INT-42
25.07.2023
La rappresentazione sul grande schermo dei popoli indigeni è sempre stato un grande problema nell’industria cinematografica, americana e non, basti pensare ai grandi classici del genere western, dove ai nativi d’America venivano spesso assegnati ruoli di villain incivili o di personaggi secondari che esistono solo in funzione del protagonista, il “white saviour” della situazione. Questa rappresentazione stereotipata ha purtroppo caratterizzato il settore per decenni, ma il 2023 potrebbe essere finalmente l’anno della svolta.
Infatti, al Festival di Cannes sono state presentate tre opere che hanno messo in mostra diverse rappresentazioni dei nativi delle Americhe; in primis, Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, dove il regista ha deciso di ampliare la prospettiva sulla cultura di queste popolazioni rispetto al romanzo originale. The Buriti Flower di João Salaviza e Renée Nader Messora è invece un ibrido tra documentario e finzione che analizza diversi periodi storici della comunità indigena nelle foreste brasiliane. Infine, Eureka, la nuova opera del visionario Lisandro Alonso, si divide in tre sezioni dove il cineasta argentino esamina le diverse concezioni del popolo dei nativi americani. La prima sezione è un western in bianco e nero interpretato da Viggo Mortensen e Chiara Mastroianni, dove Alonso mette in mostra la rappresentazione stereotipata che abbiamo citato in precedenza. La seconda, invece, segue Alaina, poliziotta che lavora nella riserva indiana di Pine Ridge e i suoi lunghi turni notturni. La donna vive insieme alla nipote Sadie, una giovane ragazza che sta cercando di fare del bene per altri giovani della riserva. La terza parte è quella che più si avvicina al cinema contemplativo di Alonso, infatti, in questa, possiamo vedere un personaggio “diventare” un volatile esotico e viaggiare in Sud America attraverso lo spazio e il tempo ascoltando i sogni e i pensieri delle persone che vivono in queste zone.
Eureka è un’opera ambiziosa e accattivante, sia nello stile che nel messaggio, e ci ha sorpreso vedere Lisandro Alonso discostarsi, nelle prime due sezioni, dal suo tipico freestyle composto da lunghi piani sequenza che osservano la quotidianità dei personaggi.
Abbiamo avuto il piacere di intervistare il regista, con il quale abbiamo parlato delle tematiche principali della sua nuova opera, della rappresentazione dei nativi e dell’uso di non attori nei suoi film.
Voglio iniziare questa intervista chiedendoti quale è stato il punto di partenza di Eureka.
Se hai visto le mie opere precedenti, noterai che in qualche modo sono connesse tra di loro. Inoltre, la mia filmografia si discosta dalla classica narrativa e tendo sempre a mettere l’ambiente naturale in primo piano rispetto alla vita di città. Questo mi permette di analizzare come le persone vivono certe situazioni tramite svariati punti di vista. Le ambientazioni principali sono villaggi o baie isolate, dove gli esseri umani non devono seguire un preciso “ordine”, quei protocolli che caratterizzano la vita in città per sbarcare il lunario a fine mese. Mi sono spiegato?
Più o meno, sto cercando di capire l’ultima parte.
Beh, benvenuto nel mio mondo! (il regista ride, n.d.r.)
Negli ultimi anni abbiamo potuto vedere una rinascita del western, cosa ti ha spinto ad affrontare questo genere?
Nel corso della mia vita, sono sempre stato circondato da nativi e persone provenienti da riserve indiane. Alcune comunità vivono ancora come cento anni fa e, anche nei miei film precedenti, ho cercato di analizzare questo “comportamento”. Inconsciamente, sono sempre stato legato ai film western e con Eureka ho avuto l’occasione di girare la mia versione del genere. Quando stavo cercando idee per il film, mi sono chiesto come i nativi fossero stati già rappresentati sul grande schermo e, rivedendo alcuni western, ho iniziato a riflettere su questo tipo di caratterizzazione stereotipata. Non volevo mostrare lo stesso. Iniziando Eureka con la sezione western ho voluto mettere in risalto come i nativi non fossero stati rappresentati per quelli che sono, soprattutto se si considerano i nativi che vivono negli Stati Uniti.
Durante il film possiamo infatti vedere diverse rappresentazioni dei nativi.
