Uno studio sulla drammaturgia di Indiana
Jones e il suo eterno conflitto maschile,
di Andrea Tiradritti
TR-30
03.05.2021
Cosa può ancora dirci, a quarant’anni dalla sua fortunata creazione, un personaggio di culto come Indiana Jones? Per capirlo bisogna fare un passo indietro e tornare alla metà degli anni Settanta. Risale a quel periodo infatti l’avvento dei gender studies nelle università americane, ovvero quella coordinata serie di studi volta a interpretare e decostruire, in ogni ambito della cultura umana, le strutture che regolano il rapporto fra i generi e le loro dinamiche di potere. In quanto eccezionale strumento comunicativo di massa, specchio della società e creatore privilegiato del suo immaginario simbolico, il cinema ha da subito fornito un terreno molto fertile per le ricerche di questi studiosi: essi erano interessati a cogliere nella filmografia di una nazione o di un periodo storico delle manifestazioni abituali, dei caratteri ripetuti ed esemplari che potessero essere indicativi di un «comune sentire», di una rappresentazione condivisa del mondo e delle sue categorie. Le accademiche femministe dell’epoca rivolsero le loro analisi soprattutto al cinema classico di Hollywood, mostrando come questo, in linea con l’ordine sociale vigente, avesse industrialmente perpetuato codici sessisti, relegando nella grande maggioranza dei casi l’agire femminile in posizione subalterna a quello maschile, e più in generale ponendo la figura della donna in una condizione di marginalità e passività, mero oggetto del desiderio, dello sguardo e dell’azione dell’uomo spettatore/protagonista.
Il tema è vasto e complesso, ma quello che qui conta sottolineare è l’importanza di un filone di ricerca che si prefigge l’obiettivo di intendere il cinema non solo come pura espressione artistica scevra da vincoli con l’esterno, ma anche e soprattutto come prodotto situato in uno specifico contesto culturale, di cui di volta in volta si trova obbligato a riflettere, criticare o rifiutare dialetticamente le convenzioni legate ai ruoli di genere e ai valori dominanti. Questo variegato insieme di ricerche sociologiche, politiche e culturali applicate all’audiovisivo ha avuto nel tempo il pregio di portare a una più lucida consapevolezza delle diseguaglianze e delle discriminazioni presenti nel nostro modo di rappresentarci, nonché a una maggiore sensibilità e a una più inclusiva pluralità di voci all’interno dell’industria cinematografica. Ancora oggi inesplorato e non approfondito - specialmente in Italia dove questi studi sono poco incentivati - rimane però l’esame, nel cinema, di un certo tipo di uomo e di un conseguente concetto di natura maschile.
Per rispondere alla domanda iniziale potremmo dire che la saga di Indiana Jones, oltre che come marchio planetario di incredibile successo e tetralogia fra le più amate della storia del cinema, è adesso rilevante anche per come il suo protagonista è stato ideato e realizzato. Se è vero che i film oltre a parlare di sé parlano anche della società in cui nascono e per cui sono prodotti, un’opera a tal punto popolare e riuscita come questa può senz’altro aiutarci a comprendere molto della nostra società. Riflettere in modo attuale su Indiana Jones nel 2021 significa innanzitutto interrogarsi su quanto il suo straordinario successo e la sua duratura influenza siano legate al modello di uomo che queste pellicole hanno rappresentato come invidiabile, affascinante e vincente.
Ecco da cosa nasce questo studio su un film della saga, Indiana Jones e l’ultima crociata (1989), che si pone l’obiettivo di riflettere su quale tipo di maschio sia questo eroe e secondo quali dinamiche si dispieghi il suo emblematico rapporto col padre. Una breve ricerca archeologica quindi - visto il personaggio - che dissezioni il dettaglio e provi ad analizzare l’uomo dietro al mito hollywoodiano, scavando alla base di un soggetto divenuto fenomeno di costume e paradigma di una mascolinità ormai sempre più problematica.
