Come si parte? Perché si parte? E verso dove?
Il cinema di Theo Angelopoulos è più attuale che mai.
di Arturo Garavaglia
TR-56
27.03.2022
Con questi interrogativi si apre Il passo sospeso della cicogna, film fra i più noti del grande regista greco Theo Angelopoulos, autore dall’indiscutibile caratura che negli anni ’90 seppe raccontare meglio di tutti la disgregazione politica dell’Europa a seguito del crollo del Muro di Berlino, della conseguente fine dell’Unione Sovietica e dell’implosione della Jugoslavia.
Nei giorni in cui una guerra, purtroppo solo una delle tante nel mondo, infuria sul suolo europeo a distanza di quasi trent’anni dalle guerre civili che sconvolsero la penisola balcanica a fine secolo e nel cosiddetto mondo occidentale sembra essere tornata prepotentemente l’idea della frontiera come linea che separa noi dal “nemico”.
Guardare indietro nel tempo a tre film di Theo Angelopoulos come Il passo sospeso della cicogna, Lo sguardo di Ulisse e L’eternità e un giorno, appartenenti alla cosiddetta trilogia dei confini, può essere sicuramente un grande spunto di riflessione per comprendere come ciò che oggi ci appare nuovo è frutto di un passato mai del tutto rielaborato e ciò che oggi ci sembra assurdo fa in realtà parte di una Storia, quella contemporanea, che ha occultato alla perfezione gli scheletri nell’armadio del secolo scorso per lanciarsi nel nuovo millennio all’inseguimento di ideali che oggi più che mai si dimostrano meri simulacri.
Partendo da alcuni concetti espressi da Albert Camus nella raccolta di racconti L’esilio e il Regno Theo Angelopoulos porta ai risultati più estremi le sue teorizzazioni sui concetti di confine ed esilio e sui limiti che si frappongono all’uomo nel suo tentativo di raggiungere la felicità. In bilico tra astrazione e prassi, Theo Angelopoulos mette in scena la storia e la Storia includendo in drammi individuali i drammi collettivi della guerra e della migrazione che hanno caratterizzato l’ultimo decennio del Novecento.
Siamo nel 1991, anno di uscita de Il passo sospeso della cicogna. Il film di Theo Angelopoulos che vede la partecipazione di Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau e rinnova il sodalizio fra l’autore greco e il grande sceneggiatore italiano Tonino Guerra si apre con un voice-over in cui il giornalista protagonista del film si interroga sul motivo che ha spinto una massa di profughi asiatici imbarcatisi clandestinamente in una nave greca a gettarsi in mare aperto dopo la negazione dell’asilo politico da parte del governo di Atene.
La voce del protagonista scorre mentre vengono mostrate immagini di elicotteri e navi in mezzo al mare.
Da quel momento i paesaggi del film cambieranno e, dal mare, si arriverà alla montagna, alla rocciosa Macedonia, regione della Grecia sita al confine con quel che resta della Jugoslavia. Cambia lo scenario, ma non cambia la situazione: profughi che hanno varcato il confine, che si ritrovano a vivere in baracche in uno stato di sospensione temporale ed esistenziale, privi di un nome e identità.
Una serie di voci di profughi di nazionalità, o forse è meglio dire di provenienza, diversa si sovrappongono e raccontano brevemente la loro esperienza. La lingua è diversa, ma lo stato è comune: quello di profughi.
Siamo prima dello scoppio “ufficiale” delle guerre in Jugoslavia, nello stesso anno in Italia sarebbero arrivati migliaia di albanesi in fuga dalla miseria con immagini che hanno scritto la storia del nostro paese. Eppure quelle immagini, eccezionali per l’epoca, sono diventate normalità negli ultimi anni. I morti nel Mediterraneo non sono forse causati da un mare che è stato reso frontiera politica prima che fisica?
Solo fino a poche settimane fa le immagini di migranti di pelle non bianca ammassati ai confini dei paesi dell’Europa Orientale sconvolgevano l’opinione pubblica. Le loro condizioni erano documentate regolarmente dai telegiornali, il loro status di migranti aveva assunto connotazioni fisiche e culturali ben precise facendoci dimenticare che la condizione di migrante è insieme politica ed esistenziale e che può riguardare da un momento all’altro chiunque. Ce ne siamo ricordati e ce ne stiamo ricordando con i rifugiati ucraini che sono stati prontamente accolti entro il confine dell’Unione Europea, da un popolo europeo scioccato dalla repentinità con cui la loro condizione umana è mutata, dalla vicinanza geografica che li contraddistingue, dall’appartenere a un confine più grande, quello del cosiddetto “mondo civile” che nell’autodefinirsi crea automaticamente un limite.