Usare la parola “nativi” è diventata un’etichetta al giorno d’oggi, solo poche persone vivono ancora seguendo i canoni dell’epoca. La situazione in Sud America è diversa rispetto agli Stati Uniti. La principale differenza è che in paesi come la Colombia, l’Ecuador, la Costa Rica e il Perù, ad esempio, le persone vivono nelle città, mentre negli Stati Uniti le comunità dei nativi vivono isolate, escluse dal sistema. Nessuno esce dalla riserva e nessuno entra. È una grave problema che può portare ad un’interessante analisi sul concetto di “nativi”. Queste persone hanno la propria cultura e tradizione, ma è come se avessero del rancore verso gli altri. Vivono ancora nel passato soprattutto perché non hanno i mezzi per vivere nel presente. Ovviamente questa è la mia visione, non so come queste persone la pensino realmente. Anche se ci ho lavorato assieme sono sempre stato considerato un outsider.
Chiara Mastroianni ha un ruolo secondario nel film, puoi dirmi qualcosa sulla vostra collaborazione.
Ho conosciuto Chiara un paio di anni fa a Cannes, eravamo nella stessa giuria della sezione Un Certain Regard. Siamo diventati buoni amici e da allora siamo rimasti in contatto. Le ho chiesto se voleva fare parte del mio nuovo film e ha accettato subito, aveva capito il “concetto” del lungometraggio, se ce n'è uno. Era rimasta affascinata dal doppio personaggio che doveva interpretare.
Hai scritto il ruolo pensando a lei?
In verità no. All’inizio il suo personaggio doveva essere interpretato da un uomo, ma ci sono stati problemi di agenda e ho deciso di cambiare. Poi, siccome il film è una coproduzione internazionale, a volte, bisogna rispettare dei vincoli contrattuali, e avevo bisogno di un attore francese, quindi ho chiesto a lei. Però nella sceneggiatura il ruolo non aveva un genere specifico.
È stato più interessante vedere questo personaggio interpretato da una donna.
Sono d’accordo. Di solito riesco a creare una connessione più forte, culturale o lavorativa, con uomini. Specialmente quando, nei miei film precedenti, dovevo cercare dei non professionisti per i ruoli principali.
Però le protagoniste di Eureka sono due donne.
Volevo un certo livello di sensibilità in questi due personaggi che non avrei avuto se fossero stati interpretati da uomini. Non so perché la penso così. Prendi il personaggio dello sceriffo, possiamo percepire la sua stanchezza e frustrazione. Alaina è una vera poliziotta nella vita ed era incinta del quinto figlio. Ha partorito qualche settimana prima dell’inizio delle riprese. Questa situazione ha aggiunto un certo livello di emotività nel personaggio, soprattutto per come vede la situazione attorno a lei.
Rimanendo sempre sulle due protagoniste, come è stato il processo di casting?
Prima di iniziare a girare o scegliere gli attori dovevo richiedere diversi permessi, come al consolato della riserva e alla stazione di polizia. In questo lungo periodo ho conosciuto molte persone. Alaina e Sadie non sono due attrici, “interpretano” loro stesse in qualche modo. Come detto in precedenza, Alaina è una poliziotta e ho imparato molto da lei. Avere il suo appoggio è stato fondamentale nell’organizzare le logistiche del film stesso. Spesso, quando apri la porta al commissariato, ti trovi davanti amici o qualcuno della tua famiglia. È complicato, devi affrontare problematiche che riguardano persone a te vicino. E devi continuare così. Ogni singola notte. Hanno turni lunghi e stressanti, devono mettere tante persone in carcere e non sono delle esperienze piacevoli ovviamente. Quello che avviene nella realtà è molto peggio di quello che ho mostrato nel film. Volevo mostrare la realtà di questa persona che si deve svegliare ogni giorno e cercare di portare un po’ di ordine in un luogo ostico. Ci sono solo ventitré ufficiali per circa cinquantamila persone. Inoltre mancano le risorse, ma nonostante tutto loro ci provano. Anche se hanno sofferto per anni ed anni, si stanno impegnando per la propria gente. Anche Sadie sta cercando di fare del bene per la comunità, allena giovani ragazzi e gli fa fare dello sport. Ti devo ricordare che la maggior parte di questi non finiscono la scuola primaria e stanno vivendo una realtà orribile. È una situazione veramente complessa.