Nei primi due film della serie abbiamo conosciuto Indiana Jones come una sorta di atipico supereroe dalla doppia vita: pacato professore di archeologia all’università di Princeton e temerario avventuriero in cerca di antichi cimeli da salvare dall’oblio del tempo e dalle mire di sanguinari rivali in giro per il mondo. Della sua persona abbiamo ricavato poche informazioni. Sappiamo solo che ha all’incirca quarant’anni, che ha nel suo collega Marcus (Denholm Elliott) un amico fidato e che il suo carisma e il suo aspetto fisico gli assicurano uno spiccato fascino nei confronti delle donne, a partire dalle sue giovani studentesse. Proprio il suo libertinaggio e la sua intensa passione amorosa - assimilabile a quella necessaria per accaparrarsi i preziosi reperti di cui è esperto - sono componenti cruciali del suo carattere, più volte sottolineate nei primi due film e sviscerate in tutti i loro aspetti più inconsci nel terzo.
Dopo il trionfo al botteghino dei primi capitoli George Lucas e Steven Spielberg sentivano il bisogno di dare alla loro creatura un più ampio spessore psicologico e, tramite il racconto di una relazione originaria che spiegasse la natura di tutte le altre, un passato di cui portare il peso. L’unicità di Indiana Jones e l’ultima crociata (1989) all’interno della saga risiede proprio nell’approfondire le pieghe più intime del protagonista e rendere la consueta trama d’azione nient’altro che un MacGuffin, un pretesto narrativo che intrattiene con classe ma si limita a lambire il vero cuore pulsante del film, ovvero il rapporto conflittuale fra Indiana e suo padre. Ora, che per interpretare il padre di Harrison Ford sia stato scelto Sean Connery non è soltanto una grande trovata pubblicitaria, ma anche un segnale della volontà di proseguire una gloriosa discendenza, marcare un passaggio di testimone da chi era considerato all’epoca - e forse ancora oggi - un uomo dalle straordinarie qualità e dal sicuro impatto positivo sul pubblico.
Lo stesso Spielberg ha avuto modo di affermare più volte negli anni come nella sua testa fin da subito il padre di Indiana Jones non sarebbe potuto essere altri che il primo e più iconico James Bond. È evidente dunque in che modo queste due figure, rispettivamente genesi e sviluppo l’una dell’altra, siano connesse indissolubilmente fra loro, mentre è molto meno chiaro, perché meno dibattuto e lampante, è all’interno di quale mentalità e secondo quale modello di mascolinità questo «patrimonio genetico» si sia potuto trasmettere in maniera così redditizia.
Il primo incontro fra Indiana e suo padre condensa già nel suo breve arco narrativo tutta la sostanza dei loro problemi. Attraverso un flashback siamo nel 1912, ventisei anni prima di quando si svolgeranno le vicende principali narrate nel film, e un giovane Indiana interpretato per l’occasione da River Phoenix sta correndo a casa; ha qualcosa di importante da dire a suo padre riguardo alla folgorante avventura che ha vissuto quella mattina mentre era in gita con dei compagni. L’euforica eccitazione del ragazzo viene però gelata dall’ordine del padre, intento a decifrare un antico volume nel suo studio, di contare fino a venti, per di più in greco, prima di disturbarlo. Questa inusuale richiesta, insieme all’opprimente senso di claustrofobia che incute la sua stanza e alla risolutezza con cui preferisce continuare il suo lavoro piuttosto che ascoltare l’urgenza del figlio, ci dicono molto sulla figura di Henry Jones Sr. Egli entrerà davvero in scena solo verso la metà del film - Spielberg fino ad allora si limita a inquadrarne una mano o a mostrarne una fotografia - eppure già prima di incontrarlo siamo in grado di delineare un ritratto fedele della sua persona e dell’educazione che ha impartito al figlio.
Il personaggio di Connery è un rispettato professore di letteratura medievale, studioso brillante e metodico, uomo dedito al suo lavoro e appassionato di conoscenza tanto quanto lo sarà Indiana. Quest’ultimo non ha sue notizie da molto tempo quando scopre che è misteriosamente sparito nel corso di una spedizione riguardante il calice del Sacro Graal, manufatto leggendario al cui studio suo padre ha dedicato l’intera esistenza. Il film racconta dunque il tentativo di un figlio di salvare il proprio padre, ma anche e soprattutto un tipico rapporto virile, valido ancora oggi per molti uomini, imprigionato in un’ipocrita formalità e in un’arida incomunicabilità emotiva.