“Se faccio un altro passo o sono altrove o sono morto.” Queste le parole di uno dei soldati che presidiano la frontiera con l’Albania nel film di Angelopoulos. Non è forse in questa frase racchiuso il senso del confine? In un’Unione Europea che ha abolito i confini all’interno dei propri stati e si è chiusa all’interno del benessere garantito ai propri abitanti l’eliminazione delle barriere e della frontiera è stata solo un’illusione.
La frontiera è stata semplicemente allontanata, dimenticata, condannata solo nei casi più estremi e oggi che uno stato vicino culturalmente all’Europa come l’Ucraina è stato invaso sulla base di principi e presupposti che nel XXI secolo eravamo convinti di esserci lasciati alle spalle, la frontiera fisica cade per dare accoglienza ai profughi ucraini e il confine perde la sua concretezza per assumere, ancora di più, un valore politico e culturale.
Il confine è ormai quello fra Occidente e Russia, fra “noi” e “loro”, che altro non è che una riproposizione di uno schema che sembravamo aver lasciato al Novecento, in un mondo globalizzato ed estremamente interconnesso. Eppure, proprio alla fine di quel crudo secolo Theo Angelopoulos aveva già riscontrato che il crollo del dualismo del continente europeo sarebbe stato solo il prologo per un allargamento e non per un annullamento dei confini. Molte sono le frasi de Il passo sospeso della cicogna che si potrebbero riportare. Frasi certamente altisonanti, che all’epoca potevano forse apparire vaghe, ma oggi più che mai appaiono drammaticamente concrete.
Il film successivo della trilogia, Lo sguardo di Ulisse, è una drammatica presa d’atto del crollo di un sistema che non sembra in grado di generarne un altro più stabile. Nella ex-Jugoslavia lacerata dalle guerre civili un regista, interpretato da Harvey Keitel, si mette in viaggio per trovare tre bobine mai sviluppate dai fratelli Manakis, pionieri del cinema Balcanico, in una penisola devastata e sconvolta dal crollo del socialismo. Il cinema dei fratelli, che documentava la vita quotidiana delle popolazioni balcaniche, viene ritenuto da Angelopoulos l’ultimo, forse l’unico, esempio di un’unità culturale e storica della penisola. Il viaggio del regista, moderno Odisseo, assume nel film i tratti del mito, prima e ultima chiave di lettura per gli avvenimenti storici.
In una penisola che ha sperimentato con la fine dell’unità politica la riemersione di barriere che si credevano superate, dimenticate, la guerra annienta i civili di qualsiasi nazione, religione o etnia allo stesso modo.
L’ultimo atto del film, ambientato in una Sarajevo annientata dall’assedio, mostra alcune delle immagini più significative che hanno documentato lo stato dei civili durante una guerra. Nella città sommersa dalla neve e dalla nebbia mentre un’orchestra suona, sotto il suono delle bombe, dei pazzi escono da un manicomio appena bombardato. Dei civili scompaiono nel grigio per poi, nell’opacità, in un’immagine che non può che relegare al fuori campo interno un’atrocità così grande, venire massacrati.
Ritornare a queste scene, a queste immagini, in un momento in cui imperversa una feroce guerra in Europa di cui a fare le spese sono soprattutto i civili non può che ricordarci come ciò che sembra a noi incredibile è già accaduto, e ancora accadrà, nel ciclo continuo di cause-effetto, di barriere e di distruzione di barriere, che è la storia umana.