In questo film hai collaborato con Timo Salminen, direttore della fotografia conosciuto per le sue collaborazioni con Aki Kaurismäki, com'è stato lavorare con lui?
Eureka è la prima collaborazione tra me e Timo. Ammiro il modo in cui riesce a catturare le luci e soprattutto quel suo stile “classico” che si discosta quasi completamente dal mio. Non so se ne ho uno, ma mi piace osservare e riprendere di continuo, non dico mai stop. Timo alcune volte interveniva e consigliava diversi modi per riprendere una scena, come l’utilizzo del campo-controcampo ad esempio. Ha aiutato ad “organizzare” il mio punto di vista e ha aggiunto qualcosa di artificiale.
Questo ha influenzato sulla struttura narrativa del film?
Difficile rispondere, in alcune parti si. La sezione western soprattutto. È come se avesse diretto lui quella sezione, ha organizzato lo spazio e gestito il ritmo. Ho procurato i “mezzi” per la scena e ho cercato di tenere tutti “felici” durante le riprese. Credo sia questo il mio lavoro quando non devo lavorare con attori non professionisti. Comunque, durante la fase di montaggio ho sistemato il tutto, aggiunto una certa tensione nelle immagini e scelto la lunghezza di ogni sequenza. Ero a Buenos Aires a fare la color correction del film e ho avuto una piccola discussione con Timo su alcune scene dell’ultima sezione. Ma nonostante ciò, vorrei lavorare ancora con lui, mi ha aiutato molto.
Continuando sulla sezione western, è stato impegnativo rappresentare questi cliché?
Molto, ma Timo e Viggo mi hanno reso la vita più facile. Il western ha le proprie regole e protocolli, quindi si, è stata una sfida per me. Ma allo stesso tempo, mi sono divertito molto a girare questa sezione, bevevamo tequila tra una ripresa e l’altra per dirti. La storia è piuttosto semplice in questo caso, c’è il nostro eroe che deve recuperare la figlia e per farlo deve passare attraverso tre/quattro persone. Tutto qui. Ma è stato comunque complicato, come tutto il film! C’erano molte persone coinvolte nella lavorazione che provenivano da diversi paesi e ognuno ha il proprio modo di lavorare. Di solito ero abituato a fare le cose come volevo, ero il “capo” di me stesso. La sezione western però non è risultata piuttosto complicata da girare in confronto a quella nella riserva negli Stati Uniti.
Ad un certo punto nel film possiamo vedere Sadie trasformarsi in un volatile. C’è qualche motivazione particolare dietro alla scelta di quello specifico animale?
È un uccello che tipicamente vola dal sud degli Stati Uniti al nord dell’Argentina. Quando stavo cercando dei possibili volatili da utilizzare per gli effetti speciali, ho trovato questo grosso volatile con dei colori che mi hanno colpito molto. Aveva una certa eleganza e secondo me rispecchia appieno la trasformazione di Sadie.
Te l’ho chiesto perché magari c’era qualche significato più profondo legato alla cultura dei nativi.
Non che io sappia, ma sei libero di fare le tue ricerche (il regista ride, n.d.r.). Se trovi qualcosa di interessante fammi sapere, aiutami a fare il mio lavoro!
Durante i turni di Alaina sentiamo costantemente la voce del centralinista che comunica alla poliziotta dove deve andare e cosa fare. Non vediamo mai la persona dietro a questa voce, c’è qualche motivazione dietro questa scelta?
Non proprio. Abbiamo dato al centralinista un microfono e registrato solo la voce perché, ad essere sincero, non era un bravo attore, però non dirglielo (il regista scoppia a ridere, n.d.r.)! La persona che interpreta il centralinista lo aveva fatto come lavoro per molti anni, semplicemente non aveva un viso che si prestava al film. Eravamo già lì e non potevo cambiare persona. Avevamo chiesto alla “vera” centralinista, ma era troppo impegnata con il proprio lavoro e aveva anche problemi familiari. Era un periodo piuttosto pesante per queste persone, soprattutto per via della tempesta di neve che ha causato ulteriori problemi con le comunicazioni. Ho dovuto anche cambiare leggermente la sceneggiatura e dare più scene a Sadie, che dal canto suo è stata molto brava ad improvvisare in certe situazioni.