Nel film la relazione padre-figlio si articola lungo due registri distinti ma fra loro dipendenti, quello identitario e quello affettivo. Mentre il primo riguarda il meccanismo attraverso cui Indiana, in quanto adulto, tenta a fatica di differenziarsi dal padre, il secondo, più sottile e scabroso, affronta ciò che Indiana nonostante tutto desidera ancora essere agli occhi del suo genitore.
Proprio come un adolescente risentito egli prova per la figura paterna un grumo di sentimenti a malapena districabili, che sfumano dalla ribellione all’ubbidienza, dal rispetto al rancore, dall’astio al bisogno di essere amato. Del resto, ogni sforzo che Indiana compie per evidenziare la sua opposizione nei confronti del padre viene puntualmente deriso e sorpassato dagli eventi. Egli porta già nel nome, uguale a quello paterno, la condanna a un eterno confronto. Per questo odia essere chiamato junior, diminutivo che vive come uno smacco per il suo orgoglio e un attestato di inferiorità. Piuttosto che farsi chiamare in quel modo e rischiare di essere considerato soltanto un’estensione dell’Henry Jones Sr., sceglie persino di prendere come nome d’arte quello del cane di famiglia. «Ho sempre bei ricordi quando penso a quel cane», ammette verso la fine Indiana, lasciando solo intuire quali cattivi ricordi, per giustificare tale scelta, gli dovesse invece far tornare alla memoria il padre.
Non è un caso che a minare l’esteriore e compiaciuta sicurezza di Indiana Jones sia una donna. La dottoressa Elsa Schneider, interpretata da Alison Doody, gioca infatti un ruolo fondamentale nella discordia e successiva riappacifazione fra i due uomini, ponendosi fin da subito come elemento di minaccia per l’autostima di entrambi. Collega del Jones più anziano e ultima persona ad averlo visto prima della scomparsa, questa donna emancipata e indipendente esplicita subito il pericolo che racchiude per l’equilibrio maschile paragonando più volte il padre al figlio. Trasfigurando l’uno nell’altro, tralasciando le differenze per scorgerne i tratti comuni, non fa altro che acuire il senso di insofferenza e inadeguatezza del secondo nei confronti del primo. I rimossi che per anni Indiana ha tentato di superare, a partire dalla somiglianza fisica e caratteriale col padre che tanto fastidio gli ha sempre procurato, tornano inevitabilmente a galla tramite le parole ammiccanti di Schneider. Questo ripetuto accostare le qualità dei due uomini da parte della donna, prima le loro fattezze fisiche e poi la loro brillante intelligenza, serve a preparare il campo per la rivelazione che trasforma il confronto fra questi ultimi in una vera e propria gara di virilità.
Più avanti nel film scopriamo infatti che entrambi hanno fatto sesso con la dottoressa e che entrambi sono stati ingannati da lei grazie a un’astuta operazione di spionaggio. Se al disincantato Henry Jones Sr. questa notizia non sembra creare troppo disagio, per Indiana invece il contraccolpo è avvilente. Non solo il pensiero di suo padre lo invade di nuovo come un’ombra ingombrante, ma egli stavolta diviene persino un suo rivale proprio nel campo, quello della seduzione, in cui fino ad allora riteneva essere più bravo di chiunque altro. La sensazione, dolorosa da accettare per Indiana, è che tutto ciò che otterrà in ambito professionale e amoroso sarà inevitabilmente rapportato, valutato e in molti casi sminuito in base a ciò che suo padre prima, e spesso meglio di lui, ha ottenuto. Più che un padre un competitore dunque, un record col quale misurarsi e nel quale facilmente smarrirsi.
Nella concitata parte centrale del film, quella ambientata nel castello di Brunwald dove il personaggio di Connery è tenuto segregato dai nazisti, emerge con più evidenza il piano affettivo della vicenda. Qui ogni gesto compiuto da Indiana per salvare la vita al padre e liberarlo dalla prigionia è anche implicitamente un tentativo di ottenere la sua ammirazione e di veder da lui finalmente riconosciuti i suoi pregi. Impavido e inarrestabile nei confronti dei suoi spietati nemici, Indiana torna infatti un bambino timoroso e remissivo quando si rimette al giudizio del genitore. Eppure, nonostante suo figlio mostri tutto il suo ingegno per evadere dal castello e seminare i tedeschi, Henry Jones Sr. continua a negargli il minimo cenno di intesa. Al contrario con cinismo e sarcasmo persevera nello svilire il suo valore, irridendone le ingenuità e scandalizzandosi, in quanto uomo di lettere, per l’uso spregiudicato della violenza che gli ha visto esercitare.