Le donne che il regista protagonista di Lo Sguardo di Ulisse incontra nel viaggio per i Balcani, trasposizione delle figure femminili dell’Odissea, hanno tutte lo stesso volto, a ulteriore testimonianza di uno stato di annientamento della singolarità che provocano catastrofi come guerre o migrazioni forzate. Molti sono i volti che vediamo del resto oggi nei telegiornali, volti senza un nome che si perdono fra altri volti fino a perdere anche essi la propria specificità e diventare immagine, definita ma bidimensionale, della guerra. Se nei vecchi film del regista greco la massa in quanto tale diventava protagonista, attiva o passiva, dell’azione, in film come Il passo sospeso della cicogna e Lo sguardo di Ulisse la massa perde il ruolo di protagonista e mantiene solo la passività che è propria di chi non decide da solo il proprio destino e della propria vita non sembra neanche essere protagonista.
Muovendosi, come di consuetudine per Theo Angelopoulos, in una linea storica che non conosce discontinuità, in cui passato e presente convivono nella stessa inquadratura, il regista greco mette l’accento nel film, come già avveniva nella “trilogia storica” composta da I giorni del ’36, La recita e I cacciatori, sull’interconnessione degli eventi e su un flusso ricorsivo della Storia che non dimentica indietro niente e che è sempre pronto a far riemergere, onda dopo onda, questioni che sembravano ormai arenate in fondo al mare del tempo.
Impossibile non riportare questa concezione della Storia all’attualità, alla guerra in Ucraina le cui radici risalgono inevitabilmente al secolo scorso, a conti mai definitivamente chiusi con il crollo dell’Unione Sovietica che si pensavano archiviati o dimenticati. In una linea temporale che si scopre non più retta, ma circolare, ciò che viene etichettato come passato ritorna improvvisamente presente.
Negli ultimi giorni lo sguardo dei media occidentali è orientato verso Odessa, città ucraina la cui storia Novecentesca è stata spesso raccontata dal cinema e che è protagonista di una delle sequenze più importanti e celebri della storia della settima arte, quella presente in La corazzata Potemkin di S. M. Ėjzenštejn. Nella stessa città, da cui provengono peraltro anche i profughi greci protagonisti di un altro film di Theo Angelopoulos, La sorgente del fiume, si compì un atroce massacro di ebrei nel 1941. Nel 2014 nella stessa città avvenne uno degli eventi più controversi del conflitto russo-ucraino che vide una serie di proteste culminare con roghi che costarono la vita a 48 persone sostenitrici del governo filo-russo esautorato dopo le rivolte di Euromaidan.
In questa città un regista come Theo Angelopoulos avrebbe avuto gioco estremamente facile nel racchiudere tutti questi avvenimenti in un lungo piano-sequenza di quelli a cui aveva abituato il proprio pubblico e far visualizzare i collegamenti fra avvenimenti così distanti nel tempo eppure parte di una dialettica storica che non si è esaurita nel passaggio fra XX e XXI secolo e che è tornata, come vediamo oggi, a riproporsi quasi inalterata.
Questa breve divagazione ci conduce direttamente all’ultimo film della trilogia dei confini, L’eternità e un giorno, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del 1998. Il film con Bruno Ganz e Fabrizio Bentivoglio è stato spesso bollato dalla critica italiana come una divagazione intima, filosofeggiante e fine a sé stessa compiuta da un autore non più in grado di comunicare con il proprio pubblico.
Raccontando la storia di un intellettuale rigido ed egoista, la relazione che stringe con un giovane clandestino albanese e il suo viaggio, fisico e mentale, alla ricerca del senso del proprio passato e del proprio avvenire attanagliato dallo spettro della morte, Theo Angelopoulos compone una grande elegia di un secolo e si interroga su quali nuove parole potranno essere usate nel futuro in un momento in cui tutte le parole, tutti i concetti, sembrano essere già stati espressi, metabolizzati e, infine, esauriti.
Nello sguardo, spaesato ma vivo, del giovane ragazzo albanese e nel viaggio che dovrà intraprendere Theo Angelopoulos pone la propria speranza nel futuro, non dopo aver mostrato la schiavitù a cui vengono ridotti i migranti una volta varcati quei confini sui quali, in una delle immagini più suggestive del film, rimangono bloccati, immobili e anonimi come silhouettes, cristallizzati in una condizione di eterno presente.
Nelle riflessioni dell’anziano protagonista interpretato da Bruno Ganz, nelle frasi del poeta ottocentesco nato in Grecia ma cresciuto in Italia che tornò nell’Ellade per raccontare la guerra di indipendenza greca e che si trovò costretto a comprare le parole dal momento che non conosceva il greco. Theo Angelopoulos mette in evidenza il vuoto lasciato dalla fine delle ideologie, un vuoto potenzialmente pericoloso le cui ripercussioni sono state gravissime per tutto il continente europeo, sia occidentale sia orientale e su cui ancora oggi si discute.