Si può dire che la scelta di collaborare con non professionisti abbia portato a risultati sorprendenti.
Esatto, come sempre direi. Gli attori non professionisti sono in grado di portare qualcosa in più rispetto ai professionisti. Più che altro perché queste persone vivono e conoscono la vita nelle riserve. Persone al di fuori di questa realtà potrebbero non capire certi aspetti. Per esempio, all’inizio il ruolo della poliziotta doveva andare a Lily Gladstone, l’attrice di Killers of the Flower Moon, il nuovo film di Scorsese. Ma, dopo sei mesi di conversazioni, mi ha detto che non era molto convinta di fare parte del film e quindi ho dovuto scegliere Alaina. Negli Stati Uniti ci sono sempre diverse questioni e problematiche sul fatto che un outsider decida di fare un film sui problemi dei nativi. Penso sia normale che un attore professionista americano possa rifiutare un ruolo poichè non si sente sicuro di presentare un personaggio ad un pubblico che vive al di fuori delle riserve.
Rimanendo sull’argomento attori, è arrivato il momento di chiederti di Viggo Mortensen.
È fantastico. Ha finito di girare un film western qualche mese fa in Messico (The Dead Don’t Hurt, interpretato da Mortensen e Vicky Krieps, n.d.r.) e ho avuto il piacere di essere sul set e partecipare a una scena come comparsa. È davvero un grande partner in ogni senso, sia davanti che dietro alla camera. È una persona davvero appassionata e comunichiamo spesso. Ha visto il film prima di Cannes e gli è piaciuto molto. Gli chiedo spesso consigli e, a dirla tutta, è lui che mi ha mostrato la riserva in cui abbiamo girato. Aveva vissuto lì per alcuni mesi quando stava girando Hidalgo (2004). Gli avevo chiesto se conosceva qualche riserva negli Stati Uniti e mi ha passato dei contatti. È sempre stato partecipe nella lavorazione di Eureka e parliamo spesso anche di futuri progetti che potremmo realizzare insieme. È un grande uomo, inoltre è cresciuto in Argentina, e per questo riesce a capirmi meglio.
C’è una costante evoluzione nel tuo cinema, sia nello storytelling che nell’ambizione dei tuoi progetti. Con Eureka mi hai davvero sorpreso.
È corretto quello che dici, è un processo naturale. Cerco sempre di stupire me stesso e chi mi sta intorno. Non voglio avere il controllo su quello che il film sarà. Come ti ho detto in precedenza, mi piace lavorare con la crew e improvvisare su quello che bisogna fare e come girarlo. Nessuno chiede mai nulla perché si è creato un rapporto di fiducia. La fase di riprese sono molto lunghe di solito, per Eureka sono durate due/tre anni. Poi inizia la fase di montaggio. La sezione western è stata più semplice, il resto del film è freestyle. Mi piace questo approccio e non sono l’unico cineasta ad adoperarlo. Amat Escalante, Carlos Reygadas, Miguel Gomes, Pedro Costa, Tsai Ming-liang, Apichatpong Weerasethakul e Albert Serra sono altri registi che, come me, seguono questo stile libero, senza regole. Seguo il lavoro di questi cineasti più che altro perché si considerano degli artisti audiovisivi, che si discostano da una certa narrativa. Sapevo fin da subito che non sarei diventato Woody Allen.
Vorrei concludere l’intervista chiedendoti cosa ne pensi del termine “slow cinema”. Spesso il termine viene accostato al tuo lavoro ed usato in maniera troppo riduttiva per descrivere i tuoi film, ma anche quelli di diversi cineasti.
Oh sì, sono un regista dello slow cinema (il regista ironizza ridendo, n.d.r.). Cosa si intende con questo temine? È accostato al fatto che il ritmo di un film è piuttosto lento o perché ti propone un modo lento per interpretare certe idee? Non ho mai “definito” il modo in cui faccio cinema. Però, slow cinema, sembra quasi…
Un insulto?
Nono, anzi, a me piace questo “slow cinema”. Però come hai detto tu, è un termine riduttivo. Non mi piace, come non mi piacerebbe il termine “fast cinema” o anche “great cinema”.