Dopo una rocambolesca fuga i due si trovano a un bivio sia reale che metaforico. Devono decidere che strada prendere e soprattutto se farlo insieme. Nasce l’ennesimo conflitto, alzano la voce, si allude con vaga amarezza alla moglie e madre defunta. Litigano finché Indiana si lascia sfuggire un’imprecazione, suo padre lo schiaffeggia e ammutolendolo gli ricorda l’importanza della loro impresa. In maniera più esplicita che nei film precedenti e proprio attraverso il devoto personaggio di Jones Sr., si pone qui l’attenzione sull’aspetto morale e fideistico. Dalla missione dei due sembrano dipendere le sorti dell’intera umanità. Da una parte ci sono loro, il bene, gli uomini di cultura consci dei propri limiti e forti della fede in una giustizia soprannaturale che punirà chiunque osi violarla. Dall’altra ci sono i nazisti, il male, gli infedeli privi di scrupoli, coloro che vogliono impossessarsi del potere del Sacro Graal per sottomettere il mondo al proprio interesse. Potremmo dire, estremizzando questa divisione manichea, che da una parte c’è la civiltà americana, religiosa e libertaria, e dall’altra il terrore dei totalitarismi. Secondo tale prospettiva la morte di Elsa Schneider nel tempio del Graal assume i contorni di un sacrificio necessario e di una benefica purificazione dal peccato. Non è solo una spia avida e disonesta, ma anche una donna che tramite la sua capacità di autodeterminarsi ha fatto vacillare il dominio maschile dei suoi due amanti. Anche in questo caso, quindi, una donna autonoma e sessualmente libera viene connotata negativamente e, attraverso la sua eliminazione fisica e il suo castigo spirituale, dannata per sempre dal sistema patriarcale di cui aveva minato la stabilità.
Per un solo breve frangente in tutto il film Henry Jones Sr. sveste i panni del padre severo e indifferente; è quando Indiana sembra essere appena precipitato in un burrone dopo una forsennata lotta con un gerarca nazista. L’altezza che lo ha inghiottito è spaventosa, le speranze di rivederlo salvo pressoché nulle. Improvvisamente consapevole della perdita, l’anziano professore capisce i suoi sbagli e rimpiange di non aver sfruttato il tempo a disposizione per essere un padre migliore. Il sollievo poi si sostituisce al dolore ed esplode in un affettuoso abbraccio non appena scopre che suo figlio in realtà è vivo in carne e ossa dietro di lui. La commozione però dura poco. Mostrarsi vulnerabili è una debolezza di un attimo, un comportamento inammissibile perché non produttivo.
Il lieto fine farà pensare a una ritrovata armonia fra i due uomini, eppure va sottolineato come tale riconciliazione, almeno on screen, non passi attraverso alcun vero dialogo o confronto sincero. Piuttosto che mettersi a nudo e affrontare le criticità del loro rapporto, essi preferiscono accontentarsi di un’apparente tregua che a malapena scalfisce la struttura tossica ed egoistica che per decenni ha regolato la loro relazione. Non è un caso forse che gli unici momenti in cui i due sembrano davvero complici sono quelli in cui si confidano le loro vittorie amorose, ottenute con la stessa donna, e quando si trovano a combattere un nemico comune. Conquista del femminile e propensione alla guerra, del resto, sono i due elementi che per secoli hanno contraddistinto la natura sociale del maschio e che Hollywood nel corso della sua storia ha spesso riproposto.
Alla luce di quanto detto, il fatto che la maggior parte dei critici e degli spettatori giudichi ancora oggi l’alchimia fra Connery e Ford in questo film giustamente irresistibile, e le loro interazioni la parte più divertente della trama, fa sorgere un ultimo decisivo interrogativo. Cosa ci fa realmente sorridere di un rapporto che abbiamo descritto come così sbagliato e dannoso? Fino a che punto siamo abituati a considerare un certo tipo di legame maschile, fondato sul tradizionale rispetto dei ruoli e sulla soppressione dei sentimenti, non solo normale ma in alcuni casi anche giusto e desiderabile?