In una delle scene più celebri del film, l’anziano intellettuale e il giovane albanese salgono si trovano su un bus diretto al porto da cui il migrante salperà per intraprendere il viaggio della vita. A un certo punto sale un uomo con in mano una bandiera rossa, subito dopo sale un’orchestra che inizia a suonare una musica che a mano a mano si fonde con le note extradiegetiche composte da Eleni Karaindrou. Nel controcampo notiamo l’uomo con la bandiera rossa essersi addormentato. Nell’inquadratura successiva sale sull’autobus il poeta ottocentesco, interpretato da Fabrizio Bentivoglio, che declama una poesia incompiuta alla quale l’intellettuale non può che rispondere con la domanda che lo attanaglia dall’inizio del film: “Quanto dura il domani?”.
In sole tre immagini Theo Angelopoulos sintetizza la fine di un’epoca. Il passato risulta incomprensibile come il presente e il senso del futuro rimane sconosciuto sia per il giovane, in procinto di intraprendere il viaggio della vita, sia per l’anziano che sta per compiere il passaggio dalla vita alla morte, le parole non bastano più per esprimere concetti. E la rivoluzione dorme. Con che parole canteremo una nuova rivoluzione?
Oggi queste parole nuove non sono ancora state trovate e in quel domani ciclico che dura l’eternità e un giorno ritroviamo la tragedia della guerra, della migrazione, dei confini. Le parole utilizzate sono sempre le stesse, i concetti, i significati ultimi, variano nelle sfumature ma sono sempre gli stessi. Una nuova rivoluzione non si è compiuta, i confini non sono stati abbattuti nonostante i nuovi termini e le nuove espressioni che hanno cantato la globalizzazione. E si ritorna così alle parole che hanno caratterizzato il secolo scorso e che in fondo caratterizzano da sempre la storia dell’uomo: confini, guerre, migrazioni.
Come si parte? Perché si parte? E verso dove? Il cinema di Theo Angelopoulos
è più attuale che mai,
di Arturo Garavaglia
TR-56
27.03.2022
Con questi interrogativi si apre Il passo sospeso della cicogna, film fra i più noti del grande regista greco Theo Angelopoulos, autore dall’indiscutibile caratura che negli anni ’90 seppe raccontare meglio di tutti la disgregazione politica dell’Europa a seguito del crollo del Muro di Berlino, della conseguente fine dell’Unione Sovietica e dell’implosione della Jugoslavia.
Nei giorni in cui una guerra, purtroppo solo una delle tante nel mondo, infuria sul suolo europeo a distanza di quasi trent’anni dalle guerre civili che sconvolsero la penisola balcanica a fine secolo e nel cosiddetto mondo occidentale sembra essere tornata prepotentemente l’idea della frontiera come linea che separa noi dal “nemico”.
Guardare indietro nel tempo a tre film di Theo Angelopoulos come Il passo sospeso della cicogna, Lo sguardo di Ulisse e L’eternità e un giorno, appartenenti alla cosiddetta trilogia dei confini, può essere sicuramente un grande spunto di riflessione per comprendere come ciò che oggi ci appare nuovo è frutto di un passato mai del tutto rielaborato e ciò che oggi ci sembra assurdo fa in realtà parte di una Storia, quella contemporanea, che ha occultato alla perfezione gli scheletri nell’armadio del secolo scorso per lanciarsi nel nuovo millennio all’inseguimento di ideali che oggi più che mai si dimostrano meri simulacri.
Partendo da alcuni concetti espressi da Albert Camus nella raccolta di racconti L’esilio e il Regno Theo Angelopoulos porta ai risultati più estremi le sue teorizzazioni sui concetti di confine ed esilio e sui limiti che si frappongono all’uomo nel suo tentativo di raggiungere la felicità. In bilico tra astrazione e prassi, Theo Angelopoulos mette in scena la storia e la Storia includendo in drammi individuali i drammi collettivi della guerra e della migrazione che hanno caratterizzato l’ultimo decennio del Novecento.