INT-42
25.07.2023
La rappresentazione sul grande schermo dei popoli indigeni è sempre stato un grande problema nell’industria cinematografica, americana e non, basti pensare ai grandi classici del genere western, dove ai nativi d’America venivano spesso assegnati ruoli di villain incivili o di personaggi secondari che esistono solo in funzione del protagonista, il “white saviour” della situazione. Questa rappresentazione stereotipata ha purtroppo caratterizzato il settore per decenni, ma il 2023 potrebbe essere finalmente l’anno della svolta.
Infatti, al Festival di Cannes sono state presentate tre opere che hanno messo in mostra diverse rappresentazioni dei nativi delle Americhe; in primis, Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, dove il regista ha deciso di ampliare la prospettiva sulla cultura di queste popolazioni rispetto al romanzo originale. The Buriti Flower di João Salaviza e Renée Nader Messora è invece un ibrido tra documentario e finzione che analizza diversi periodi storici della comunità indigena nelle foreste brasiliane. Infine, Eureka, la nuova opera del visionario Lisandro Alonso, si divide in tre sezioni dove il cineasta argentino esamina le diverse concezioni del popolo dei nativi americani. La prima sezione è un western in bianco e nero interpretato da Viggo Mortensen e Chiara Mastroianni, dove Alonso mette in mostra la rappresentazione stereotipata che abbiamo citato in precedenza. La seconda, invece, segue Alaina, poliziotta che lavora nella riserva indiana di Pine Ridge e i suoi lunghi turni notturni. La donna vive insieme alla nipote Sadie, una giovane ragazza che sta cercando di fare del bene per altri giovani della riserva. La terza parte è quella che più si avvicina al cinema contemplativo di Alonso, infatti, in questa, possiamo vedere un personaggio “diventare” un volatile esotico e viaggiare in Sud America attraverso lo spazio e il tempo ascoltando i sogni e i pensieri delle persone che vivono in queste zone.
Eureka è un’opera ambiziosa e accattivante, sia nello stile che nel messaggio, e ci ha sorpreso vedere Lisandro Alonso discostarsi, nelle prime due sezioni, dal suo tipico freestyle composto da lunghi piani sequenza che osservano la quotidianità dei personaggi.
Abbiamo avuto il piacere di intervistare il regista, con il quale abbiamo parlato delle tematiche principali della sua nuova opera, della rappresentazione dei nativi e dell’uso di non attori nei suoi film.
Voglio iniziare questa intervista chiedendoti quale è stato il punto di partenza di Eureka.
Se hai visto le mie opere precedenti, noterai che in qualche modo sono connesse tra di loro. Inoltre, la mia filmografia si discosta dalla classica narrativa e tendo sempre a mettere l’ambiente naturale in primo piano rispetto alla vita di città. Questo mi permette di analizzare come le persone vivono certe situazioni tramite svariati punti di vista. Le ambientazioni principali sono villaggi o baie isolate, dove gli esseri umani non devono seguire un preciso “ordine”, quei protocolli che caratterizzano la vita in città per sbarcare il lunario a fine mese. Mi sono spiegato?
Più o meno, sto cercando di capire l’ultima parte.
Beh, benvenuto nel mio mondo! (il regista ride, n.d.r.)
Negli ultimi anni abbiamo potuto vedere una rinascita del western, cosa ti ha spinto ad affrontare questo genere?
Nel corso della mia vita, sono sempre stato circondato da nativi e persone provenienti da riserve indiane. Alcune comunità vivono ancora come cento anni fa e, anche nei miei film precedenti, ho cercato di analizzare questo “comportamento”. Inconsciamente, sono sempre stato legato ai film western e con Eureka ho avuto l’occasione di girare la mia versione del genere. Quando stavo cercando idee per il film, mi sono chiesto come i nativi fossero stati già rappresentati sul grande schermo e, rivedendo alcuni western, ho iniziato a riflettere su questo tipo di caratterizzazione stereotipata. Non volevo mostrare lo stesso. Iniziando Eureka con la sezione western ho voluto mettere in risalto come i nativi non fossero stati rappresentati per quelli che sono, soprattutto se si considerano i nativi che vivono negli Stati Uniti.
Durante il film possiamo infatti vedere diverse rappresentazioni dei nativi.