Uno studio sulla drammaturgia di Indiana
Jones e il suo eterno conflitto maschile,
di Andrea Tiradritti
TR-30
03.05.2021
Cosa può ancora dirci, a quarant’anni dalla sua fortunata creazione, un personaggio di culto come Indiana Jones? Per capirlo bisogna fare un passo indietro e tornare alla metà degli anni Settanta. Risale a quel periodo infatti l’avvento dei gender studies nelle università americane, ovvero quella coordinata serie di studi volta a interpretare e decostruire, in ogni ambito della cultura umana, le strutture che regolano il rapporto fra i generi e le loro dinamiche di potere. In quanto eccezionale strumento comunicativo di massa, specchio della società e creatore privilegiato del suo immaginario simbolico, il cinema ha da subito fornito un terreno molto fertile per le ricerche di questi studiosi: essi erano interessati a cogliere nella filmografia di una nazione o di un periodo storico delle manifestazioni abituali, dei caratteri ripetuti ed esemplari che potessero essere indicativi di un «comune sentire», di una rappresentazione condivisa del mondo e delle sue categorie. Le accademiche femministe dell’epoca rivolsero le loro analisi soprattutto al cinema classico di Hollywood, mostrando come questo, in linea con l’ordine sociale vigente, avesse industrialmente perpetuato codici sessisti, relegando nella grande maggioranza dei casi l’agire femminile in posizione subalterna a quello maschile, e più in generale ponendo la figura della donna in una condizione di marginalità e passività, mero oggetto del desiderio, dello sguardo e dell’azione dell’uomo spettatore/protagonista.
Il tema è vasto e complesso, ma quello che qui conta sottolineare è l’importanza di un filone di ricerca che si prefigge l’obiettivo di intendere il cinema non solo come pura espressione artistica scevra da vincoli con l’esterno, ma anche e soprattutto come prodotto situato in uno specifico contesto culturale, di cui di volta in volta si trova obbligato a riflettere, criticare o rifiutare dialetticamente le convenzioni legate ai ruoli di genere e ai valori dominanti. Questo variegato insieme di ricerche sociologiche, politiche e culturali applicate all’audiovisivo ha avuto nel tempo il pregio di portare a una più lucida consapevolezza delle diseguaglianze e delle discriminazioni presenti nel nostro modo di rappresentarci, nonché a una maggiore sensibilità e a una più inclusiva pluralità di voci all’interno dell’industria cinematografica. Ancora oggi inesplorato e non approfondito - specialmente in Italia dove questi studi sono poco incentivati - rimane però l’esame, nel cinema, di un certo tipo di uomo e di un conseguente concetto di natura maschile.
Per rispondere alla domanda iniziale potremmo dire che la saga di Indiana Jones, oltre che come marchio planetario di incredibile successo e tetralogia fra le più amate della storia del cinema, è adesso rilevante anche per come il suo protagonista è stato ideato e realizzato. Se è vero che i film oltre a parlare di sé parlano anche della società in cui nascono e per cui sono prodotti, un’opera a tal punto popolare e riuscita come questa può senz’altro aiutarci a comprendere molto della nostra società. Riflettere in modo attuale su Indiana Jones nel 2021 significa innanzitutto interrogarsi su quanto il suo straordinario successo e la sua duratura influenza siano legate al modello di uomo che queste pellicole hanno rappresentato come invidiabile, affascinante e vincente.
Ecco da cosa nasce questo studio su un film della saga, Indiana Jones e l’ultima crociata (1989), che si pone l’obiettivo di riflettere su quale tipo di maschio sia questo eroe e secondo quali dinamiche si dispieghi il suo emblematico rapporto col padre. Una breve ricerca archeologica quindi - visto il personaggio - che dissezioni il dettaglio e provi ad analizzare l’uomo dietro al mito hollywoodiano, scavando alla base di un soggetto divenuto fenomeno di costume e paradigma di una mascolinità ormai sempre più problematica.