Siamo nel 1991, anno di uscita de Il passo sospeso della cicogna. Il film di Theo Angelopoulos che vede la partecipazione di Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau e rinnova il sodalizio fra l’autore greco e il grande sceneggiatore italiano Tonino Guerra si apre con un voice-over in cui il giornalista protagonista del film si interroga sul motivo che ha spinto una massa di profughi asiatici imbarcatisi clandestinamente in una nave greca a gettarsi in mare aperto dopo la negazione dell’asilo politico da parte del governo di Atene.
La voce del protagonista scorre mentre vengono mostrate immagini di elicotteri e navi in mezzo al mare.
Da quel momento i paesaggi del film cambieranno e, dal mare, si arriverà alla montagna, alla rocciosa Macedonia, regione della Grecia sita al confine con quel che resta della Jugoslavia. Cambia lo scenario, ma non cambia la situazione: profughi che hanno varcato il confine, che si ritrovano a vivere in baracche in uno stato di sospensione temporale ed esistenziale, privi di un nome e identità.
Una serie di voci di profughi di nazionalità, o forse è meglio dire di provenienza, diversa si sovrappongono e raccontano brevemente la loro esperienza. La lingua è diversa, ma lo stato è comune: quello di profughi.
Siamo prima dello scoppio “ufficiale” delle guerre in Jugoslavia, nello stesso anno in Italia sarebbero arrivati migliaia di albanesi in fuga dalla miseria con immagini che hanno scritto la storia del nostro paese. Eppure quelle immagini, eccezionali per l’epoca, sono diventate normalità negli ultimi anni. I morti nel Mediterraneo non sono forse causati da un mare che è stato reso frontiera politica prima che fisica?
Solo fino a poche settimane fa le immagini di migranti di pelle non bianca ammassati ai confini dei paesi dell’Europa Orientale sconvolgevano l’opinione pubblica. Le loro condizioni erano documentate regolarmente dai telegiornali, il loro status di migranti aveva assunto connotazioni fisiche e culturali ben precise facendoci dimenticare che la condizione di migrante è insieme politica ed esistenziale e che può riguardare da un momento all’altro chiunque. Ce ne siamo ricordati e ce ne stiamo ricordando con i rifugiati ucraini che sono stati prontamente accolti entro il confine dell’Unione Europea, da un popolo europeo scioccato dalla repentinità con cui la loro condizione umana è mutata, dalla vicinanza geografica che li contraddistingue, dall’appartenere a un confine più grande, quello del cosiddetto “mondo civile” che nell’autodefinirsi crea automaticamente un limite.
“Se faccio un altro passo o sono altrove o sono morto.” Queste le parole di uno dei soldati che presidiano la frontiera con l’Albania nel film di Angelopoulos. Non è forse in questa frase racchiuso il senso del confine? In un’Unione Europea che ha abolito i confini all’interno dei propri stati e si è chiusa all’interno del benessere garantito ai propri abitanti l’eliminazione delle barriere e della frontiera è stata solo un’illusione.
La frontiera è stata semplicemente allontanata, dimenticata, condannata solo nei casi più estremi e oggi che uno stato vicino culturalmente all’Europa come l’Ucraina è stato invaso sulla base di principi e presupposti che nel XXI secolo eravamo convinti di esserci lasciati alle spalle, la frontiera fisica cade per dare accoglienza ai profughi ucraini e il confine perde la sua concretezza per assumere, ancora di più, un valore politico e culturale.
Il confine è ormai quello fra Occidente e Russia, fra “noi” e “loro”, che altro non è che una riproposizione di uno schema che sembravamo aver lasciato al Novecento, in un mondo globalizzato ed estremamente interconnesso. Eppure, proprio alla fine di quel crudo secolo Theo Angelopoulos aveva già riscontrato che il crollo del dualismo del continente europeo sarebbe stato solo il prologo per un allargamento e non per un annullamento dei confini. Molte sono le frasi de Il passo sospeso della cicogna che si potrebbero riportare. Frasi certamente altisonanti, che all’epoca potevano forse apparire vaghe, ma oggi più che mai appaiono drammaticamente concrete.