Usare la parola “nativi” è diventata un’etichetta al giorno d’oggi, solo poche persone vivono ancora seguendo i canoni dell’epoca. La situazione in Sud America è diversa rispetto agli Stati Uniti. La principale differenza è che in paesi come la Colombia, l’Ecuador, la Costa Rica e il Perù, ad esempio, le persone vivono nelle città, mentre negli Stati Uniti le comunità dei nativi vivono isolate, escluse dal sistema. Nessuno esce dalla riserva e nessuno entra. È una grave problema che può portare ad un’interessante analisi sul concetto di “nativi”. Queste persone hanno la propria cultura e tradizione, ma è come se avessero del rancore verso gli altri. Vivono ancora nel passato soprattutto perché non hanno i mezzi per vivere nel presente. Ovviamente questa è la mia visione, non so come queste persone la pensino realmente. Anche se ci ho lavorato assieme sono sempre stato considerato un outsider.
Chiara Mastroianni ha un ruolo secondario nel film, puoi dirmi qualcosa sulla vostra collaborazione.
Ho conosciuto Chiara un paio di anni fa a Cannes, eravamo nella stessa giuria della sezione Un Certain Regard. Siamo diventati buoni amici e da allora siamo rimasti in contatto. Le ho chiesto se voleva fare parte del mio nuovo film e ha accettato subito, aveva capito il “concetto” del lungometraggio, se ce n'è uno. Era rimasta affascinata dal doppio personaggio che doveva interpretare.
Hai scritto il ruolo pensando a lei?
In verità no. All’inizio il suo personaggio doveva essere interpretato da un uomo, ma ci sono stati problemi di agenda e ho deciso di cambiare. Poi, siccome il film è una coproduzione internazionale, a volte, bisogna rispettare dei vincoli contrattuali, e avevo bisogno di un attore francese, quindi ho chiesto a lei. Però nella sceneggiatura il ruolo non aveva un genere specifico.
È stato più interessante vedere questo personaggio interpretato da una donna.
Sono d’accordo. Di solito riesco a creare una connessione più forte, culturale o lavorativa, con uomini. Specialmente quando, nei miei film precedenti, dovevo cercare dei non professionisti per i ruoli principali.
Però le protagoniste di Eureka sono due donne.
Volevo un certo livello di sensibilità in questi due personaggi che non avrei avuto se fossero stati interpretati da uomini. Non so perché la penso così. Prendi il personaggio dello sceriffo, possiamo percepire la sua stanchezza e frustrazione. Alaina è una vera poliziotta nella vita ed era incinta del quinto figlio. Ha partorito qualche settimana prima dell’inizio delle riprese. Questa situazione ha aggiunto un certo livello di emotività nel personaggio, soprattutto per come vede la situazione attorno a lei.
Rimanendo sempre sulle due protagoniste, come è stato il processo di casting?
Prima di iniziare a girare o scegliere gli attori dovevo richiedere diversi permessi, come al consolato della riserva e alla stazione di polizia. In questo lungo periodo ho conosciuto molte persone. Alaina e Sadie non sono due attrici, “interpretano” loro stesse in qualche modo. Come detto in precedenza, Alaina è una poliziotta e ho imparato molto da lei. Avere il suo appoggio è stato fondamentale nell’organizzare le logistiche del film stesso. Spesso, quando apri la porta al commissariato, ti trovi davanti amici o qualcuno della tua famiglia. È complicato, devi affrontare problematiche che riguardano persone a te vicino. E devi continuare così. Ogni singola notte. Hanno turni lunghi e stressanti, devono mettere tante persone in carcere e non sono delle esperienze piacevoli ovviamente. Quello che avviene nella realtà è molto peggio di quello che ho mostrato nel film. Volevo mostrare la realtà di questa persona che si deve svegliare ogni giorno e cercare di portare un po’ di ordine in un luogo ostico. Ci sono solo ventitré ufficiali per circa cinquantamila persone. Inoltre mancano le risorse, ma nonostante tutto loro ci provano. Anche se hanno sofferto per anni ed anni, si stanno impegnando per la propria gente. Anche Sadie sta cercando di fare del bene per la comunità, allena giovani ragazzi e gli fa fare dello sport. Ti devo ricordare che la maggior parte di questi non finiscono la scuola primaria e stanno vivendo una realtà orribile. È una situazione veramente complessa.