Nei primi due film della serie abbiamo conosciuto Indiana Jones come una sorta di atipico supereroe dalla doppia vita: pacato professore di archeologia all’università di Princeton e temerario avventuriero in cerca di antichi cimeli da salvare dall’oblio del tempo e dalle mire di sanguinari rivali in giro per il mondo. Della sua persona abbiamo ricavato poche informazioni. Sappiamo solo che ha all’incirca quarant’anni, che ha nel suo collega Marcus (Denholm Elliott) un amico fidato e che il suo carisma e il suo aspetto fisico gli assicurano uno spiccato fascino nei confronti delle donne, a partire dalle sue giovani studentesse. Proprio il suo libertinaggio e la sua intensa passione amorosa - assimilabile a quella necessaria per accaparrarsi i preziosi reperti di cui è esperto - sono componenti cruciali del suo carattere, più volte sottolineate nei primi due film e sviscerate in tutti i loro aspetti più inconsci nel terzo.
Dopo il trionfo al botteghino dei primi capitoli George Lucas e Steven Spielberg sentivano il bisogno di dare alla loro creatura un più ampio spessore psicologico e, tramite il racconto di una relazione originaria che spiegasse la natura di tutte le altre, un passato di cui portare il peso. L’unicità di Indiana Jones e l’ultima crociata (1989) all’interno della saga risiede proprio nell’approfondire le pieghe più intime del protagonista e rendere la consueta trama d’azione nient’altro che un MacGuffin, un pretesto narrativo che intrattiene con classe ma si limita a lambire il vero cuore pulsante del film, ovvero il rapporto conflittuale fra Indiana e suo padre. Ora, che per interpretare il padre di Harrison Ford sia stato scelto Sean Connery non è soltanto una grande trovata pubblicitaria, ma anche un segnale della volontà di proseguire una gloriosa discendenza, marcare un passaggio di testimone da chi era considerato all’epoca - e forse ancora oggi - un uomo dalle straordinarie qualità e dal sicuro impatto positivo sul pubblico.
Lo stesso Spielberg ha avuto modo di affermare più volte negli anni come nella sua testa fin da subito il padre di Indiana Jones non sarebbe potuto essere altri che il primo e più iconico James Bond. È evidente dunque in che modo queste due figure, rispettivamente genesi e sviluppo l’una dell’altra, siano connesse indissolubilmente fra loro, mentre è molto meno chiaro, perché meno dibattuto e lampante, è all’interno di quale mentalità e secondo quale modello di mascolinità questo «patrimonio genetico» si sia potuto trasmettere in maniera così redditizia.
Il primo incontro fra Indiana e suo padre condensa già nel suo breve arco narrativo tutta la sostanza dei loro problemi. Attraverso un flashback siamo nel 1912, ventisei anni prima di quando si svolgeranno le vicende principali narrate nel film, e un giovane Indiana interpretato per l’occasione da River Phoenix sta correndo a casa; ha qualcosa di importante da dire a suo padre riguardo alla folgorante avventura che ha vissuto quella mattina mentre era in gita con dei compagni. L’euforica eccitazione del ragazzo viene però gelata dall’ordine del padre, intento a decifrare un antico volume nel suo studio, di contare fino a venti, per di più in greco, prima di disturbarlo. Questa inusuale richiesta, insieme all’opprimente senso di claustrofobia che incute la sua stanza e alla risolutezza con cui preferisce continuare il suo lavoro piuttosto che ascoltare l’urgenza del figlio, ci dicono molto sulla figura di Henry Jones Sr. Egli entrerà davvero in scena solo verso la metà del film - Spielberg fino ad allora si limita a inquadrarne una mano o a mostrarne una fotografia - eppure già prima di incontrarlo siamo in grado di delineare un ritratto fedele della sua persona e dell’educazione che ha impartito al figlio.
Il personaggio di Connery è un rispettato professore di letteratura medievale, studioso brillante e metodico, uomo dedito al suo lavoro e appassionato di conoscenza tanto quanto lo sarà Indiana. Quest’ultimo non ha sue notizie da molto tempo quando scopre che è misteriosamente sparito nel corso di una spedizione riguardante il calice del Sacro Graal, manufatto leggendario al cui studio suo padre ha dedicato l’intera esistenza. Il film racconta dunque il tentativo di un figlio di salvare il proprio padre, ma anche e soprattutto un tipico rapporto virile, valido ancora oggi per molti uomini, imprigionato in un’ipocrita formalità e in un’arida incomunicabilità emotiva.