Il film successivo della trilogia, Lo sguardo di Ulisse, è una drammatica presa d’atto del crollo di un sistema che non sembra in grado di generarne un altro più stabile. Nella ex-Jugoslavia lacerata dalle guerre civili un regista, interpretato da Harvey Keitel, si mette in viaggio per trovare tre bobine mai sviluppate dai fratelli Manakis, pionieri del cinema Balcanico, in una penisola devastata e sconvolta dal crollo del socialismo. Il cinema dei fratelli, che documentava la vita quotidiana delle popolazioni balcaniche, viene ritenuto da Angelopoulos l’ultimo, forse l’unico, esempio di un’unità culturale e storica della penisola. Il viaggio del regista, moderno Odisseo, assume nel film i tratti del mito, prima e ultima chiave di lettura per gli avvenimenti storici.
In una penisola che ha sperimentato con la fine dell’unità politica la riemersione di barriere che si credevano superate, dimenticate, la guerra annienta i civili di qualsiasi nazione, religione o etnia allo stesso modo.
L’ultimo atto del film, ambientato in una Sarajevo annientata dall’assedio, mostra alcune delle immagini più significative che hanno documentato lo stato dei civili durante una guerra. Nella città sommersa dalla neve e dalla nebbia mentre un’orchestra suona, sotto il suono delle bombe, dei pazzi escono da un manicomio appena bombardato. Dei civili scompaiono nel grigio per poi, nell’opacità, in un’immagine che non può che relegare al fuori campo interno un’atrocità così grande, venire massacrati.
Ritornare a queste scene, a queste immagini, in un momento in cui imperversa una feroce guerra in Europa di cui a fare le spese sono soprattutto i civili non può che ricordarci come ciò che sembra a noi incredibile è già accaduto, e ancora accadrà, nel ciclo continuo di cause-effetto, di barriere e di distruzione di barriere, che è la storia umana.
Le donne che il regista protagonista di Lo Sguardo di Ulisse incontra nel viaggio per i Balcani, trasposizione delle figure femminili dell’Odissea, hanno tutte lo stesso volto, a ulteriore testimonianza di uno stato di annientamento della singolarità che provocano catastrofi come guerre o migrazioni forzate. Molti sono i volti che vediamo del resto oggi nei telegiornali, volti senza un nome che si perdono fra altri volti fino a perdere anche essi la propria specificità e diventare immagine, definita ma bidimensionale, della guerra. Se nei vecchi film del regista greco la massa in quanto tale diventava protagonista, attiva o passiva, dell’azione, in film come Il passo sospeso della cicogna e Lo sguardo di Ulisse la massa perde il ruolo di protagonista e mantiene solo la passività che è propria di chi non decide da solo il proprio destino e della propria vita non sembra neanche essere protagonista.
Muovendosi, come di consuetudine per Theo Angelopoulos, in una linea storica che non conosce discontinuità, in cui passato e presente convivono nella stessa inquadratura, il regista greco mette l’accento nel film, come già avveniva nella “trilogia storica” composta da I giorni del ’36, La recita e I cacciatori, sull’interconnessione degli eventi e su un flusso ricorsivo della Storia che non dimentica indietro niente e che è sempre pronto a far riemergere, onda dopo onda, questioni che sembravano ormai arenate in fondo al mare del tempo.
Impossibile non riportare questa concezione della Storia all’attualità, alla guerra in Ucraina le cui radici risalgono inevitabilmente al secolo scorso, a conti mai definitivamente chiusi con il crollo dell’Unione Sovietica che si pensavano archiviati o dimenticati. In una linea temporale che si scopre non più retta, ma circolare, ciò che viene etichettato come passato ritorna improvvisamente presente.
Negli ultimi giorni lo sguardo dei media occidentali è orientato verso Odessa, città ucraina la cui storia Novecentesca è stata spesso raccontata dal cinema e che è protagonista di una delle sequenze più importanti e celebri della storia della settima arte, quella presente in La corazzata Potemkin di S. M. Ėjzenštejn. Nella stessa città, da cui provengono peraltro anche i profughi greci protagonisti di un altro film di Theo Angelopoulos, La sorgente del fiume, si compì un atroce massacro di ebrei nel 1941. Nel 2014 nella stessa città avvenne uno degli eventi più controversi del conflitto russo-ucraino che vide una serie di proteste culminare con roghi che costarono la vita a 48 persone sostenitrici del governo filo-russo esautorato dopo le rivolte di Euromaidan.