In questo film hai collaborato con Timo Salminen, direttore della fotografia conosciuto per le sue collaborazioni con Aki Kaurismäki, com'è stato lavorare con lui?
Eureka è la prima collaborazione tra me e Timo. Ammiro il modo in cui riesce a catturare le luci e soprattutto quel suo stile “classico” che si discosta quasi completamente dal mio. Non so se ne ho uno, ma mi piace osservare e riprendere di continuo, non dico mai stop. Timo alcune volte interveniva e consigliava diversi modi per riprendere una scena, come l’utilizzo del campo-controcampo ad esempio. Ha aiutato ad “organizzare” il mio punto di vista e ha aggiunto qualcosa di artificiale.
Questo ha influenzato sulla struttura narrativa del film?
Difficile rispondere, in alcune parti si. La sezione western soprattutto. È come se avesse diretto lui quella sezione, ha organizzato lo spazio e gestito il ritmo. Ho procurato i “mezzi” per la scena e ho cercato di tenere tutti “felici” durante le riprese. Credo sia questo il mio lavoro quando non devo lavorare con attori non professionisti. Comunque, durante la fase di montaggio ho sistemato il tutto, aggiunto una certa tensione nelle immagini e scelto la lunghezza di ogni sequenza. Ero a Buenos Aires a fare la color correction del film e ho avuto una piccola discussione con Timo su alcune scene dell’ultima sezione. Ma nonostante ciò, vorrei lavorare ancora con lui, mi ha aiutato molto.
Continuando sulla sezione western, è stato impegnativo rappresentare questi cliché?
Molto, ma Timo e Viggo mi hanno reso la vita più facile. Il western ha le proprie regole e protocolli, quindi si, è stata una sfida per me. Ma allo stesso tempo, mi sono divertito molto a girare questa sezione, bevevamo tequila tra una ripresa e l’altra per dirti. La storia è piuttosto semplice in questo caso, c’è il nostro eroe che deve recuperare la figlia e per farlo deve passare attraverso tre/quattro persone. Tutto qui. Ma è stato comunque complicato, come tutto il film! C’erano molte persone coinvolte nella lavorazione che provenivano da diversi paesi e ognuno ha il proprio modo di lavorare. Di solito ero abituato a fare le cose come volevo, ero il “capo” di me stesso. La sezione western però non è risultata piuttosto complicata da girare in confronto a quella nella riserva negli Stati Uniti.
Ad un certo punto nel film possiamo vedere Sadie trasformarsi in un volatile. C’è qualche motivazione particolare dietro alla scelta di quello specifico animale?
È un uccello che tipicamente vola dal sud degli Stati Uniti al nord dell’Argentina. Quando stavo cercando dei possibili volatili da utilizzare per gli effetti speciali, ho trovato questo grosso volatile con dei colori che mi hanno colpito molto. Aveva una certa eleganza e secondo me rispecchia appieno la trasformazione di Sadie.
Te l’ho chiesto perché magari c’era qualche significato più profondo legato alla cultura dei nativi.
Non che io sappia, ma sei libero di fare le tue ricerche (il regista ride, n.d.r.). Se trovi qualcosa di interessante fammi sapere, aiutami a fare il mio lavoro!
Durante i turni di Alaina sentiamo costantemente la voce del centralinista che comunica alla poliziotta dove deve andare e cosa fare. Non vediamo mai la persona dietro a questa voce, c’è qualche motivazione dietro questa scelta?
Non proprio. Abbiamo dato al centralinista un microfono e registrato solo la voce perché, ad essere sincero, non era un bravo attore, però non dirglielo (il regista scoppia a ridere, n.d.r.)! La persona che interpreta il centralinista lo aveva fatto come lavoro per molti anni, semplicemente non aveva un viso che si prestava al film. Eravamo già lì e non potevo cambiare persona. Avevamo chiesto alla “vera” centralinista, ma era troppo impegnata con il proprio lavoro e aveva anche problemi familiari. Era un periodo piuttosto pesante per queste persone, soprattutto per via della tempesta di neve che ha causato ulteriori problemi con le comunicazioni. Ho dovuto anche cambiare leggermente la sceneggiatura e dare più scene a Sadie, che dal canto suo è stata molto brava ad improvvisare in certe situazioni.