Nel film la relazione padre-figlio si articola lungo due registri distinti ma fra loro dipendenti, quello identitario e quello affettivo. Mentre il primo riguarda il meccanismo attraverso cui Indiana, in quanto adulto, tenta a fatica di differenziarsi dal padre, il secondo, più sottile e scabroso, affronta ciò che Indiana nonostante tutto desidera ancora essere agli occhi del suo genitore.
Proprio come un adolescente risentito egli prova per la figura paterna un grumo di sentimenti a malapena districabili, che sfumano dalla ribellione all’ubbidienza, dal rispetto al rancore, dall’astio al bisogno di essere amato. Del resto, ogni sforzo che Indiana compie per evidenziare la sua opposizione nei confronti del padre viene puntualmente deriso e sorpassato dagli eventi. Egli porta già nel nome, uguale a quello paterno, la condanna a un eterno confronto. Per questo odia essere chiamato junior, diminutivo che vive come uno smacco per il suo orgoglio e un attestato di inferiorità. Piuttosto che farsi chiamare in quel modo e rischiare di essere considerato soltanto un’estensione dell’Henry Jones Sr., sceglie persino di prendere come nome d’arte quello del cane di famiglia. «Ho sempre bei ricordi quando penso a quel cane», ammette verso la fine Indiana, lasciando solo intuire quali cattivi ricordi, per giustificare tale scelta, gli dovesse invece far tornare alla memoria il padre.
Non è un caso che a minare l’esteriore e compiaciuta sicurezza di Indiana Jones sia una donna. La dottoressa Elsa Schneider, interpretata da Alison Doody, gioca infatti un ruolo fondamentale nella discordia e successiva riappacifazione fra i due uomini, ponendosi fin da subito come elemento di minaccia per l’autostima di entrambi. Collega del Jones più anziano e ultima persona ad averlo visto prima della scomparsa, questa donna emancipata e indipendente esplicita subito il pericolo che racchiude per l’equilibrio maschile paragonando più volte il padre al figlio. Trasfigurando l’uno nell’altro, tralasciando le differenze per scorgerne i tratti comuni, non fa altro che acuire il senso di insofferenza e inadeguatezza del secondo nei confronti del primo. I rimossi che per anni Indiana ha tentato di superare, a partire dalla somiglianza fisica e caratteriale col padre che tanto fastidio gli ha sempre procurato, tornano inevitabilmente a galla tramite le parole ammiccanti di Schneider. Questo ripetuto accostare le qualità dei due uomini da parte della donna, prima le loro fattezze fisiche e poi la loro brillante intelligenza, serve a preparare il campo per la rivelazione che trasforma il confronto fra questi ultimi in una vera e propria gara di virilità.
Più avanti nel film scopriamo infatti che entrambi hanno fatto sesso con la dottoressa e che entrambi sono stati ingannati da lei grazie a un’astuta operazione di spionaggio. Se al disincantato Henry Jones Sr. questa notizia non sembra creare troppo disagio, per Indiana invece il contraccolpo è avvilente. Non solo il pensiero di suo padre lo invade di nuovo come un’ombra ingombrante, ma egli stavolta diviene persino un suo rivale proprio nel campo, quello della seduzione, in cui fino ad allora riteneva essere più bravo di chiunque altro. La sensazione, dolorosa da accettare per Indiana, è che tutto ciò che otterrà in ambito professionale e amoroso sarà inevitabilmente rapportato, valutato e in molti casi sminuito in base a ciò che suo padre prima, e spesso meglio di lui, ha ottenuto. Più che un padre un competitore dunque, un record col quale misurarsi e nel quale facilmente smarrirsi.
Nella concitata parte centrale del film, quella ambientata nel castello di Brunwald dove il personaggio di Connery è tenuto segregato dai nazisti, emerge con più evidenza il piano affettivo della vicenda. Qui ogni gesto compiuto da Indiana per salvare la vita al padre e liberarlo dalla prigionia è anche implicitamente un tentativo di ottenere la sua ammirazione e di veder da lui finalmente riconosciuti i suoi pregi. Impavido e inarrestabile nei confronti dei suoi spietati nemici, Indiana torna infatti un bambino timoroso e remissivo quando si rimette al giudizio del genitore. Eppure, nonostante suo figlio mostri tutto il suo ingegno per evadere dal castello e seminare i tedeschi, Henry Jones Sr. continua a negargli il minimo cenno di intesa. Al contrario con cinismo e sarcasmo persevera nello svilire il suo valore, irridendone le ingenuità e scandalizzandosi, in quanto uomo di lettere, per l’uso spregiudicato della violenza che gli ha visto esercitare.