In questa città un regista come Theo Angelopoulos avrebbe avuto gioco estremamente facile nel racchiudere tutti questi avvenimenti in un lungo piano-sequenza di quelli a cui aveva abituato il proprio pubblico e far visualizzare i collegamenti fra avvenimenti così distanti nel tempo eppure parte di una dialettica storica che non si è esaurita nel passaggio fra XX e XXI secolo e che è tornata, come vediamo oggi, a riproporsi quasi inalterata.
Questa breve divagazione ci conduce direttamente all’ultimo film della trilogia dei confini, L’eternità e un giorno, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del 1998. Il film con Bruno Ganz e Fabrizio Bentivoglio è stato spesso bollato dalla critica italiana come una divagazione intima, filosofeggiante e fine a sé stessa compiuta da un autore non più in grado di comunicare con il proprio pubblico.
Raccontando la storia di un intellettuale rigido ed egoista, la relazione che stringe con un giovane clandestino albanese e il suo viaggio, fisico e mentale, alla ricerca del senso del proprio passato e del proprio avvenire attanagliato dallo spettro della morte, Theo Angelopoulos compone una grande elegia di un secolo e si interroga su quali nuove parole potranno essere usate nel futuro in un momento in cui tutte le parole, tutti i concetti, sembrano essere già stati espressi, metabolizzati e, infine, esauriti.
Nello sguardo, spaesato ma vivo, del giovane ragazzo albanese e nel viaggio che dovrà intraprendere Theo Angelopoulos pone la propria speranza nel futuro, non dopo aver mostrato la schiavitù a cui vengono ridotti i migranti una volta varcati quei confini sui quali, in una delle immagini più suggestive del film, rimangono bloccati, immobili e anonimi come silhouettes, cristallizzati in una condizione di eterno presente.
Nelle riflessioni dell’anziano protagonista interpretato da Bruno Ganz, nelle frasi del poeta ottocentesco nato in Grecia ma cresciuto in Italia che tornò nell’Ellade per raccontare la guerra di indipendenza greca e che si trovò costretto a comprare le parole dal momento che non conosceva il greco. Theo Angelopoulos mette in evidenza il vuoto lasciato dalla fine delle ideologie, un vuoto potenzialmente pericoloso le cui ripercussioni sono state gravissime per tutto il continente europeo, sia occidentale sia orientale e su cui ancora oggi si discute.
In una delle scene più celebri del film, l’anziano intellettuale e il giovane albanese salgono si trovano su un bus diretto al porto da cui il migrante salperà per intraprendere il viaggio della vita. A un certo punto sale un uomo con in mano una bandiera rossa, subito dopo sale un’orchestra che inizia a suonare una musica che a mano a mano si fonde con le note extradiegetiche composte da Eleni Karaindrou. Nel controcampo notiamo l’uomo con la bandiera rossa essersi addormentato. Nell’inquadratura successiva sale sull’autobus il poeta ottocentesco, interpretato da Fabrizio Bentivoglio, che declama una poesia incompiuta alla quale l’intellettuale non può che rispondere con la domanda che lo attanaglia dall’inizio del film: “Quanto dura il domani?”.
In sole tre immagini Theo Angelopoulos sintetizza la fine di un’epoca. Il passato risulta incomprensibile come il presente e il senso del futuro rimane sconosciuto sia per il giovane, in procinto di intraprendere il viaggio della vita, sia per l’anziano che sta per compiere il passaggio dalla vita alla morte, le parole non bastano più per esprimere concetti. E la rivoluzione dorme. Con che parole canteremo una nuova rivoluzione?
Oggi queste parole nuove non sono ancora state trovate e in quel domani ciclico che dura l’eternità e un giorno ritroviamo la tragedia della guerra, della migrazione, dei confini. Le parole utilizzate sono sempre le stesse, i concetti, i significati ultimi, variano nelle sfumature ma sono sempre gli stessi. Una nuova rivoluzione non si è compiuta, i confini non sono stati abbattuti nonostante i nuovi termini e le nuove espressioni che hanno cantato la globalizzazione. E si ritorna così alle parole che hanno caratterizzato il secolo scorso e che in fondo caratterizzano da sempre la storia dell’uomo: confini, guerre, migrazioni.