Si può dire che la scelta di collaborare con non professionisti abbia portato a risultati sorprendenti.
Esatto, come sempre direi. Gli attori non professionisti sono in grado di portare qualcosa in più rispetto ai professionisti. Più che altro perché queste persone vivono e conoscono la vita nelle riserve. Persone al di fuori di questa realtà potrebbero non capire certi aspetti. Per esempio, all’inizio il ruolo della poliziotta doveva andare a Lily Gladstone, l’attrice di Killers of the Flower Moon, il nuovo film di Scorsese. Ma, dopo sei mesi di conversazioni, mi ha detto che non era molto convinta di fare parte del film e quindi ho dovuto scegliere Alaina. Negli Stati Uniti ci sono sempre diverse questioni e problematiche sul fatto che un outsider decida di fare un film sui problemi dei nativi. Penso sia normale che un attore professionista americano possa rifiutare un ruolo poichè non si sente sicuro di presentare un personaggio ad un pubblico che vive al di fuori delle riserve.
Rimanendo sull’argomento attori, è arrivato il momento di chiederti di Viggo Mortensen.
È fantastico. Ha finito di girare un film western qualche mese fa in Messico (The Dead Don’t Hurt, interpretato da Mortensen e Vicky Krieps, n.d.r.) e ho avuto il piacere di essere sul set e partecipare a una scena come comparsa. È davvero un grande partner in ogni senso, sia davanti che dietro alla camera. È una persona davvero appassionata e comunichiamo spesso. Ha visto il film prima di Cannes e gli è piaciuto molto. Gli chiedo spesso consigli e, a dirla tutta, è lui che mi ha mostrato la riserva in cui abbiamo girato. Aveva vissuto lì per alcuni mesi quando stava girando Hidalgo (2004). Gli avevo chiesto se conosceva qualche riserva negli Stati Uniti e mi ha passato dei contatti. È sempre stato partecipe nella lavorazione di Eureka e parliamo spesso anche di futuri progetti che potremmo realizzare insieme. È un grande uomo, inoltre è cresciuto in Argentina, e per questo riesce a capirmi meglio.
C’è una costante evoluzione nel tuo cinema, sia nello storytelling che nell’ambizione dei tuoi progetti. Con Eureka mi hai davvero sorpreso.
È corretto quello che dici, è un processo naturale. Cerco sempre di stupire me stesso e chi mi sta intorno. Non voglio avere il controllo su quello che il film sarà. Come ti ho detto in precedenza, mi piace lavorare con la crew e improvvisare su quello che bisogna fare e come girarlo. Nessuno chiede mai nulla perché si è creato un rapporto di fiducia. La fase di riprese sono molto lunghe di solito, per Eureka sono durate due/tre anni. Poi inizia la fase di montaggio. La sezione western è stata più semplice, il resto del film è freestyle. Mi piace questo approccio e non sono l’unico cineasta ad adoperarlo. Amat Escalante, Carlos Reygadas, Miguel Gomes, Pedro Costa, Tsai Ming-liang, Apichatpong Weerasethakul e Albert Serra sono altri registi che, come me, seguono questo stile libero, senza regole. Seguo il lavoro di questi cineasti più che altro perché si considerano degli artisti audiovisivi, che si discostano da una certa narrativa. Sapevo fin da subito che non sarei diventato Woody Allen.
Vorrei concludere l’intervista chiedendoti cosa ne pensi del termine “slow cinema”. Spesso il termine viene accostato al tuo lavoro ed usato in maniera troppo riduttiva per descrivere i tuoi film, ma anche quelli di diversi cineasti.
Oh sì, sono un regista dello slow cinema (il regista ironizza ridendo, n.d.r.). Cosa si intende con questo temine? È accostato al fatto che il ritmo di un film è piuttosto lento o perché ti propone un modo lento per interpretare certe idee? Non ho mai “definito” il modo in cui faccio cinema. Però, slow cinema, sembra quasi…
Un insulto?
Nono, anzi, a me piace questo “slow cinema”. Però come hai detto tu, è un termine riduttivo. Non mi piace, come non mi piacerebbe il termine “fast cinema” o anche “great cinema”.