Dopo una rocambolesca fuga i due si trovano a un bivio sia reale che metaforico. Devono decidere che strada prendere e soprattutto se farlo insieme. Nasce l’ennesimo conflitto, alzano la voce, si allude con vaga amarezza alla moglie e madre defunta. Litigano finché Indiana si lascia sfuggire un’imprecazione, suo padre lo schiaffeggia e ammutolendolo gli ricorda l’importanza della loro impresa. In maniera più esplicita che nei film precedenti e proprio attraverso il devoto personaggio di Jones Sr., si pone qui l’attenzione sull’aspetto morale e fideistico. Dalla missione dei due sembrano dipendere le sorti dell’intera umanità. Da una parte ci sono loro, il bene, gli uomini di cultura consci dei propri limiti e forti della fede in una giustizia soprannaturale che punirà chiunque osi violarla. Dall’altra ci sono i nazisti, il male, gli infedeli privi di scrupoli, coloro che vogliono impossessarsi del potere del Sacro Graal per sottomettere il mondo al proprio interesse. Potremmo dire, estremizzando questa divisione manichea, che da una parte c’è la civiltà americana, religiosa e libertaria, e dall’altra il terrore dei totalitarismi. Secondo tale prospettiva la morte di Elsa Schneider nel tempio del Graal assume i contorni di un sacrificio necessario e di una benefica purificazione dal peccato. Non è solo una spia avida e disonesta, ma anche una donna che tramite la sua capacità di autodeterminarsi ha fatto vacillare il dominio maschile dei suoi due amanti. Anche in questo caso, quindi, una donna autonoma e sessualmente libera viene connotata negativamente e, attraverso la sua eliminazione fisica e il suo castigo spirituale, dannata per sempre dal sistema patriarcale di cui aveva minato la stabilità.
Per un solo breve frangente in tutto il film Henry Jones Sr. sveste i panni del padre severo e indifferente; è quando Indiana sembra essere appena precipitato in un burrone dopo una forsennata lotta con un gerarca nazista. L’altezza che lo ha inghiottito è spaventosa, le speranze di rivederlo salvo pressoché nulle. Improvvisamente consapevole della perdita, l’anziano professore capisce i suoi sbagli e rimpiange di non aver sfruttato il tempo a disposizione per essere un padre migliore. Il sollievo poi si sostituisce al dolore ed esplode in un affettuoso abbraccio non appena scopre che suo figlio in realtà è vivo in carne e ossa dietro di lui. La commozione però dura poco. Mostrarsi vulnerabili è una debolezza di un attimo, un comportamento inammissibile perché non produttivo.
Il lieto fine farà pensare a una ritrovata armonia fra i due uomini, eppure va sottolineato come tale riconciliazione, almeno on screen, non passi attraverso alcun vero dialogo o confronto sincero. Piuttosto che mettersi a nudo e affrontare le criticità del loro rapporto, essi preferiscono accontentarsi di un’apparente tregua che a malapena scalfisce la struttura tossica ed egoistica che per decenni ha regolato la loro relazione. Non è un caso forse che gli unici momenti in cui i due sembrano davvero complici sono quelli in cui si confidano le loro vittorie amorose, ottenute con la stessa donna, e quando si trovano a combattere un nemico comune. Conquista del femminile e propensione alla guerra, del resto, sono i due elementi che per secoli hanno contraddistinto la natura sociale del maschio e che Hollywood nel corso della sua storia ha spesso riproposto.
Alla luce di quanto detto, il fatto che la maggior parte dei critici e degli spettatori giudichi ancora oggi l’alchimia fra Connery e Ford in questo film giustamente irresistibile, e le loro interazioni la parte più divertente della trama, fa sorgere un ultimo decisivo interrogativo. Cosa ci fa realmente sorridere di un rapporto che abbiamo descritto come così sbagliato e dannoso? Fino a che punto siamo abituati a considerare un certo tipo di legame maschile, fondato sul tradizionale rispetto dei ruoli e sulla soppressione dei sentimenti, non solo normale ma in alcuni casi anche giusto e desiderabile?