsene. Così il regista raggiunge una soglia immaginaria del grottesco, un non plus ultra dell’assurdo che annulla la differenza tra realtà e finzione e che ingloba il suo cinema surreale all’interno di un quotidiano incapace, ormai, di differenziarsene.
NC-175
28.11.2023
Sempre più spesso stiamo assistendo alla comparsa, sulla scena cinematografica, di personalità provenienti da altri mondi artistici paralleli a quelli della Settima Arte. Proprio su questa direttrice si muove anche Quentin Dupieux, tra i registi più bizzarri e poliedrici degli ultimi anni, soprattutto in relazione a quanto espresso all’interno dei suoi film. Basti solo pensare, per comprendere al meglio la particolarità di questo autore, al suo prodotto più famoso, ovvero quel Rubber (2010) che, alla sua uscita, destò molto scalpore per via della vicenda assolutamente surreale e stravagante che lo caratterizzava.
Da un certo punto di vista, il cinema di Mr. Oizo - il suo pseudonimo, usato soprattutto in ambito musicale, e che mette in evidenza un’attitudine eclettica - potrebbe essere facilmente ricollegabile a quello stupore che, oltre cento anni fa, un altro francese introdusse all’interno della Settima Arte. Il legame tra Dupieux e Georges Méliès si può apprezzare nell’estrema fiducia che entrambi nutrono nella magia del cinema, e che li presenta come due illusionisti, con l’obiettivo di restituire allo spettatore quel “sense of wonder” che solo un’arte “a tutto tondo” come quella cinematografica può proporre.
Ecco perché il regista di Fumer Fait Tousseur (2022) si muove su un territorio quasi sempre straniante per lo spettatore, in grado di trascendere i limiti della ragionevolezza e di sfociare, piuttosto, in una materia che travalica la realtà di tutti i giorni.
Il cinema di Dupieux si potrebbe definire facilmente stravagante. Un cinema formato da quarte pareti che saltano, da personaggi che non agiscono seguendo una vera e propria logica perché parti integranti di un universo che la sua logica l’ha già persa a priori. Ciò che rende unico il suo stile è la commistione tra questo senso dell’assurdo e un pessimismo latente. Sfruttando un’indagine accurata sul meta-cinema, Dupieux opta per immobilizzare i suoi protagonisti in un ambiente beckettiano, dove il paradosso prende vita nel momento in cui realtà e finzione coincidono e diventano un tutt’uno.
Gli esempi forse più tangibili di questo caos “ordinato” all’interno del mondo surreale del regista sono quelli di Wrong (2012) e di Au Poste! (2018). In ambedue i film, delle commedie dell’assurdo mirate a mostrare l’orrore del quotidiano, Dupieux si colloca giusto a metà tra il voler rassicurare lo spettatore - anche a questo servono una palette cromatica così tanto pastellata da essere accostabile a Wes Anderson nel caso di Wrong, e un'ambientazione apparentemente statica come il commissariato nel caso di Au Poste! - e il volerlo scuotere, innestando in lui un senso di disagio che traspare attraverso il filo conduttore della sua filmografia: ovvero l’omologazione.
Quest’ultima è la vera chiave di volta per comprendere la visione del mondo che Dupieux ha e che propaga nel corso di tutta la sua opera. Un’omologazione che ha molto spesso una forma cinematografica riconoscibilissima in ogni film, in cui il francese utilizza refrain al limite dell’ossessivo (i punti macchina di Wrong che si ripetono in modo ciclico, il sistema di narrazione a scatole cinesi di Réalité (2014), le scenografie pseudo-teatrali che si rimodellano in corso d’opera in Au Poste!) per evidenziare un’attitudine pessimista nei confronti di una realtà che si sta fondendo sempre più con il surreale e che travolge, di fatto, i protagonisti di ciascun film, costretti a subirne gli effetti in modo passivo e del tutto incredulo inizialmente, salvo poi cedervi e arrendersi progressivamente.
Tutti i partecipanti principali del cinema di Dupieux sono uomini inizialmente inamovibili, affascinati dalla moralità sia delle proprie azioni che delle immagini stesse. Dupieux li porta al limite, crea un cinema situazionale in cui si giunge ad un momento in cui quella stessa moralità delle immagini collassa e decade - di cui l’esempio cardine è una scena di Wrong Cops (2013), nel momento in cui il poliziotto comincia a flirtare con la sua vicina - affidandosi al corso degli eventi e dividendoli in singoli take apparentemente slegati tra loro. Così, Dupieux fornisce più volte la sensazione di essere alle prese con delle candid camera organizzate ad hoc.
Il più delle volte, Dupieux parte da premesse che, successivamente, si scoprono ricreate appositamente per scompaginare e spezzettare anche i presunti paraocchi dei suoi protagonisti, costretti a calarsi in panni specifici e impossibilitati a discostarsene. Così il regista raggiunge una soglia immaginaria del grottesco, un non plus ultra dell’assurdo che annulla la differenza tra realtà e finzione e che ingloba il suo cinema surreale all’interno di un quotidiano incapace, ormai, di differenziarsene.